Aspettando libertà

Il 28 giugno 2006 iniziava la prima offensiva militare israeliana dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza: un assedio che non è ancora finito. Lo speciale di Q Code Mag e Osservatorio Iraq

di Cecilia Dalla Negra e Christian Elia

Il 28 giugno 2006 è iniziata una lunga notte e l’alba ancora è lontana. Oggi, dieci anni fa, per la prima volte le truppe di terra dell’esercito israeliano varcavano il confine con la Striscia di Gaza, dopo il disimpegno unilaterale voluto dal governo guidato dal premier Ariel Sharon nel 2005.

La tensione, da tempo, era molto alta. Perché, almeno per tutti quelli che ci avevano creduto, il disimpegno dalla Striscia fin da subito non era parso come un passaggio sul percorso della libertà. Perché smantellare le colonie illegali in Gaza, non aveva coinciso con la possibilità di una vita reale nella Striscia. Ma era ben presto diventato un assedio. Che dura ancora oggi.

Il 28 giugno 2006 viene lanciata dai comandi militari israeliani, con il benestare dell’esecutivo guidato dal premier Ehud Olmert, l’operazione Piogge Estive, che inaugura una serie di offensive militari che si distingueranno per violenza, vittime civili, nomi dal vago sentore biblico e per non aver mai risolto alcun problema.

Di fatto, senza precedenti nella storia, la massiccia mobilitazione delle forze di aria, di terra e di mare dell’esercito israeliano avviene per liberare il caporale Gilad Shalit, rapito da un commando palestinese il 25 giugno precedente, a Kerem Shalom, nei pressi del confine della Striscia. I miliziani palestinesi erano sbucati da un tunnel lungo circa tre chilometri, attaccando l’avamposto dei militari israeliani e rapendo Shalit.

In molti, però, non guardano solo l’ultimo atto di un’escalation che aveva portato la tensione alle stelle molto prima del rapimento. Per esempio, dal dicembre 2005 erano iniziati lanci di razzi Qassam dalla Striscia verso Israele, come erano da tempo in atto arresti arbitrari di palestinesi dentro la Striscia.

L’episodio che maggiormente aveva fatto infuriare i palestinesi era la cosiddetta strage della spiaggia di Gaza, quando un raid punitivo israeliano si era materializzato nel massacro di dieci civili, tra cui donne e bambini, e di 40 feriti, il 9 giugno 2006.

In particolare, la tensione era già alle stelle dal gennaio 2006, quando Hamas aveva stravinto quelle che – a detta di decine di osservatori internazionali – erano state le “elezioni più democratiche del Medio Oriente”. Ma Hamas non andava più bene a Israele (che pure ne era stato lauto finanziatore negli anni Ottanta quando si trattava di indebolire la leadership di Yasser Arafat). Quindi disimpegno si, ma con il veto perenne su chi e come dovesse governare i palestinesi.

Era allora iniziato quel processo di spaccatura all’interno della società palestinese che solo di fronte agli attacchi dell’esercito israeliano, e non sempre, pareva ritrovare un elemento di unità.

L’esercito israeliano entra a Khan Yunis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, il 28 giugno per recuperare Shalit, mentre l’aviazione bombarda duramente per spezzare in due la Striscia e impedire gli spostamenti da sud a nord e viceversa. La Striscia, sotto le bombe, resta al buio per la distruzione degli impianti energetici.

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L’aeroporto di Gaza viene raso al suolo e, quello che era stato un punto di sbocco delle vite claustrofobiche dei palestinesi della Striscia, cessa di funzionare. Hamas invita la popolazione a tener duro, mentre viene rapito – e ucciso, Eliahu Asheri, giovane colono ebreo. Dopo tocca a Noach Moskovich.
Si combatte, mentre il 29 giugno 2006 l’esercito israeliano arresta in massa tutti i deputati di Hamas legittimamente eletti dal popolo palestinese.

Il ‘cessate il fuoco’ arriva solo a novembre 2006, quando hanno perso la vita oltre 400 palestinesi e 5 israeliani. E la Striscia inizia a essere quel cumulo di macerie che, a cicli alterni, è stata poi vittima di altre operazioni militari, da Piombo Fuso (2009) a Margine di Protezione (2014), passando per Colonna di Nuvola (2012).

Gaza è diventata un carcere a cielo aperto. Dieci anni, passati tra un massacro e l’altro, senza alcun serio piano negoziale per risolvere a livello internazionale la situazione. Anche gli Usa e l’Ue non hanno mai accettato il governo di Hamas, lasciando la società civile di Gaza tra le lacrime, il sangue e l’orrore per spingerla a rovesciare il partito, come se fosse accettabile spingere una popolazione alla fame per ottenere il ‘regime change’ auspicato a Tel Aviv, Bruxelles o Washington.

Una prigione dimenticata anche dalla leadership palestinese della West Bank, che nel suo equilibrismo da bilanciamento del potere ha voluto dimenticare quel pezzo di terra. Lanciando che su di essa – e sulla pelle dei gazawi – si scrivessero i nuovi confini di uno status quo congeniale affinché niente cambi mai davvero.

Osservatorio Iraq e Q Code Mag, oggi, dieci anni dopo il primo attacco, pubblicano un dossier con gli articoli scritti in questi anni. Perché resti memoria, perché si immagini un futuro che abbia al centro i diritti umani della popolazione civile della Striscia di Gaza

Un milione e mezzo di persone, in un territorio privo di risorse e di speranze che, secondo le Nazioni Unite, arriverà a superare i due milioni nel 2020. Tutti i parametri parlano di un incubo: la disoccupazione, l’acqua potabile, l’accesso alle cure mediche, l’istruzione, l’accesso al cibo. In questi anni, miliardi di dollari di progetti di cooperazione internazionale sono stati distrutti negli attacchi.

Nulla di tutto questo orrore ha portato pace e sicurezza, non è più immaginabile continuare a cercare la via del conflitto armato per risolvere i nodi politici che al momento sono solo una catastrofe umanitaria.

Attivisti e intellettuali, cittadini comuni e rappresentanti delle istituzioni, oggi, chiedono che l’assedio di Gaza finisca e che davvero si arrivi a trovare una soluzione.
Questo è il dovere che inchioda tutti alle proprie responsabilità, se davvero non vogliamo stare a guardare nel 2016 esseri umani morire di fame e di sete, di assedio e quotidiana ingiustizia.