Spagna: il giorno della marmotta

Madrid, 26 giugno 2016: nuove elezioni, stesso scenario?

di Andrea Geniola, da Barcellona

Nel precedente articolo sulle elezioni spagnole del 20 dicembre 2015 prevedevamo un governo di coalizione nazionale PP-PSOE-Cs. Ci sbagliavamo. In molti vollero vedere all’orizzonte, confondendo un legittimo desiderio con la realtà fattuale e l’aritmetica politica parlamentare, un governo dell’alternativa di sinistra. Si sbagliavano anche loro. “Esto empieza bien”, dichiarava il leader del PSOE Pedro Sánchez dopo i primi contatti per formare un “Gobierno de la Nación”, come chiamano il governo in Spagna. Si sbagliava anche lui. Forse perché si era riunito solamente con Coalición Canaria e la lista promossa da Izquierda Unida, ovvero un totale di 3 deputati. Doveva ancora convincere tutti gli altri e dopo 6 mesi pare che “esto ha acabado mal” e gli spagnoli sono stati chiamati di nuovo alle urne.

Le righe che seguono rappresentano un contributo limitato e parziale alla comprensione della realtà politico-elettorale spagnola di questi mesi. Limitato perché la vicinanza dell’oggetto di osservazione rende necessario non cadere in avventurose assolutizzazioni. Parziale perché, oltre a non avere alcuna volontà di assolutezza, cercheremo di concentrarci su uno degli aspetti in gioco nello scenario politico spagnolo, quello nazionale o per meglio dire del peso che assume la difesa della nazione spagnola in questo infinito ciclo elettorale. Un aspetto, d’altra parte, che rappresenta “de facto” l’asse centrale della vita politica di qualsiasi stato-nazione e in cui la Spagna non rappresenta un’eccezione. Ci concentreremo quindi su due linee di riflessione: l’analisi dei risultati del 26 giugno in comparazione critica con quelli del 20 dicembre 2015 e gli scenari post-elettorali alla luce della questione catalana e di quanto accaduto nei sei mesi trascorsi tra le due scadenze.
 

La pasta madre della pizza spagnola

Un nutrito gruppo di militanti e simpatizzanti del PP che festeggiano sotto la sede del partito cantando lo slogan di Podemos: “Sí se puede – Sí se puede”. Un esercizio di fantasia e sottile ironia che nessuno si sarebbe aspettato da loro e che, ciononostante, è una delle immagini della giornata elettorale. Nessuno si sarebbe aspettato infatti una vittoria, per maggioranza relativa ma pur sempre vittoria, del PP al Congresso, soprattutto dopo gli ultimi sondaggi e gli exit-poll. Il PP passa da 123 a 137 seggi su 350, il PSOE perde seggi ma resta la seconda forza parlamentare scendendo da 90 a 85, la coalizione tra Podemos, con le rispettive “confluenze” En Marea, A La Valenciana ed En Común Podem (ECP), e Izquierda Unida (IU) non va oltre la somma dei seggi ottenuti nelle scorse elezioni: 71. Ciudadanos (Cs) scende da 40 a 32. Tutte le altre forze confermano i precedenti risultati: Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) 9 seggi, Convergència Democràtica de Catalunya (CDC) 8, Partido Nacionalista Vasco (PNV) 5, Euskal Herria Bildu (Bildu) 2 e Coalición Canaria (CC) 1 seggio.

Dire che poco è cambiato in queste elezioni significa dire una mezza verità. In realtà, comparandoli con le aspettative di voto dei partiti e i sondaggi di queste settimane queste elezioni sembrano andare in una direzione differente rispetto a quella prevista.

A fronte di una partecipazione bassa (69,84%) e comunque sostanzialmente inferiore rispetto al 20 dicembre scorso (73,2%) il PP guadagna circa 650.000 voti. Tutti gli altri partiti perdono muscolatura: il PSOE ne perde 130.000 e Cs 400.000. Ma la grande sorpresa riguarda Unidos Podemos (UPod) che non solo non supera il PSOE e non raggiungere i risultati che Podemos e IU avevano ottenuto a dicembre ma perde circa 1.100.000 voti. In queste ore i risultati non sono ancora definitivi dato che mancano all’appello i due milioni di spagnoli residenti all’estero, anche se di solito le percentuali di partecipazione sono tra questi molto basse, e qualcosa si potrà ancora spostare in termini di flussi elettorali.

