Sentirsi rifiutati: la Brexit e noi immigrati europei

La vittoria della Brexit è una sconfitta per la sinistra. Riflessioni di un italiano a Leicester, come sia stato alimentato il senso di rifiuto nei confronti dei non-britannici

di Marco Gottero

All’indomani del referendum sulla Brexit è grande la confusione sotto il piovoso cielo britannico, ma la situazione non sembra per nulla favorevole, specialmente per noi, immigrati europei in terra albionica.

I cittadini del Regno Unito che fino alla chiusura delle urne hanno fatto un’arrogante campagna per il Leave sembrano oggi persino increduli, e non per la portata della loro inattesa vittoria. Comincia a farsi strada la sensazione che non ci si sia resi bene conto del possibile impatto di questa scelta rabbiosa e de core,che più d’uno se ne stia pentendo.

E poi, altra faccia della medaglia, ci sono le ambigue reazioni e gli “abbiamo vinto ma non mi sento di festeggiare” della Lexit (o ‘uscita dell’UE da sinistra’). Ma andiamo con ordine.

“Non possiamo sperare che un ritorno di politiche progressiste, ad oggi, arrivi dalle istituzioni europee. E’ solamente andando contro le istituzioni europee, ma all’interno dell’UE, che le politiche progressiste avranno un’opportunità in Europa”. Questo il pensiero dell’ex Ministro delle Finanze greco e fondatore del movimento DiEM25 Yanis Varoufakis, che sostanzialmente redarguisce la sinistra inglese per le sue ambiguità nei confronti della Brexit, e per essere forse passata dalla proverbiale padella alla brace.

Sono state l’austerity e la marginalizzazione di intere comunità, figlie indesiderate di politiche di una UE distante, tecnocratica e nemica dal popolo a far propendere per il Leave, ha detto invece il leader dei Labour Jeremy Corbyn.

Fino a pochi giorni fa il suo partito era però tutto meno che sicuro di cosa dire ai propri elettori, se propendere per un Remain in una UE lontana dai lavoratori o se scegliere un Leave che aprirà le porte di Downing Street a personaggi ancora più inquietanti di Cameron, come ad esempio Boris Johnson, leader della campagna per il Leave.

“Voi italiani siete sovente dei criminali, e non potete rubarci tutto il lavoro” mi ha detto, personalmente, in mezzo ad altri discorsi confusi e in un inglese smangiucchiato, un proprietario di un negozio di strumenti musicali, mentre mi spostava gentilmente verso l’uscita, non più di una settimana fa. Storie già sentite migliaia di volte, da italiani, eppure non facili da vivere sulla propria pelle. E soprattutto storie di cui non abbiamo ancora assolutamente capito la morale.

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E’ lampante che la causa principale per gran parte dei votanti Brexit siano stati ovviamente gli immigrati, ovvero noi europei. E ad osservarlo dalla vetrina di un caffé di Leicester, città in cui vivo, dove più di metà dei passanti (e dei lavoratori) è immigrato – in gran parte dal vecchio continente –, dove il funzionamento del sistema sanitario, l’educazione, la ristorazione e innumerevoli altre attività dipendono per una sostanziosa parte da noi non-britannici, è ancora più sconfortante.

Ci si sente improvvisamente rifiutati, una porta sbattuta in faccia da un popolo che, con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, faceva un uso forse strumentale ma sicuramente ragionato e intelligente della forza lavoro emigrante dagli ex vicini Europei. Quell’Europa che noi ci siamo malvolentieri lasciati alle spalle, che ci è toccato abbandonare per le politiche di austerity di leader ottusi, ci appartiene forse più di quanto pensavamo?

Gli amici greci che vivono a Leicester, avendo vissuto sulla loro pelle le scellerate decisioni della troika in madrepatria, hanno esultato nel momento in cui il Regno Unito ha reciso il cordone col vecchio continente. Nulla di buono è mai arrivato da Bruxelles, per loro. Dobbiamo credere agli amici greci che si sono sentiti stritolati dall’austerity made in UE e augurarci insieme la fine di un destino europeo comune, quello sancito a Maastrich nel 1992?

La risposta è profondamente lacerante: l’Europa ci appartiene, questa Unione Europea no. Anzi, siamo figli del suo disastro politico e sociale.

Eppure, come nel paradosso raccontato da Varoufakis, ci troviamo oggi a difenderla, perché se è vero che questa UE così com’è va rivoluzionata, essere naufraghi in balia del revival nazionalistico britannico ci fa venire la pelle d’oca.

