Atene chiama, l’Europa non risponde

Intervista con Giovanni Lepri,
Vice Direttore per le operazioni dell’UNHCR in Grecia

di Carlotta Dazzi

Dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati alla mano, sappiamo che oltre un milione di profughi e migranti sono arrivati in Grecia dal 2015. Di questi, 856.723 solo nel 2015 e altri 143.634 nel 2016.

La maggior parte è in fuga da Siria, Iraq e Afghanistan, ma la chiusura dei confini dei Paesi della rotta balcanica ne ha bloccati migliaia in Grecia in un limbo giuridico che aggiunge disorientamento a un esilio già per sé difficile da vivere. L’alto commissario dell’Unhcr, Filippo Grandi, ha lanciato un appello a tutti i Paesi del mondo ad accogliere più profughi volontariamente: “Abbiamo bisogno – ha dichiarato – di più Paesi pronti a condividere questo onere accogliendo un maggior numero di rifugiati”. Un appello che, per lo meno sul fronte Europa, sembra non aver abbattuto molti muri anzi. Ne parliamo con Giovanni Lepri, Vice Direttore per le operazioni dell’UNHCR in Grecia.

Il lavoro di Unhcr è sia sul campo e con i governi a supporto per trovare soluzioni umanitarie, sia di aiuto concreto ai profughi a cui fornisce tende, assistenza e altro ancora. Tutti vi guardano, tutti vi aspettano, tutti vi vedono come problem solver.

Questa è un’osservazione importante e complicata perché il nostro mandato come Unhcr in Europa, tradizionalmente e storicamente, è un ruolo di appoggio e sostegno ai governi perché questi stabiliscano una legislazione più favorevole e più coerente possibile con le norme internazionali per la risposta ai bisogni dei rifugiati, dall’entrata nei rispettivi Paesi, alle procedure d’asilo all’integrazione e tutto ciò che a che vedere con il lungo periodo della vita di un rifugiato in un Paese europeo.

Non abbiamo o perlomeno non dovremmo avere in teoria un ruolo operativo in Europa. Il nostro ruolo di sostegno, diventa operativo quando un Paese non ha sufficiente capacità di risposta.

In Europa questo non è previsto, ma la crisi attuale ha dimostrato che soprattutto per la Grecia, questo Paese seppur europeo non ha avuto e non ha tuttora le capacità proprie come governo, come strutture, come istituzioni di rispondere alla crisi. Crisi che non ha paragoni con esperienze precedenti perché la pressione sulla Grecia è obiettivamente altissima. La Grecia si è trovata di fronte a un compito titanico per un Paese in crisi economica profonda. Unhcr è entrata in appoggio alle autorità con un ruolo molto più operativo di quello che normalmente dovremmo avere in Europa. La gestione della crisi rimane un ruolo in mano ai governi locali e all’Unione Europea.

Una situazione, quella vissuta dall’Europa in questo momento, che mostra anche il suo tallone d’Achille.

E pone il dilemma dell’Unhcr. Teoricamente, infatti, siamo in Europa, le strutture di accoglienza sono tra le più sviluppate del mondo, e dovrebbero avere la capacità di rispondere. Ma quello che vediamo in Grecia è una situazione simile a quelle che si vivono in Paesi molto meno sviluppati, in Africa, Asia o Medio Oriente. Ci sono tutti i limiti di un intervento umanitario di un’agenzia delle Nazioni Unite dovuti al fatto che siamo di fronte a una struttura europea, ma i dubbi si sciolgono come neve al sole davanti a una situazione di necessità e di bisogni uguali a quella che possiamo trovare in Paesi che non raggiungono neanche lontanamente il nostro livello di sviluppo.

La vostra presenza in Grecia è in effetti in prima linea.

Dalla Siria, al Libano, all’Egitto alla Giordania siamo su tutto il fronte della crisi dei profughi e anche nella rotta balcanica. Però, specialmente in Grecia per varie ragioni, senza voler accusare il Governo greco che sta dimostrando sforzi importanti per rispondere ai bisogni, abbiamo una raggio d’azione limitato.

Rispetto all’estate scorsa, in alcune situazioni le cose sono un po’ migliorate, vediamo dei passi avanti, si sono cominciate a costruire alcune strutture, c’è un po’ più di chiarezza informativa, ma siamo ancora molto lontani dall’essere su standard d’accoglienza accettabili.

