Studenti a Kathmandu – Day 25

Un diario per immagini, il Nepal del dopo terremoto e la vita che continua

testo e foto di Michela Chimenti, da Kathmandu

“Non posso completare i miei progetti perché adesso non ho i soldi nemmeno per comprare le tele o i colori” dice Sarala, 25 anni, illustratrice. Quando ho deciso di intervistare alcuni studenti dell’Università di Kathmandu di Arte e Design volevo raccontare la quotidianità di giovani artisti che si stanno formando in questo Paese. Non avevo previsto quanto il
terremoto del 25 aprile 2015 sarebbe stato centrale nel loro storie.

Sarala vive a Balaju, Kathmandu, e impiega circa un’ora per raggiungere la Kathmandu University (KU) col bus locale. È molto timida e durante l’intervista si ferma più volte per cercare le parole in inglese. In realtà, quando iniziamo a parlare del terremoto e di come sia cambiata la sua vita da quel giorno, le parole arrivano, dirette e facili, veloci e precise.

“Mia madre e mio fratello gestivano 2 negozi e quello che avevamo ci bastava. Dopo il terremoto abbiamo vissuto 3 mesi nei rifugi temporanei fino a quando, con l’aiuto dei parenti, siamo riusciti a prendere una casa in affitto, in attesa che la nostra nuova fosse finita”.

Quando arrivo da Sarala la situazione è davvero critica. Lei mi guarda e dice: “Come possiamo lavorare con la strada sventrata davanti alle nostre attività? È impossibile. Non chiedo soldi a mia madre, so che non ci sono. Non sono l’unica a studiare in famiglia. Mio fratello vuole che incominci a lavorare per dare una mano, ma io quantomeno vorrei finire gli studi”.

Fra tutti gli studenti c’è un filo comune: la scuola d’arte non è stata la prima scelta. Hanno dovuto lottare anni per ottenere il sostegno da parte della famiglie. “Non sono né medici né ingegneri e – credo come anche in Occidente – considerarsi un artista viene ancora visto come una perdita di tempo, qualcosa di non concreto, di non veramente qualificabile” – racconta Sujan, assistente alla KU.

“Le famiglie stanno imparando a capire che i ragazzi devono sentirsi liberi di scegliere. Abbiamo così tanti corsi che gli studenti possono concentrarsi sulla loro individualità e sulla loro crescita come artisti in qualunque campo”.

La KU è un’università privata ma Sujan ci tiene a specificare che la priorità non è il profitto “non abbiamo borse di studio e le tasse totali per i 4 anni di corsi ammontano a circa 2000 euro”. Insegniamo le tecniche tradizionali del nostro artigianato e delle nostre ceramiche – siamo la prima università a farlo – perché è da qui che veniamo e non possiamo eludere il nostro passato. Allo stesso tempo, non fermiamo chi voglia avventurarsi per altre strade. Dipende sempre tutto dalla volontà dello studente come artista. Siamo noi a seguirlo, non viceversa”.

Il caso di Siddhartha è emblematico. Ha 28 anni e vive a Sakhu con la sua famiglia, tutti agricoltori. Ogni giorno impiega almeno 3 ore per raggiungere la KU e altrettante per tornare a casa. “I miei genitori volevano che diventassi ingegnere e all’inizio non mi hanno sostenuto.

Mi sono iscritto a Scienze, ho frequentato 2 anni; poi sono passato a Storia. Ho incominciato a patire questa situazione perché ero costretto a fare qualcosa che odiavo. Quindi ho cambiato ancora e sono passato a Marketing. Finiti gli studi ho fatto il manager in un’azienda a Dulikhel per 2 anni. Avevo un contratto e un buono stipendio, ma ancora non era la mia strada. Un giorno ho deciso. Dopo 10 anni trascorsi a fare qualcosa che non mi piaceva,mi sono licenziato e mi sono iscritto alla KU, senza dire niente alla mia famiglia. Dopo 4 giorni a girare per casa hanno iniziato a chiedermi perché non andassi al lavoro, e a quel punto sono stato costretto a vuotare il sacco”.

Per Dinesh e Shyam, 22 e 26 anni, è stato tutto molto più facile. Vengono da famiglie di artisti e artigiani e sono stati supportati sin da subito verso questa scelta. Dinesh si è diplomato un anno fa ed è diventato tutor all’università. Non guadagna molto ma spera di avviare un’attività con il padre pittore e uno studio tutto suo. Shyam viene da Thimi, vicino a Bhaktapur, famoso per l’eccellenza delle sue ceramiche. Mi mostra alcuni suoi dipinti e poi orgoglioso mi dice che spera di seguire le orme del padre, ceramista e artigiano.