Mariano Rajoy - Foto: European People's Party via Flickr in CC

Mariano Rajoy – Foto: European People’s Party via Flickr in CC

Certamente si tratta di risultati profondamente condizionati da un sistema elettorale che favorisce i grandi partiti, premia oltremisura la concentrazione del voto e sovradimensiona il voto di determinate province. Ciononostante appare abbastanza chiara la concentrazione del voto di centro e centro-destra verso il PP e il fallimento della strategia elettorale di UPod che non è riuscita a rimobilitare un elettorato evidentemente non ancora fidelizzato e forse deluso dalla formazione viola. Il pessimo risultato della coalizione costruita attorno a Podemos è reso ancor più eclatante dal discorso della vittoria imminente che questi hanno costruito durante la campagna elettorale. La propaganda di Podemos è solita proiettare un’immagine vincente che spesso non corrisponde alla realtà fattuale e potrebbe provocare cocenti delusioni di ritorno.

Il voto al Senato è ancor più chiaro con una nuova maggioranza del PP che sale da 124 a 130 seggi su 266. Una vittoria ancor più chiara se consideriamo che solamente 208 senatori sono eletti a suffragio universale mentre i restanti sono designati dai parlamenti regionali.

Il PSOE scende da 47 a 43 senatori eletti, UPod, ERC e CDC restano rispettivamente a 16, 6 e 6. Sempre per avere la grandezza della vittoria del PP e della sconfitta di UPod sarà utile dare uno sguardo alle proiezioni di voto fatte sulla base dei risultati del 20 dicembre con l’inserimento della variabile della coalizione tra Podemos (e sue confluenze) e IU. Secondo tale proiezione il PP avrebbe ottenuto tra 116 e 119 seggi al Congreso, il PSOE tra 86 e 89, UPod 88 invece di 71 e Cs 35 invece di 40. Inoltre le aspettative di voto dei viola si situavano nel peggiore dei casi attorno agli 80 seggi. A tutto ciò bisogna aggiungere che la composizione dei seggi di UPod è composta e composita: 45 sono di UPod, 12 di ECP, 9 dei valenciani di “A la valenciana” e 5 di En Marea. Il PSOE alla luce di questi risultati vede quasi ammortizzato il suo calo elettorale e si conferma nonostante tutto come il primo partito di sinistra, potenzialmente con un ruolo di centralità politica negli equilibri parlamentari; elementi che verranno alla luce nei negoziati, nelle presidenze di commissione, Mesa del Congreso, ecc.

Piuttosto, il dato che si conferma sia rispetto al 20 dicembre sia rispetto ai sondaggi è la difficile articolazione di una maggioranza parlamentare stabile, sia dal punto di vista strettamente aritmetico sia sotto il profilo delle ben più complesse compatibilità programmatiche.

La progressione dei risultati elettorali dalle ultime europee fino ad oggi ha disorientato a tal punto commentatori, analisti ed esperti spagnoli main-stream che questi hanno cercato altrove esempi o modelli operativi di riferimento. È curioso che, proprio nel momento in cui settori rilevanti e rappresentativi della sinistra alternativa italiana vedono in Podemos un punto di riferimento, un alleato, un esempio da seguire, una parte non irrilevante della élite spagnola stia vedendo proprio nell’Italia del post-bipolarismo un modello da seguire per incorporare nella politica istituzionale spagnola la “cultura” del patto trasversale e del governo tecnico. Questo esercizio, legittimo ma poco rigoroso dal punto di vista analitico e avventuroso sotto il profilo storico, è quello che abbiamo letto in questi mesi ad esempio in alcuni organi di stampa di area liberal-progressista.

Ad esempio in “La italianización de España” (“Ahora”, 13/5/2016) Mario García de Castro invita a osservare la politica italiana per “imparare” a vivere e sopravvivere in una stagione di equilibrismi, maggioranze precarie, accordi ambigui e tramonto delle ideologie. L’articolo, terribilmente illustrato dal disegno di una pizza margherita a forma di Spagna, gronda luoghi comuni come il carattere cangiante e balzano della classe politica italiana e inesattezze storiche come l’errata convinzione di partenza secondo la quale nell’Italia della cosiddetta Prima Repubblica avremmo avuto un sistema bipolare. L’articolo suggerisce alla classe politica spagnola di andare a scuola dai politici italiani per imparare a governare con creatività e un pizzico di cialtrona approssimazione il caos e l’ingovernabile. La cosa più sorprendente è che l’autore non lo fa in modo ironico ma con estrema serietà e profusione di luoghi comuni di ogni tipo: leggerezza e guasconeria, futilità ed edonismo, superficialità e tradimenti. Di certo il modo in cui il cittadino nazionalizzato osserva e percepisce l’altro nazionalizzato è uno dei campi più affascinanti dell’intermediazione culturale e della storia delle classi intellettuali.