I segnali d’allarme c’erano tutti. Abbiamo cominciato ad allertare l’Alto Commissario e il management Unhcr il 27 aprile 2015 a Ginevra dicendo: “In Grecia sono arrivate 19.000 persone rispetto ai primi quattro mesi del 2015 quando si sono registrati 5.000 arrivi e vivremo nei prossimi mesi una situazione di pressione in termini numerici e d’incapacità di risposta senza precedenti”. Era aprile, erano arrivate 19.000 persone. Abbiamo abbondantemente superato l’allerta.

Che cosa potete fare in termini di protezione in Grecia?

Unhcr ha un mandato umanitario, di protezione e di assistenza giuridica legale diretta ai rifugiati quando non ci sono le strutture e le istituzioni per farlo, ma qui siamo Europa dove istituzioni e strutture non mancano e per questo il nostro è un ruolo delicato, di sostegno e complementario. Rischi di essere criticato dai governi dell’Unione Europea perché fai troppo e dalla società civile, dai media e dai rifugiati stessi per non fare abbastanza.

Rispetto all’estate 2015 come vedete la situazione greca?

C’è una differenza sostanziale rispetto all’emergenza della scorsa estate, ma siamo ancora molto al di sotto degli standard che ci si aspetterebbe da un Paese europeo. C’è ancora da fare un lavoro enorme con il governo Greco, le autorità locali e l’Unione Europea perché la risposta d’accoglienza diventi efficiente. Il capo espiatorio se le cose non funzionano rischia di diventare l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, comprensibile ma non condivisibile.

Quello che si è visto è degrado, disumanità, autorità fuori controllo, umiliazioni, mancanza totale di organismi internazionali sul luogo.

Da agosto a oggi, ora si vede una differenza notevole: adesso ci sono più organismi internazionali, ci sono più fondi, c’è più presenza di Unhcr sulle diverse isole, il governo ha costruito gli Hot Spot con il procedimento di registro a Moria a Lesbos, Chios Samos, Leros e Kos.

Corridoi umanitari, perché non si percorre questa via? Qual è la soluzione a livello politico, diplomatico internazionale che andrebbe intrapresa?

Rispondo citando Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea , che ha detto al Comitato Esecutivo Unhcr: “Eravamo totalmente impreparati come Unione Europea a un esodo di queste dimensioni”. E l’essere impreparati ha fatto sì che di fronte a un esodo in atto di dover aggiustare in corsa strutture politiche e istituzionali dell’Europa inadeguate. La struttura istituzionale europea era basata sul principio “primo Paese in cui arrivi, primo Paese che è responsabile per te”. Quando, invece che avere arrivi equilibrati in tutti i Paesi europei, si ha che il 90% dei richiedenti asilo arrivano in un Paese europeo che è al bordo esterno ed è in crisi e quasi in bancarotta questo principio salta. Il principio non è stato rimpiazzato da una revisione della struttura europea di come gestire la gestione dell’asilo e la protezione internazionale.

La struttura europea per la protezione internazionale era basata su un principio crollato di fronte a numeri vertiginosi e tutti concentrati su alcuni Paesi, principalmente Grecia e Italia. La revisione di questa struttura è in atto, ma con misure tuttora deboli.

Un sistema per cui chi arriva in un Paese poi ha il diritto di muoversi liberamente e decidere dove stabilirsi non è obiettivamente proponibile Non sarà mai accettato dalla UE e quindi non funzionerà. Bisogna invece assicurare meccanismi di distribuzione equa dei rifugiati tra i Paesi europei tenendo in considerazione le effettive possibilità di integrazione dei rifugiati stessi.

La “rotta Balcanica” è stata un’eccezione e non è stata chiusa prima perché di fatto non c’era alternativa nell’immediatezza dell’emergenza. Ma a partire da marzo, non esiste più. Nel lungo periodo non si può pensare che l’Europa lasci che i rifugiati che arrivano in Italia in Grecia scelgano liberamente dove andare ma allo stesso tempo non è pensabile che la responsabilità rimanga agli Stati “di frontiera”. In teoria, il processo di “relocaiton” dalla Grecia e dall’Italia di rifugiati verso altri Paesi Europei va nella giusta direzione ma per il momento, le “offerte” di posti da parte degli Stati europei è molto limitata. Per la Grecia ad esempio abbiamo una disponibilità solo per 6.000 posti.