“Oggi gli studenti nutrono più rispetto nei confronti della nostra storia e delle nostre radici artistiche, sono molto più consapevoli di quale sia la nostra eredità. Molti studenti decidono alla fine di restare in Nepal, perché capiscono che anche qui hanno possibilità di realizzarsi come artisti.

Sono sincero: all’inizio preferivo lavorassero in Nepal per il Nepal, ma io stesso ho cambiato idea. Quello che dico loro è: se avete la possibilità, uscite dal Paese e guardatevi attorno, esponetevi il più possibile, senza paura”.

Dopo tutti questi anni di lotte per affermarsi hanno tutti dovuto affrontare una nuova sfida, loro malgrado: il terremoto del 25 aprile 2015. “Il terremoto ha toccato tutto, ogni aspetto delle nostre vite” e Sujan ancora non si da pace. “Abbiamo dovuto abbandonare questa struttura e ci siamo trasferiti a Bungamati ad aiutare nella ricostruzione, a parlare con le persone e a dare loro supporto tecnico e morale. Alcuni lavori commissionati dall’estero sono stati realizzati proprio dai nostri studenti. È stato un modo per aiutare il nostro Paese, ma anche per mettersi in gioco come individui e come artisti. Abbiamo trascorso 3 mesi così, poi siamo tornati alla sede principale”.

Sujan si ferma. Non vuole piangere. Cerca le parole per mediare coi suoi sentimenti, per non essere diretto e violento, ma il tono è quello di una persona ferita, profondamente. “L’anno accademico è stato psicologicamente difficile. Sapevo che ce l’avremmo fatta, ma è stata una tortura vedere tutto distrutto, tutto al collasso. Ci siamo spaccati la schiena, tutti, per ricostruire la scuola e i laboratori… Ma a volte ti sembra di stare in un castello di sabbia, e sai che non sarà l’ultima volta”.

 

 

Shiva, 26 anni, è un graphic designer e la sua situazione è quella che certamente mi ha toccata più nel profondo. Vive a Khokana, un villaggio mangiato per l’85 percento dal terremoto. È passato dall’avere una casa di 3 piani, con un grande spazio per lui e per la sua arte, a vivere in una stanza fatta di lamiera con 1 sorella, 2 fratelli e i genitori. È sbagliato pensare che tutte queste famiglie vivessero in condizioni precarie e abitazioni fatiscenti sin da prima, che non si siano accorti della differenza. Shiva ha ancora le chiavi della casa che è per buona parte collassata durante il terremoto e mi porta a visitarla. Lo seguo, mi dice dove camminare e a cosa stare attenta. Mi chiede spesso scusa. Shiva è positivo: ama il suo villaggio e il suo sogno è quello di poter partecipare attivamente alla sua ricostruzione, anche proponendo cambiamenti e nuove politiche.

Siddhartha in quel 25 aprile stava scolpendo il suo nome su una tavoletta di legno quando il terremoto è incominciato: ha mollato tutto ed è corso nella stanza a fianco in cui sua sorella stava urlando in preda al panico. “Per un paio di mesi la vita è stata strana. I nostri genitori non volevano che uscissimo o ci allontanassimo da casa perché se fosse accaduto di nuovo volevano fossimo tutti insieme. Dopo qualche mese, nonostante la paura, siamo andati avanti. Era la cosa più naturale da fare”.

Continua: “Dopo il terremoto abbiamo lavorato tutti insieme per costruire i rifugi temporanei. Abbiamo parlato con le persone, abbiamo scambiato il nostro dolore, perché quello che era successo a loro è quello che è successo anche a noi, a
tutti. Ci stavamo aiutando a vicenda perché siamo passati tutti attraverso la stessa paura”.

Quando è arrivata la scossa Dinesh era in università, stava preparando il progetto di fine hanno, un dipinto su una grande tela, non poteva muoversi dal laboratorio. “Trascorrevo 6 giorni su 7 in università per finire il mio progetto. Poi la scossa”. Quando entro in casa sua mi mostra le tele sue e di suo padre. Sento i rumori del pavimento che vibra sotto il peso di ogni nostro passo. Guardo il soffitto fatto di cartoni. Sorride e dice: “fra poco ci trasferiamo in un altro appartamento. Il governo non ha ritenuto che i danni alla nostra casa meritassero un risarcimento”.

Lo stesso vale per Shyam: quando arrivo a casa sua, la famiglia è impegnata a spostare mattoni e macerie nel tentativo di costruire una porzione di casa dove poter stare in sicurezza, in attesa di rendere completamente agibile quella in cui stanno ancora ora. Shyam sta in piedi davanti a casa sua. Dal balcone al secondo piano, prima del terremoto, poteva
accedere direttamente al suo studio, che adesso non c’è più.

