Le radici di Widad

Intervista con la scrittrice Widad Tamimi, figlia di un’ebrea triestina e di un palestinese fuggito in Italia

di Gabriella Grasso

È davvero una storia di destini incrociati quella che racconta Widad Tamimi in questo suo secondo libro Le rose del vento (Mondadori, 18,50 euro). Ma è anche la storia di una giovane donna che cerca, nelle tracce di chi l’ha preceduta, la propria identità. Lo fa per un bisogno viscerale: «La mia è una costante ricerca di radici, una voragine insaziabile, che mi lascia con un senso di delusione alla fine, come in una cena senza dessert. Cerco, cerco, cerco. Scavo nell’oblio». È una vicenda che meritava di essere raccontata, perché racchiude in sé un secolo di Storia e mostra come essa si riverberi sui destini attuali di interi popoli.

rose vento

C’è la famiglia materna dell’autrice, ebrea e triestina, costretta dal fascismo a rinunciare alla propria identità nazionale e alla coesione, riprendendo un destino antico di diaspora: trova rifugio negli Stati Uniti da cui poi il nonno, Carlo, fa ritorno vinto da una nostalgia che non gli dà pace. E c’è la famiglia paterna, palestinese, costretta a lasciare il proprio villaggio e diventare profuga sotto l’assistenza dell’Unrwa: il padre dell’autrice, Khader, deciderà poi di venire a studiare in Italia, con l’obiettivo di diventare pediatra e tornare a casa a curare i bambini del suo popolo.

A Milano la figlia di Carlo, Claudia, incontra Khader. Sono gli anni Settanta, i giovani italiani credono nella possibilità di creare un mondo più giusto. Khader fa parte dell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi. Claudia decide di intervistarlo.

Quando lui le domanda perché le stia a cuore la causa palestinese, lei spiega che anche la sua è una famiglia di esuli, ebrei, e gli racconta la propria storia. Il giovane ascolta, ma la diffidenza nei confronti di chi rappresenta, in qualche modo, il nemico, gli fa domandare: «E questo cosa ha a che fare con i palestinesi?». Lei risponde: «Gli ebrei sono dovuti scappare, ma poi sono diventati causa di un altro esodo, di morte e di sofferenza. È imperdonabile». Nello spiraglio aperto da questo momento di rispecchiamento e umana comprensione reciproca, si insinua un sentimento che porterà i due giovani a scegliere un destino comune. Dall’incontro di due esili, dunque, nascerà a Milano nel 1981 l’autrice, che oggi vive in Slovenia.

Lei sceglie di aprire il libro raccontando della morte precoce di sua madre, scomparsa quando lei aveva 10 anni dopo una lunga lotta contro la depressione. È da questo evento traumatico che sembra nascere il suo bisogno di ritrovare e comprendere la storia familiare. È così?
«Sicuramente. La morte di mia madre è all’origine del mio desiderio di indagare sulla nostra storia. Ero ancora una ragazzina quando iniziai a intervistare mio nonno sulle vicende della famiglia: in realtà era una scusa per sentir parlare di lei. Come spesso succede quando qualcuno fa la scelta di abbandonare la vita, si trattava di un argomento tabù. Un po’ per dolore, un po’ per rabbia, nessuno voleva parlarne. Ma io avevo bisogno di cercarla, di trovare e capire le sue ragioni. Molti in famiglia non hanno condiviso la mia strada. Anche per questo nel romanzo ho aggiungo alcuni brani in cui intervengo in prima persona: volevo svelarmi, rendere questa storia personale, plausibile. Un atto di onestà nei confronti di me stessa, della mia famiglia e dei lettori».

La sua esigenza era anche quella di recuperare, attraverso la ricostruzione della storia familiare, una solidità identitaria. Questo romanzo è il risultato della sua ricerca. Al di là del progetto editoriale, sente di aver raggiunto il suo scopo?
«Il mio obiettivo editoriale era diverso da quello personale. Il mio bisogno era quello di ricostruire la storia della mia famiglia e di mia madre. La scelta di pubblicare il libro ha una connotazione politica: volevo evidenziare la somiglianza tra il destino di mio nonno e quello di mio padre che, pur da punti di partenza diversi, si è rivelato molto simile. Volevo affiancare due storie, quella palestinese e quella ebraica, che purtroppo si ripetono, come in un ciclo. E, soprattutto, volevo mettere i due percorsi sullo stesso piano».

Nel paragonare l’esilio di suo nonno e quello di suo padre lei sottolinea che il primo fu caratterizzato da una forte nostalgia, il secondo dalla rabbia. Carlo infatti tornò in Italia; Khader non si è mai più recato a Hebron. Ci parla della differenza tra questi due uomini?
«Mio nonno aveva interiorizzato l’esilio: era un uomo che tendeva ad assorbire le emozioni a livello sottocutaneo, come tutta la sua famiglia. Dopo la partenza da Trieste ha sofferto ogni giorno della sua vita, sviluppando una tendenza alla depressione. Mio padre invece è abituato a tenere le emozioni in rilievo: magari non dorme la notte, ma l’indomani mattina ha superato tutto. Il suo motto è sempre stato: forza e coraggio. Questi due approcci rispecchiano le caratteristiche delle rispettive famiglie. Quella di mio padre era povera, lavorava la terra, doveva lottare per la sopravvivenza, non si concedeva il tempo né il permesso per fermarsi a interiorizzare le emozioni e gli avvenimenti. Quella di mio nonno aveva delle sicurezze materiali che hanno costituito un salvagente: all’interno del quale, però, le emozioni hanno potuto mettere radici. Ma mio nonno e mio padre hanno in comune molto altro, oltre all’esilio: entrambi hanno perso le mogli molto giovani e si sono ritrovati vedovi con due figlie. Ed entrambi hanno vissuto una profonda solitudine nel Paese di arrivo».