Bisogna far confluire i denari spesi sulle tratte illegali su voli umanitari concedendo visti e garantendo viaggi sicuri in Mediterraneo?

Sono più punti risolvere. Trovare delle vie per le persone che hanno bisogno di protezione in Europa per permettergli di arrivare in Europa senza rischiare la vita spendendo decine di migliaia di euro a famiglia. Questo è il discorso delle vie legali per trovare protezione in Europa. Una delle soluzioni sono i visti umanitari, uno dei temi su cui si sta lavorando. Uno dei canali principali è il “resettlement” ossia il trasferimento di rifugiati direttamente dai Paesi d’asilo ai Paesi europei , Usa, Canada, etc… Alcuni Paesi hanno dato il loro consenso per ricevere rifugiati in numeri molto più alti, che però sono sempre più bassi rispetto alle persone che vorrebbe o avrebbero bisogno di venire in Europa. Come Unhcr proponiamo da sempre questo tema. Per esempio per la Turchia bisognerebbe avere 500.000 partenze non alcune migliaia. Ci sono tante vie alternative, per esempio le “scolarship” per questioni universitarie, i ricongiungimenti famigliari, i permessi lavorativi, la vulnerabilità.

Il secondo punto è che chi arriva via mare e non ha alternativa alla via più pericolosa, quando arriva dovrebbe passare attraverso un procedimento molto strutturato e veloce in cui si definiscono le sue necessità e le alternative che ha.

Le alternative sono molto semplici: o attraverso il progetto di ricollocazione interna all’Unione Europea già citato, oppure chiedendo asilo e ottenendo la possibilità di avere una vita decente nel Paese in cui sei arrivato. Anche la possibilità di ricongiungimento familiare dovrebbe essere analizzata rapidamente. L’Unione Europea ha iniziato a ridisegnare il sistema di asilo europeo nel mezzo della crisi del 2015 e inizio del 2016 cercando di risolvere simultaneamente il procedimento strutturale e quello emergenziale, che difficilmente possono coincidere. Adesso, con la drastica diminuzione degli arrivi in Grecia, ci si può’ concentrare sulle riforme strutturali. Sperando solo che siano basate sulla solidarietà’ e inclusione e non sulla chiusura.

Qual è la visione di Unhcr?

È una visione di numeri: abbiamo in questo momento più di 13 milioni di siriani in movimento, tra i quasi cinque milioni di rifugiati e gli otto milioni di profughi interni alla Siria, se di questi 13 milioni il 20% vuole, può o riesce a prendere la via dell’Europa stiamo parlando di più’ di due milioni e mezzo di persone, solo di siriani senza toccare iracheni, eritrei, somali e afgani e altri. Usando dati del 2015, ci sono più di 65 milioni di persone che hanno lasciato le loro case a causa di guerra e violenza, tra questi, quasi 22 milioni di rifugiati e 40 milioni di profughi all’interno dei propri Paesi. Di fronte a queste cifre, gli 800.000 arrivati lo scorso anno sono niente. In contemporanea l’Europa sta cercando di chiudere le frontiere perché questo transito quasi inarrestabile prevalentemente verso la Germania e la Svezia non è sostenibile anche perché sono Paesi democratici che vivono sull’elettorato dell’Europa e cominciano ad avere seri problemi per mantenere una politica di porte aperte.

Quindi come si attrezza l’Europa?

Stiamo chiaramente vedendo che a livello politico quello che abbiamo di fronte in questo 2016 sono le ricerche di tutti i modi possibili per controllare le frontiere europee con il rischio, che se non si riesce a fare e non coincide con una diminuzione dei numeri, si arrivi a una chiusura drastica delle frontiere e a un innalzamento dei muri. Abbiamo visto in passato azioni unilaterali di Paesi come’Ungheria che ancora quando la “rotta Balcanica” era aperta, si è chiamata fuori.

Dopo l’entrata in vigore dell’accordo (anche se legalmente si tratta di una dichiarazione) tra UE e Turchia il 20 di marzo, gli arrivi in Grecia sono drasticamente diminuiti da diverse migliaia al giorno a meno di 100. È difficile prevedere il futuro, ma con la “chiusura della rotta balcanica” il passaggio Turchia-Grecia diventa molto meno attraente per i rifugiati che sanno che resteranno bloccati in Grecia o verranno rimandati in Turchia.