L’inglese di Sarala migliora battuta dopo battuta: “Non riesco a studiare. La mia camera è soffocante. Ci sono troppe pressioni, da parte di chiunque, è doloroso sapere di essere bloccata qui. Ogni sabato – giorno di festa in Nepal – ci si ritrova e tutti piangono, non hanno una casa, non sanno come andare avanti, i soldi da parte del governo tardano ad arrivare, e io in queste condizioni non riesco a concentrarmi”.

Sarala è arrabbiata, e vorrebbe poter prendere a calci il centro della terra per averle stravolto l’esistenza.

“Tutto è possibile se siamo determinati, ma in Nepal non ci sono troppe opportunità e si lotta ogni giorno per la propria sopravvivenza, come individui, e per non impazzire. Come sai, per la nostra società, a un certo punto devi sposarti. La mia paura è che anche se riuscissi a terminare gli studi non ho certezze di potermi rendere indipendente, a prescindere dal mio futuro marito”.

E questa è la più grande delle sfide: sopravvivere, come donna e come artista, alle convenzioni sociali. Shreeti: “Io ho già 27 anni, avrei dovuto sposarmi almeno 4 anni fa. I miei genitori hanno provato a combinare il matrimonio, ma mi sono opposta. Ho perso anni della mia vita a studiare quello che volevano loro, poi finalmente mi hanno ascoltata”. La casa di Shreeti è grande e bella, e non ha subito danni durante il terremoto. “Vengo da una famiglia benestante, e per loro è stato difficile all’inizio che io non avessi un lavoro concreto e seguissi l’arte. Come loro, la società sta cambiando: l’arte in generale è sottovalutata, anche ai bambini arriva il messaggio che l’arte sia qualcosa di accessorio. È per questo che voglio insegnare arte: per cambiare la mentalità della mia gente”.

Shreeti è molto consapevole delle proprie capacità ed è molto determinata: “Per ora voglio concentrarmi solo sui miei studi. Le giovani donne stanno incominciando a capire che non esiste solo la famiglia, ma che anche la carriera è importante. Non credo che il matrimonio sia il punto di arrivo. Al primo posto ci deve essere la realizzazione personale, poi viene tutto il resto”.

Sandhya ha 32 anni, è un’insegnante d’arte e ha un suo piccolo studio da pittrice. “Volevo studiare Belle Arti sin da quando ero bambina, ma i miei genitori sono sempre stati contrari. Quindi ho studiato Scienze per 3 anni ed è stato tempo perso. Poi ho convinto mia madre e finalmente sono riuscita ad iscrivermi alla KU. Ti ho già detto quanto sono testarda?” – sorride – “Sono stata la prima persona a laurearsi in questa università”.

Le battaglie di Sandhya non finiscono qui: “Quando sei uno studente sei completamente dipendente dalla tua famiglia e dalle loro decisioni. Poi cresci e inizi a decidere per te stesso. Dopo aver tanto lottato ed essermi laureata, mi sono sentita svuotata, depressa, frustrata. L’insegnamento mi ha salvata, mi sono rimessa in gioco e ho capito che potevo farcela ed essere finalmente indipendente. Volevo fare qualcosa per me, per la mia famiglia e per la società dal punto di vista artistico”.

Le chiedo cosa pensa adesso la sua famiglia del suo lavoro: “Non sono sposata. La mia famiglia ha provato ad organizzare un matrimonio, ma ti ho già detto che sono abbastanza testarda. Ho un fidanzato e non sono molto contenti. Purtroppo la nostra società vive ancora immersa in questa convenzione sociale, ma le cose poco per volta stanno cambiando. Anche dal punto di vista artistico, non mi è mai successo di sentire genitori entusiasti di figli iscritti alla scuola d’arte. Oggi invece sento questo cambiamento”.

Quando le chiedo del terremoto, il suo tono di voce cambia completamente: “Siamo ancora nella stessa casa. Siamo stati fortunati, ma il terremoto mi ha cambiata completamente. Quando è arrivata la scossa ero ad un punto decisivo della mia vita. Dovevo capire che tipo di artista volevo essere e poi è arrivata la scossa e mi ha spezzato totalmente. Mi sono rintanata in casa per 2 mesi. Mia madre mi ha costretta ad uscire di nuovo, ad incontrare gli amici e ricominciare a vivere. Ho seguito il suo consiglio.

Adesso posso dirmi soddisfatta della mia vita e di cosa sono. Ho già un nuovo obiettivo in testa: mi piacerebbe studiare arte terapia. Ho capito nei miei momenti di depressione quanto l’arte sia importante. Ci sono passata. Credo che ogni bambino abbia qualcosa da dire, ma non sappia come esprimerlo, e nessuno glielo domanda: vorrei imparare ad aiutarli con l’arte”.

La nuova generazione è proprio qui davanti a me e ha coraggio da vendere.

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