Allo stato dell’arte, quindi, dove e come trovare la formula magica per la massa madre di una buona pizza spagnola? Dove trovare quel nesso che permetta la governabilità senza doversi rifare agli anni meno gloriosi della politica italiana?
Pablo Iglesias - Foto: Ministerio de Cultura de la Nación Argentina Segui via Flickr in CC

Pablo Iglesias – Foto: Ministerio de Cultura de la Nación Argentina Segui via Flickr in CC

Le aritmetiche programmaticamente possibili non sono molte. La prima è quella che propone il PP al PSOE: un governissimo di coalizione presieduto da Mariano Rajoy con un programma figlio delle direttive europee. Tale opzione godrebbe di una comoda maggioranza assoluta con 222 seggi al Congreso e conseguente maggioranza bulgara al Senato. Anche se oggetto di grandi pressioni interne, la direzione del PSOE non pare disposta ad accettare. Si tratta anche di una soluzione che lascerebbe a Cs e Upod un enorme campo libero all’opposizione e che, al tempo stesso, darebbe l’immagine di un ripiegamento difensivo dei due grandi partiti tradizionali. La seconda opzione sarebbe quella di un governo di colazione di minoranza tra PP e Cs che conterebbe con 169 seggi, l’astensione del PSOE e accordi puntuali con altre forze minori; escludendo i partiti indipendentisti baschi e catalani ci sarebbero da convincere i cinque deputati del PNV e il deputato di CC.

Una variazione sul tema potrebbe essere l’ingresso in questa maggioranza o l’appoggio esterno dei 3 deputati ottenuti nelle Canarie della coalizione tra PSOE e Nueva Canarias. Trattandosi appunto di una coalizione i tre deputati canari potrebbero non essere soggetti alla disciplina del PSOE e potrebbero così appoggiare più o meno liberamente questa via. Ugualmente di difficile operatività una coalizione o semplice maggioranza “liquida” composta da PSOE, Cs e Upod, che godrebbe di 188 seggi. In questo caso però è altamente improbabile che la coalizione viola possa convincere i due possibili soci ad accettare la celebrazione del referendum di autodeterminazione che viene proponendo per la Catalogna. PP, PSOE e Cs hanno fatto, come in occasione del 20 dicembre, dell’indissolubile unità nazionale della Spagna un punto essenziale delle rispettive campagne e del discorso simbolico.

Arrivati a questo punto è lecito chiedersi se ci saranno ancora elezioni tra sei mesi. L’unica cosa certa è che in questa eternizzazione dell’instabilità il PP continuerebbe esercitando la potestà di un governo ad interim con tutto quello che ne consegue.
Pedro Sanchez - Foto: FSA - PSOE via Flickr in CC

Pedro Sanchez – Foto: FSA – PSOE via Flickr in CC

D’altra parte una terza scadenza elettorale in un anno potrebbe avere esiti assolutamente imprevedibili. Potrebbe ripresentare lo stesso scenario politico oppure peggio chiudere gli spiragli di alternanza che si sono aperti nell’ultimo biennio o ancora precipitare la Spagna in una crisi strutturale senza ritorno. L’editoriale di “Ahora” del 24 giugno esortava gli spagnoli a “votare bene” premiando i partiti che nella precedente brevissima legislatura avevano raggiunto un principio di accordo di governo (PSOE e Cs) e punendo il governo uscente del PP e il “populismo estremista” di Podemos. Dal canto loro gli editoriali post-elettorali di “La Vanguardia” ed “El País” auspicano, il primo, un governo di ampia coalizione attorno ai punti in comune tra PP, PSOE e Cs e, il secondo, il via libera del PSOE a un governo a guida popolare in quanto partito più votato. Dicono molto del clima attuale le prime dichiarazioni rilasciate dal leader dei socialisti. Pedro Sánchez ha voluto insistere nell’attaccare ancora Pablo Iglesias scaricandogli tutte le responsabilità del mancato accordo di maggioranza nella passata legislatura e, di conseguenza e per estensione, della vittoria del PP di domenica scorsa. Potrebbe trattarsi di mosse di preparazione in vista di un’apertura nei confronti di una grande coalizione, di un “governo tecnico” e data di scadenza o di una semplice astensione a favore del candidato del PP.