Il risultato principale è che le rotte si frammenteranno e diventeranno più costose e pericolose.

Le coste pugliesi hanno ricevuto gli albanesi nel passato, l’Albania è un Paese rimasto fuori rotta ma può entrare. Questo è lo scenario che vedo davanti a noi con il grande punto di domanda della politica interna dei Paesi UE e di come potrà reagire rispetto a un tema che era quasi marginale e ora è invece un tema centrale.

Come ha reagito la gente sul posto?

Abbiamo visto una solidarietà senza precedenti da parte della popolazione. Non è vero che la popolazione ha risposto con paura. La popolazione europea ha risposto con grande spirito di solidarietà che però è prova di tempo perché se non è compensata da una risposta politica adeguata a un certo punto si farà strada l’insofferenza.

Poi c’è il tema del terrorismo islamico e dell’associare chi viene dal mondo islamico, del Medio Oriente o del Nord Africa a un pericolo.

È un tema latente che chiaramente può essere cavalcato in qualsiasi momento. Quando si dice che questa dei rifugiati è la prova più importante che l’Unione Europea si è trovata a gestire nella sua storia non è esagerato. La crisi dell’euro passa in secondo piano in confronto a quello che si sta giocando l’Europa tutta. Dire che le risposte siano state adeguate sinceramente sarebbe falso, dire che non si sta facendo niente altrettanto. C’è più presa di coscienza, più allarme, c’è una richiesta di coordinamento rispetto ai vari attori nazionali e internazionali.

Resta, in l’Italia, il problema dei tempi biblici per processare le domande di rifugiati.

I tempi lunghi sono uno dei temi dell’Italia che ha una qualità molto alta del sistema di asilo. Sono procedimenti estremamente rigorosi e questo fa si che i tempi siano lunghi. Una commissione analizza 4/5 casi al giorno. Poi c’è tutta la rete dei fascicoli, la decisione e poi molte volte la decisione in seconda istanza. È un sistema pesante ma di qualità. La Svezia, la Norvegia, la Germania hanno dimostrato di essere “tra i migliori”, ma il loro sistema di asilo è anche simile al sistema con cui gestiscono le tasse, i servizi pubblici e l’amministrazione pubblica non si possono fare paragoni. Il sistema italiano ha una lunghezza non accettabile, però dal punto di vista del procedimento è molto rigoroso.

Dopo i “trasferimenti” da Idomeni e gli accordi con la Turchia come vive sul campo Unhcr la situazione?

Dal 20 marzo in poi c’è stata una diminuzione assoluta dei numeri, all’inizio gli arrivi sono scesi intorno ai 200 al giorno, poi 100 e nel rapporto di questi giorni siamo arrivati a registrare un solo arrivo. Certamente l’effetto accordo Unione Europea-Turchia sui numeri in questo momento è chiarissimo. I numeri degli arrivi sono crollati. Perché sono crollati, non è così semplice da definire. Il fatto che la frontiera tra Grecia e Macedonia sia ormai una frontiera chiusa è un messaggio che è passato a tutti, anche se c’è voluto un po’ perché c’è ancora molta speranza.

Le persone che sono in Turchia ora pensano due volte se pagare grandi somme rischiare per poi arrivare in Grecia e non poter più andare in Germania o Svezia ma rimanere, se va bene, mesi e mesi in Grecia.

Dello smantellamento di Idomeni, e dei rimpatri in Turchia cosa pensate?

Tutti coloro arrivati prima del 20 marzo non sono soggetti all’accordo UE-Turchia e non possono essere rimandati indietro. Lo smantellamento di Idomeni non ha niente a che vedere con l’accordo con la Turchia. Idomeni andava smantellata, il governo non l’avrebbe mai ufficializzato come campo perché bloccava l’unica ferrovia che attraversa la frontiera per il resto dei Balcani. La compagnia che gestisce la ferrovia ha perso un milione e mezzo di euro in questi mesi. Idomeni andava chiusa anche per le condizioni in cui i rifugiati vivevano lungo i binari. Smantellare Idomeni e spostare la gente in dei Centri di accoglienza, non solo è legittimo ma era un atto dovuto.

