Fallujah e le vene aperte dell’Iraq

Tra proclami altisonanti dell’esercito regolare iracheno e una realtà più complessa, decine di migliaia di civili intrappolati in una situazione dove ogni soluzione appare delicata

di Christian Elia

Una foto dell’Associated Press, scattata da lontano, mostra un’umanità stremata dalla paura. Si stringono, riesci a immaginare parole di incoraggiamento, sussurrate. Qualcuno piange; molti bambini, come sempre. Perché in guerra scappano, e muoiono, i più vulnerabili: donne, vecchi, bambini.

Iraq, Fallujah, fiume Eufrate. Quest’ultimo ancora si chiederà come ha fatto l’umanità, in quello che per lui deve sembrare un battito di ciglia, a distruggere la culla della civiltà, a farne un flusso di morte e sangue. Sono i civili che scappano dai combattimenti di Fallujah, sfruttando quel tratto di fiume che in quel punto è largo circa 300 metri. Una delle poche vie di fuga dalla città.

Dall’altra parte, ci siamo noi. Tutti noi. Fermi, a guardare come si tenta di restare aggrappati alla vita. Lo stesso servizio fotografico, dove l’Ap mette solo il suo logo e non il nome del fotografo, rende bene l’idea. Abbarbicati alla vita, aggrappati all’anima con i denti, tra funi di fortuna, barchette troppo cariche, persone messe in difficoltà dalla corrente.

E sotto il tiro dei cecchini. Almeno secondo le testimonianze raccolte dallo staff del Norwegian Refugee Council, che gestisce un campo profughi sulla sponda più lontana dai combattimenti e che ha accolto 500 famiglie.

Dalle loro interviste, emerge un quadro apocalittico: l’Isis gli spara addosso, le milizie sciite che affiancano i militari regolari di Baghdad torturano i prigionieri sunniti e commettono abusi sui civili. E’ come stare sulle Stige, in attesa di un Caronte che si muove tra un inferno e l’altro.

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Secondo fonti locali, sarebbero almeno venti i civili morti nei campi profughi: malati, o anziani, che non hanno retto alla fatica, al caldo, alla paura. Per l’Onu ci sono almeno altri 3mila civili in trappola in città, per le ong sono molti di più, secondo alcune fonti fino a 50 mila gli intrappolati. Per un’ondata di profughi previsti superiore alle 80mila persone, in strutture (almeno quelle più vicine al fronte) che ne possono tenere non più di 20mila.

Tutto questo, si potrebbe dire, è iniziato il 30 maggio 2016, quando l’esercito regolare iracheno, milizie sciite e alcuni gruppi sunniti locali hanno attaccato Fallujah da nord e da sud, come aveva annunciato il 23 maggio scorso il premier iracheno Haider al-Abadi. Un’operazione militare molto importante.

Perché Fallujah è alle porte di Baghdad, perché controllando Fallujah si può portare scompiglio nelle città sciite di Kerbala (con i suoi luoghi sacri) e Hilla. Perché Fallujah è stata Isis prima dell’Isis. Nel senso che quando un convoglio di pick-up, carichi di miliziani armati fino ai denti, ha fatto irruzione per le strade della città a gennaio 2014, neanche si conosceva il loro nome. Poi è arrivato agosto 2014, il proclama di Mosul, il califfo al-Baghdadi.

Ma quella di Fallujah è una storia più lunga, che inizia nel 2003, quando è stato rovesciato il regime di Saddam. Da dire che Fallujah era un baluardo del partito Ba’ath, ma è capitolata in pochi giorni, come tuttoil Paese. Fino a quello stillicidio di morte che è diventato il Paese. Dal 2003 al 2008, Fallujah è stato una sorta di teatro di massacri e attentanti.

Nel 2004, le milizie di al-Zarqawi, che all’epoca rispondevano ancora al brand internazionale di al-Qaeda, hanno preso la città O almeno così raccontava il comando militare Usa, molto più interessato a lavare l’onta dei quattro contractors della BlackWater (Jerry Zovko, Scott Helvenston, Michael Teague e Wesley Batalona) uccisi, trascinati nella polvere e appesi al ponte della città il 31 marzo 2004.

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Nessuno all’epoca aveva raccontato di come fossero andate le cose. La BlackWater, che tra i suoi pezzi da novanta vantava anche Dick Cheney, all’epoca vice presidente Usa, per aumentare i profitti, mandava in giro i suoi dipendenti senza le protezioni necessarie. I quattro, dei quali almeno due poco esperti, si trovarono imbottigliati e reagirono con le armi. La folla, inferocita da mille altri episodi simili, aggredì le loro auto. A dirlo sono gli stessi familiari delle vittime, che fecero causa alla BalckWater.

Le immagini barbare del linciaggio, però, fecero il giro del mondo. Quando i marines ripresero Fallujah, ribattezzarono quel ponte BlackWater Bridge, lasciando messaggi in ricordo dei caduti. A che prezzo venne ripresa la città. La cosiddetta battaglia di Fallujah iniziò il 4 aprile e terminò il 1 maggio 2004, con la città assediata come nel Medio Evo, con uso massiccio di fosforo bianco, come hanno appurato inchieste giornalistiche e come ha ammesso mesi dopo lo stesso Dipartimento di Stato Usa.

“Ho sentito io l’ordine di fare attenzione perché veniva usato il fosforo bianco su Fallujah. Nel gergo militare viene chiamato Willy Pete. Il fosforo brucia i corpi, addirittura li scioglie fino alle ossa”, dichiarò un veterano della guerra in Iraq a Sigfrido Ranucci, inviato di Rai News 24. “Ho visto i corpi bruciati di donne e bambini – aggiunse l’ex militare statunitense – il fosforo esplode e forma una nuvola. Chi si trova nel raggio di 150 metri è spacciato”.

L’inchiesta di Rai News 24, Fallujah. La strage nascosta, presenta oltre le testimonianze di militari statunitensi che hanno combattuto in Iraq, quelle di abitanti di Fallujah. “Una pioggia di fuoco è scesa sulla città, la gente colpita da queste sostanze di diverso colore ha cominciato a bruciare, abbiamo trovato gente morta con strane ferite, i corpi bruciati e i vestiti intatti”, dichiarò Mohamad Tareq al Deraji, biologo di Fallujah.

Una mattanza. Della quale ancora oggi la città e la comunità porta i segni. Li chiamano i bambini di Fallujah, quelli nati dopo le operazioni militari del 2004. Li chiamano così perché affetti da impressionanti deformazioni.

L’esito militare dell’operazione militare in corso, che secondo il generale iracheno al-Obeidi ha garantito la liberazione dall’Isis del 90 per cento della città, mentre per i vertici militari Usa c’è ancora una resistenza di autobombe e attentatori suicidi, non avrà alcun senso se, ancora una volta, non si vorrà resitituire Fallujah alla vita.

Serve un piano di ricostruzione, lavoro, servizi. Serve, come ha spiegato Alì Mamouri su al-Monitor, un piano razionale di rientro degli sfollati, serve un accordo con Baghdad su una forma di forza di sicurezza locale che faccia sentire la popolazione locale al riparo dalla violenza settaria delle milizie sciite.

Servirebbe anche giustizia, per tutto questo. Servirebbe pace, per chi ha dichiarato di “aver mangiato cibo per animali nelle ultime settimane per sopravvivere”, servirebbe un futuro per Fallujah e per l’Iraq intero, dopo questo incubo che all’inizio chiamavano liberazione. Quella sarà l’unica battaglia di Fallujah che qualcuno potrà dire di aver vinto.