 

“Esto es España”.
La questione catalana e il prezzo dell’unità nazionale

Come ogni buona pasta madre anche quella della pizza spagnola ha bisogno di un ingrediente che faccia da “starter”, che permetta la fermentazione e renda possibile la coesione della massa. I sei mesi precedenti ci segnalano che questo elemento agglutinante è presente e attivo. Si tratta della nazione spagnola, della sua difesa, della sua integrità contro la minaccia di secessione che rappresenterebbe la sola idea di celebrare un referendum di autodeterminazione. Sfogliando le pagine delle trattative tra PSOE e Cs e tra Podemos e PSOE la questione catalana appare come il pomo della discordia che avrebbe impedito l’accordo finale di governo. In altre parole l’alternanza non c’è stata perché una delle condizioni poste da Podemos è stata la celebrazione di un referendum vincolante sul futuro politico della relazione tra Catalogna e Spagna. Questa distanza è tornata a fare capolino in questa campagna elettorale. UPod ha avallato ancora una volta il referendum proposto da ECP. I socialisti hanno ribadito che tale ipotesi non è contemplata dal partito e che al massimo si può parlare di bilateralità amministrativa e del simbolico trasferimento a Barcellona di un Senato trasformato in camera territoriale-regionale. Cs vuole un’uniformizzazione di competenze a livello sub-statale e una normalizzazione in senso simmetrico delle autonomie regionali (una proposta che il partito arancione sostiene curiosamente essere federalista), l’abolizione del Senato e delle Province. Il PP non prevede alcun tipo di riforma territoriale.

Inoltre la nazione spagnola è stata presente sia come mito narrativo legittimante sia come bene comune da difendere nelle campagne di PP, PSOE e Cs.

Il PSOE ha affermato più volte che l’unità della Spagna non è negoziabile e non può entrare a far parte dei temi oggetto di trattativa. Il PP ha parlato in maniera reiterata della difesa della nazione spagnola fino alla surreale ossessività ripetuta anche durante i festeggiamenti di domenica notte. Cs, dal canto suo, ha approfittato delle partite della selezione spagnola di calcio impegnata negli Europei in Francia per aggregare militanti e simpatizzanti attorno alle gesta calcistiche. Tutti e tre questi partiti hanno alternato nei loro attacchi a UPod le accuse di comunismo con quelle di voler sgretolare la Spagna.

Dyada de Catalunya, 2014 - Foto: Fotomovimiento via Flickr in CC

Dyada de Catalunya, 2014 – Foto: Fotomovimiento via Flickr in CC

Si potrebbe affermare che durante i sei mesi precedenti il dogma dell’unità nazionale spagnola abbia reso impossibile un’alternativa al PP. Con l’accordo con Cs il PSOE pare aver preferito un programma di coalizione di governo di stampo neo-liberale con Cs piuttosto che fondare le basi di un’alternativa di sinistra con Podemos solo perché questi ponevano la questione del referendum in Catalogna. A poco sono servite le dichiarazioni di fedeltà patria fatte da Pablo Iglesias e le precisazioni circa la funzione reale del referendum da questi sostenuto: rafforzare l’unità della Spagna attraverso la sconfitta degli indipendentisti sul lor stesso campo, quello del referendum appunto. Ovviamente rimane sul campo la possibilità che dal punto di vista ideologico Cs e PSOE siano più vicini nella sostanza di quanto possa sembrare a prima vista. Non bisogna dimenticare che il partito arancione nasce in ambienti intellettuali anti-catalanisti vicini ai socialisti. Appare comunque chiaro, ribadito dall’elettorato a sei mesi di distanza, che gli spagnoli non appoggiano l’ipotesi del referendum catalano e che le forze che in parlamento la difendono rappresentano una minoranza che non ha, e sarà così ancora per molto tempo, possibilità di creare egemonie e alleanze di peso attorno alla questione.

Difficilmente la galassia di Podemos e IU potrà governare la Spagna fino a quando presenterà nel suo programma elettorale la celebrazione di un referendum di autodeterminazione in Catalogna. L’ipotesi della soluzione per consenso della questione catalana ci sembra in questo momento qualcosa di molto lontano.