Il vero problema è che su otto centri che abbiamo ispezionato, ce ne sono solo due accettabili, gli altri sono vecchi magazzini in cui hanno messo delle tende, un po’ di bagni chimici fuori e ci sono i militari che portano tre pasti al giorno. Non sono condizioni accettabili.

Per questo come Unhcr abbiamo insistito moltissimo sul dare al governo greco tutte le possibilità per invertire la tendenza. Anche i centri peggiori bisogna portarli nelle condizioni migliori. C’era una vecchia fabbrica per raffinare il pellame che puzza ancora di chimici, come si fa a pensare di metterci delle persone? Tra l’altro, non per parlare di rifugiati di Serie C e Serie B, ma i siriani che sono arrivati sin qui in maggioranza sono della middle class siriana. Già in centri non particolarmente sofisticati fanno fatica a stare, se li si mette in centri-pollaio stanno una settimana e se ne vanno. In questi giorni stiamo iniziando con il Governo un piano di miglioramento delle strutture, ma con l’obbiettivo di poter spostare al più presto i rifugiati in centri più adatti; il problema principale è l’identificazione dei luoghi dove creare i nuovi centri.

Buoni propositi mal gestiti.

L’idea non era sbagliata, ma l’implementazione e la gestione è fatta male e in maniera inaccettabile. Alcuni centri non vanno bene e non andranno bene e la gente andrà via e ricomincerà a girare e arriverà nelle città e ricominceranno i problemi. Però non c’è un legame sul ritorno in Turchia, per i 50.000 in giro per la Penisola greca bisognerà trovare delle soluzioni: la migliore sarebbe la ricollocazione all’interno dell’Europa ma i posti che sono stati offerti dai Paesi europei sono in tutto 6.000. 1.000 sono già andati per cui ne sono rimasti 5.000 disponibili da usare contro potenzialmente 40.000 persone, resta il problema di dove collocare gli altri 3.5000 posti.

Il sistema Ue sembra non reggere il carico.

Il sistema di asilo greco è andato in tilt: le persone non riescono neanche a registrarsi per chiedere la relocation. C’è una specie di limbo giuridico e abbiamo il problema di profughi che stanno per mesi nei centri senza avere una chiarezza giuridica su cosa ne sarà del loro futuro. In giugno con il governo greco abbiamo cominciato un processo di registrazione di tutti i rifugiati presenti in Grecia che, se faranno domanda d’asilo, riceveranno un documento e una data per l’intervista per formalizzare la richiesta d’asilo. Contiamo di finire la registrazione i primi di agosto.

Intanto il tempo passa e arriveremo velocemente a settembre…

Quando i bambini dovrebbero andare a scuola e non andranno a scuola, anche se il Ministero dell’Educazione dice sta preparando un piano per l’accesso all’educazione.. Così una situazione che dovrebbe essere più che gestibile – siamo in estate in mezzo all’Europa – non avanza come ci si aspetterebbe.. 40.000-50.000 rifugiati che in teoria sarebbero facilmente gestibili con i fondi europei arrivati, le risorse nel Paese, le tante Ong e i tanti volontari sul campo, in teoria potrebbe essere una situazione che in pochissimo tempo si risolve se l’accordo UE-Turchia tiene e non ci sono nuovi arrivi significativi.

Il problema restano la burocrazia, le complicazioni, le differenze politiche. Sulle isole, anche se adesso ci sono poco più di 8.000 persone, i centri sono quelli e non c’è posto e sta crescendo molto la tensione.

Parliamo dei cinque Hot Spot sulle isole.

A Lesbos, Chios, Leros, Kos e Samos, la situazione è tesa, ma c’è molta aspettativa sulla tenuta dell’accordo UE-Turchia. L’accordo dice che chi arriva in Grecia e viene identificato come persona che non necessità protezione internazionale se fa domanda d’asilo gli viene riconosciuto che i suoi bisogni di protezione possono essere realizzati in Turchia e può essere rimandato indietro.

Come vengono trattati i profughi in Turchia?

2.700.000 siriani sono già rifugiati in territorio turco e avendo registrato una situazione non preoccupante se non per alcuni casi specifici, non abbiamo particolari obiezioni. Bisogna vedere se l’accordo tiene e soprattutto qual è la variabile principale per la diminuzione dei numeri. Uno dei temi più’ importanti per noi è che l’analisi su chi può’ e chi non può’ essere rimandato in Turchia sia fatta in maniera approfondita e individuale. Finora siamo soddisfatti su come il sistema d’asilo greco sta procedendo in questo senso.