Contro questa UE, ingiusta e tecnocratica, hanno fatto campagna i votanti a sinistra della Brexit, ribattezzata Lexit. Non è praticabile un conteggio del loro peso sul voto, ma il significato rimane e le conseguenze bruciano sulla nostra pelle. Insofferenti di fronte ad una UE incapace di leggere le migrazioni di massa e sprezzante di fronte alle lotte dei lavoratori, hanno scelto una bizzarra alleanza con fascisti, xenofobi e affini per trascinarci mano nella mano in un incubo ancora peggiore.

Il risveglio alla notizia della vittoria del Leave è stato traumatico, inatteso e particolarmente acido.Guardare i volti di quelli che fino a ieri sembravano vicini, colleghi e amici cercando di indovinare quanti di loro ci hanno pugnalato è un esercizio che non si augura a nessuno.

Fino a ieri cercavamo di costruirci un futuro tra pozzanghere e black pudding, non roseo ma meno irraggiungibile di quello Mediterraneo. Da oggi ci guardiamo le spalle, con un nuovo carico di ansia, incerti sul da farsi.

Si è scritto che sono stati gli anziani inglesi a portarci fuori dall’Unione, si è scritto che “hanno vissuto un’età
dell’oro togliendo a noi le risorse presenti, e ora ci vogliono togliere anche il futuro!”. Non credo sia plausibile. La cosiddetta “età dell’oro”, metafora largamente usata dalla retorica liberista per mettere poveri contro poveri, è stato un periodo di relativo e traballante benessere economico conquistato grazie a lotte, scioperi e rabbia sociale incanalata nel modo giusto.

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Tuttavia, mentre all’epoca c’era chi lottava, c’era anche chi difendeva lo status quo, il potere, la ricchezza. Il nazionalismo, meglio se sfegatato, è sempre andato a braccetto con questi ultimi, primi a tracciare la linea tra “noi” e “loro” in un’esercizio di ignoranza notevole, peraltro molto noto anche in Italia. Sempre il nazionalismo, poi, ha compiuto il suo capolavoro infiammando e dando una ragion d’essere a migliaia di disperati. Non eravamo già passati da tutto questo? Non eravamo la generazione – finalmente! – post-nazionalismi? Un intero popolo, anzi, il 51% di esso, ci ha ricordato improvvisamente che crede ancora a questa favola oscura.

Sono loro, non solo anziani, non solo “britannici puri”, ma in parte anche giovani e immigrati di seconda generazione ad aver voluto serrare le porte e gettare la chiave.

Nella convinzione egoistica e assurda che cacciando noi migranti i benefici rimarranno e le perdite ce le porteremo via, come nell’equazione sballata di Nigel Farage (leader del partito di estrema destra UKIP) in cui un’UK senza UE uguale più soldi e meno costi per la sanità pubblica inglese. Non sanno quanto si stanno sbagliando. Ed il fatto che gli “amici” della Lexit abbiano scelto di associarsi a costoro, ahimé, ci dice però che neanche noi, progressisti disuniti d’Europa e non, sappiamo molto bene dove andare. Suona un po’ come se quella volta, per liberarci di Berlusconi, avessimo scelto di votare il ritorno della monarchia.

Ogni lotta ha un suo contesto, e ogni contesto va interpretato. Ad esempio, è stata e sarà diversa (e personalmente condivisibile) la lotta di Nicola Sturgeon, Primo Ministro della Scozia, per portare il suo paese fuori all’UK, forse per poi bussare in solitaria alle porte dell’Europa Unita.

Il contesto del referendum del 23 giugno, invece, la sinistra inglese non l’ha saputo leggere, ed è rimasta timida e impacciata mentre i populisti ne approfittavano per fare strage.

Le vittime siamo noi, destinati, se rimarremo, a vivere in un probabile paese a due velocità, con cittadini di serie A e di serie B, visti da rinnovare semestralmente, accesso gratuito alla sanità pubblica limitato e chissà cos’altro.

Noi che mentre ci preparavamo a raccogliere le forze per unirci e finalmente cambiare il segno delle politiche Europee, piegandone dal basso la struttura fino a farla diventare finalmente più rappresentativa, sociale e progressista, ci siamo trovati tagliati fuori. O dentro. In ogni caso, si sta peggio di prima.

 

L’immagine in apertura è di freestocks.org tratta da Flickr in CC