In realtà quella di Upod sembra essere un’alternativa bloccata e senza sbocchi a livello spagnolo. Al contrario dove la coalizione sembra funzionare o funzionare meglio è nelle cosiddette “nazioni senza stato” della Spagna, soprattutto Catalogna ed Euskadi, dove si afferma come primo partito. Cosa che lascerebbe supporre che questione sociale e nazionale vadano, possano andare, a braccetto e che una componente nazionale pare giocare il ruolo di moltiplicatore delle ipotesi di cambiamento politico. Da questo punto di vista crediamo utile soffermarci in primo luogo sui risultati elettorali in Catalogna. La distribuzione dei parlamentari catalani è sostanzialmente immutata rispetto al 20 dicembre: ECP 12 seggi, ERC 9, CDC 8, PSC-PSOE 7 (uno in meno), PP 6 (uno in più), CS 5. In termini percentuali il voto catalano si è articolato nella seguente maniera: ECP 24,50%, ERC 18,17%, PSC-PSOE 16,12%, CDC 13, 92%, PP 13,36%, Cs 10,93%. Anche in Catalogna però si è verificata una sensibile flessione della partecipazione, dal 71% al 65,51%, e comunque di molto inferiore a quella record delle ultime autonomiche. In questo scenario gli unici due partiti che guadagnano voti sono ERC (28.000) e PP (44.000). Tutti gli altri perdono voti: Cs (110.000), CDC (85.000), ECP (80.000), PSC-PSOE (40.000).

Senza avere ancora a disposizione uno studio affidabile dei flussi elettorali possiamo però avanzare delle ipotesi. Innanzitutto l’importante perdita di voti di ECP farebbe pensare che nella società catalana si comincia ad avere la sensazione che la via del referendum pattuito con Madrid stia di nuovo perdendo credibilità. In realtà, le strizzatine d’occhio alla tradizione socialdemocratica fatte in campagna come le vicende istituzionali della precedente brevissima legislatura potrebbero aver provocato un certo calo di entusiasmo attorno al progetto di ECP. Ad esempio pesa il non essere riusciti nemmeno ad avere un gruppo parlamentare proprio al Congreso. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come possa ECP riuscire a portare a casa la celebrazione di un referendum se non riesce nemmeno ad affermare la propria interpretazione dei regolamenti parlamentari.

Xavier Domènech - Foto: ara.cat

Xavier Domènech – Foto: ara.cat

A questo bisogna aggiungere il dato oggettivo che vede ECP come oramai la forza da battere in Catalogna e per questo vittima di attacchi politici su più fronti: nazionale, sociale, istituzionale. Mentre ERC si va affermando come partito socialdemocratico-laburista catalano che continua a incorporare pezzi del socialismo catalanista, CDC è impegnata in un delicato processo di rifondazione che culminerà nelle prossime settimane. Il risultato del partito del Presidente della Generalitat va osservato tenendo presente il fatto che il paragone si fa con la coalizione Democracia i Llibertat che includeva anche Democrates de Catalunya e Reagrupament. Ciononostante, sembrerebbe che nessuno si stia beneficiando dei voti (tra i 65.000 e i 110.000) che rappresentano il patrimonio di voti di Unió Democratica de Catalunya (UDC). Strettamente relazionate potrebbero essere invece la perdita di voti di Cs e l’aumento da parte del PP. A nostro parere sarebbe errato leggerli come una crescita del secondo. Potrebbe darsi infatti il caso che la Catalogna stia andando verso l’acquisizione di alcuni elementi tipici del panorama elettorale basco, come ad esempio il travaso ciclico di voti tra partiti spagnolisti dove per una parte significativa dell’elettorato la fedeltà nazionale e la centralità dell’idea dell’unità nazionale spagnola si rivelano più importanti rispetto alle differenziazioni ideologico-programmatiche. Non è nemmeno da escludere la possibilità che alcuni settori di UDC possano integrarsi alla spicciolata nel PP catalano, come accaduto anche in passato.

L’indiscutibile fatto che ECP sia la prima forza politica catalana per numero di voti e percentuale rende necessario sviluppare anche un altro orizzonte di riflessione. Le prime tre forze politiche catalane sono di sinistra (ECP, ERC e PSC-PSOE) e rappresentano la maggioranza assoluta in voti e in percentuale.