Anche in Libia la situazione sembra basata su un gioco di controllo delle coste.

In Libia la situazione è più difficile perché c’è meno capacità di gestione e di controllo. La situazione è diversa alla frontiera marittima tra Turchia e Grecia che può’ essere paragonata a quella tra Marocco e Spagna, dove il Marocco sembra avere più controllo sulla sua frontiera esterna.

Quindi che scenario abbiamo davanti in Grecia?

Due direi. Continuiamo così con arrivi molti limitati, un po’ di confusione un po’ di difficoltà ma una situazione che da qui a luglio-agosto si regolarizza. Ritorni molto limitati verso la Turchia perché comunque le autorità greche fanno un procedimento di asilo molto dettagliato e le persone riconosciute come vulnerabili, sono esentati dal processo di ritorno. Gli “hot spot” sulle isole rimangono sovraffollati ma si stanno cercando e creando strutture alternative. È urgente trovare soluzioni per i 40/50.000 che sono in Grecia. Ci deve essere un incremento sostanziale delle offerte di ricollocamento da parte degli Stati europei e la Grecia dovrebbe poter integrare, mantenere e proteggere tra i 10.000 e i 20.000 rifugiati per andare verso l’equilibrio e l’ordine. Intanto è necessario migliorare urgentemente le condizioni nei più di 40 centri esistenti sulla penisola.

C’è poi un fenomeno di rimpatrio volontario che avete registrato ultimamente?

Si, per esempio gli afghani stanno chiedendo il ritorno volontario in Afghanistan. Quelli che la Grecia non riesce a proteggere dovranno essere ricollocati all’interno dell’Europa con un gesto di solidarietà molto maggiore dei Paesi europei. Diverse fonti dicono che questa solidarietà arriverà nel momento in cui ci si convincerà che l’accordo Ue-Turchia tiene perché non si vuole creare un “pool factor”: “Tanto se arrivi in Grecia, poi vieni ricollocato”. E la tenuta si vede adesso, se gli arrivi continuano come sono adesso fino a luglio- agosto, l’esodo verso l’Europa è finito, la rotta della Grecia è finita.

In compenso in Italia gli sbarchi da Libia e Egitto sono ripresi a ritmo serrato e i morti si contano a centinaia…

L’Italia però non sta ricevendo un impatto maggiore per la chiusura della rotta greco-turca, è propaganda. Non c’è un legame diretto, gli arrivi dalla Libia sono di popolazioni di nazionalità diversa. Sono africani e questo cambia molto. In Grecia su 150.000 sbarcati nel 2016, di africani ne sono arrivati alcune migliaia, la rotta dall’Africa subsahariana è diversa.

Che gli sbarchi verso l’Italia aumentino è probabile perché di africani che vogliono arrivare in Italia ce ne sono centinaia di migliaia. Che sia un effetto diretto della chiusura della rotta turco-greca è negato dall’evidenza.

Una tendenza che segue l’onda xenofoba in molti Paesi.

La tendenza ora è quella dire che la rotta greco-turca si è chiusa per cui ricomincia la rotta sull’Italia. Sono due fenomeni non legati, importanti tutti e due ma diversi. Se l’accordo non tiene, la situazione potrebbe diventare apocalittica perché prima mille entravano, mille uscivano dalla Grecia. Adesso sarebbero 1.000 che entrano e 1.000 che restano e in un mese e mezzo avremmo 150.000 persone che girano disperate per la Grecia, la débâcle.

E sugli altri fronti emergenziali Unhcr come dice la sua?

Siamo l’unica agenzia internazionale presente in tutti i passaggi. In Siria abbiamo ancora 243 persone che stanno lavorando per l’UNHCR. Sul territorio siriano facciamo sia un lavoro diretto di aiuto umanitario, sia un lavoro di coordinamento delle poche agenzie rimaste. I Paesi vicini alla Siria devono non solo continuare a ricevere sostegno, ma si deve rinforzare a molto la solidarietà e il sostegno internazionale. In Libia invece la nostra presenza è molto limitata, soprattutto con operazioni in Tunisia. Abbiamo pochissimi funzionari e lontani dalle frontiere marittime. Bisogna vedere chi arriva prima: se la magnitudine della crisi o la capacità di risposta.