Le forze che si oppongono al diritto all’autodeterminazione non superano il 40%. In queste elezioni la sinistra indipendentista della Candidatura d’Unitat Popular (CUP) non si è presentata e il suo bacino elettorale si è spalmato tra l’astensione e il voto utile ma critico a ECP ed ERC con dichiarazioni anche pubbliche di voto a favore di queste tre opzioni. Qual è quindi il ruolo di ECP in questo momento in Catalogna? Il suo capolista Xavier Domènech nella prima valutazione del voto domenica sera ha fatto un discorso esclusivamente in chiave catalana che è lecito interpretare anche in vista di possibili nuove elezioni autonomiche, data la situazione di poca stabilità di cui gode la maggioranza parlamentare indipendentista alla Generalitat. Lo stesso Domènech durante una conferenza celebrata il 14 giugno a Barcellona aveva presentato quello di ECP come un progetto di fondo di (ri)costruzione di un catalanismo “popolare” che fosse capace di occupare da sinistra quella centralità egemonica nella politica catalana che un tempo fu del “pujolismo” e prima ancora del PSUC, il partito comunista catalano. In questo progetto che ha tutta l’aria di essere di carattere strategico il “dret a decidir” rappresenta un elemento centrale e irrinunciabile le cui possibilità di realizzazione pratica anche nel medio periodo, come abbiamo osservato, appaiono però scarse. La richiesta del referendum rischia in questa prospettiva di sostituire, certo con una forza e profondità differenti, i grandi classici della dialettica tra catalanismo e spagnolismo dei decenni passati.

Potrebbe uscirne insomma un nuovo catalanismo più radicalmente a sinistra ma anche uno stallo senza uscita che normalizzi eternizzandolo ancora una volta, anche se su contenuti nuovi, lo scontro politico-istituzionale storicamente permanente tra Barcellona e Madrid.
Ada Colau - Foto Barcelona En Comú via Flickr in CC

Ada Colau – Foto Barcelona En Comú via Flickr in CC

Capire a fondo la portata storica degli eventi che stiamo vivendo è cosa complicata e rischiosa e le letture della realtà non sono mai unidirezionali, soprattutto se la realtà è in movimento e i processi non sono chiusi e definiti. Ad esempio, una delle accuse che settori dell’indipendentismo muovono a ECP è quella di essere di fatto un elemento perturbatore del processo indipendentista e costituente in Catalogna. In realtà non mancano tra i sostenitori di ECP coloro che pensano che sia proprio questo il ruolo effettivo ad esempio della sindachessa di Barcellona Ada Colau e di tutto il movimento dei “comuns”: contrastare e sconfiggere l’indipendentismo e contribuire alla riforma della Spagna da sinistra e dalla periferia. La realtà però è più complessa e necessita un certo rispetto, una certa cautela. Da un lato è vero che l’avvento di Barcelona En Comú (più che di Podemos) ha in parte frenato il processo di ridefinizione delle sinistre catalaniste di ambito alternativo attorno all’indipendentismo. Partiti come Iniciativa per Catalunya ed Esquerra Unida i Alternativa (ora integrati in ECP) erano in crisi di discorso, di prestigio e di visibilità rispetto ad ERC o la CUP fino a circa un anno fa ed erano attraversate da spinte interne verso una maggior definizione in senso indipendentista. È però altrettanto vero che la composizione attuale dello scenario politico catalano potrebbe consegnarci anche la ridefinizione del processo di autodeterminazione con una leadership differente da quella attuale. Se oggi al centro di comando delle operazioni di secessione ci sono i centristi liberali di CDC questa centralità non risponde affatto alla composizione politica reale del catalanismo né del sovranismo né dell’indipendentismo stesso. Però molto dipenderà da cosa ECP deciderà di essere.

Nella società catalana ancora convivono, spesso sovrapponendosi, due inquietudini. Da un lato c’è la volontà di partecipazione alla riforma di una Spagna che invece vota a destra per moderazione e conservazione, dall’altro c’è l’opportunità di costruire uno scenario istituzionale completamente nuovo attraverso uno Stato catalano che nascerebbe sulla base di una chiara e oramai consolidata egemonia progressista. Nel “giorno della marmotta” della vita politica spagnola e catalana la via spagnola appare sempre di più stretta, ardua, impraticabile e, soprattutto, senza uscite operative.

 

L’immagine in apertura di Mariano Rajoy alla Moncloa è una foto di Mariano Rajoy, Presidente del Gobierno de España tratta da Flickr in CC