Sulla strada per Hebron - Foto: Yoni Lerner via Flickr in CC

Sulla strada per Hebron – Foto: Yoni Lerner via Flickr in CC

Suo nonno Carlo, dichiaratamente ateo, afferma: «Ci sentimmo ebrei il giorno in cui capimmo di doverci difendere perché tali». Lei che riflessioni ha fatto sull’identità ebraica oggi?
«L’identità ebraica non è semplicemente religiosa e non è omogenea. Essendo un popolo della diaspora racchiude al suo interno profonde differenze culturali e anche politiche, soprattutto quella tra sionisti e non sionisti. Mio nonno era profondamente orgoglioso della sua identità ebraica, che però si è consolidata quando è stata minacciata. Non che prima non ci fosse un senso di comunità: a ben vedere i matrimoni avvenivano tra ebrei e gli affari si facevano tra ebrei. Però la necessità di fuggire e difendersi ha rafforzato il senso di appartenenza. È normale che sia così, è successo anche tra i musulmani dopo l’attacco alle torri gemelle e la conseguente islamofobia occidentale: ecco perché la radicalizzazione ha trovato spazio. Nella mia famiglia materna ci sono persone profondamente atee e altre praticanti. Ma sono sempre stati tutti anti-sionisti: nessuno si è mai voluto trasferire in Israele e hanno sempre preso posizione a favore dei palestinesi, perché ricordando il proprio esilio si sono identificati in quello degli altri e hanno sentito la responsabilità di sostenere i diritti di tutti».

Questo parallelo tra l’esilio ebraico e quello palestinese, che lei sottolinea nel libro e che è sempre apparso così evidente alla sua famiglia, sfugge però a molti ebrei. Un po’ come molti italiani sembrano aver dimenticato i tempi in cui i migranti erano loro. Perché succede?
«Le persone cercano la via più facile, che è quella di chiudere gli occhi e non guardare la realtà. Qui in Slovenia oggi è molto evidente: la reazione davanti ai flussi migratori è di paura. È più facile sbarrare le porte piuttosto che aprirle e cercare di capire cosa stia succedendo, esercitando un senso di responsabilità sociale mondiale. Si preferisce delegare le risposte ai governi o all’Europa, rifugiandosi nell’idea di non avere responsabilità individuali. Io invece – forse perché sono stata educata così da entrambi i rami della mia famiglia – penso che tutti abbiamo delle responsabilità. L’empatia non è una debolezza emotiva, ma una scelta: quella di interessarsi ai problemi dell’altro e assumersi il suo dolore – e anche la sua gioia, quando ci sarà. Lasciando da parte l’economia e la politica, si tratta di scegliere il proprio modo di stare al mondo. Ma basta analizzare le nostre vite quotidiane per capire quanto poco siamo inclini alla comprensione dell’altro: in famiglia, al lavoro, persino in strada, quando litighiamo con gli altri automobilisti».

C’è da dire che la storia e il dramma dei palestinesi sono in generale meno conosciuti di quelli degli ebrei. Come mai?
«Perché gli ebrei sono più forti da un punto di vista comunicativo, portano avanti con la letteratura, il cinema, con un movimento di opinioni, un messaggio che i palestinesi non sanno veicolare. La letteratura palestinese, per esempio, fa fatica ad affermarsi in Occidente, mentre quelle ebraica e israeliana sono fortissime. Mi è capitato spesso di dirlo durante incontri pubblici con altri palestinesi: dobbiamo migliorare la nostra capacità di parlare al mondo. Certo, possiamo anche limitarci a piangerci addosso in quanto povere vittime. Ma io credo che, al di là dei mezzi economici, gli ebrei abbiano da sempre una maggiore capacità di comunicazione verso l’esterno».

Non ritiene che la potenza comunicativa sia collegata a quella economica?
«Io cerco di andare oltre, perché credo che l’autocritica sia fondamentale per migliorarsi. La verità è che esistono anche palestinesi molto ricchi: sono pochi, ma ci sono. Però non investono nella causa comune. Così come molti fondi che arrivano in Palestina non vengono spesi per politiche culturali mirate: questo aspetto del popolo palestinese, al quale sento di appartenere, mi fa rabbia. Certo, la vita a Gaza e in Cisgiordania è molto difficile. Però penso che i palestinesi della diaspora abbiano una grande responsabilità e io la sento. Ho sempre saputo che avrei studiato diritto internazionale per aiutare il mio popolo. E anche se oggi faccio la scrittrice, contribuisco comunque alla causa. Ricordo lunghe discussioni con mio padre quando lo sentivo lamentarsi degli israeliani. Gli dicevo: non condizionarmi, perché io appartengo a una generazione diversa, che deve riuscire trovare un dialogo, altrimenti non ne usciremo mai. Purtroppo però molti figli di palestinesi non sentono più una connessione con la terra d’origine dei genitori e ne hanno preso le distanze».

A 18 anni lei ha deciso di andare in Palestina a cercare la casa di suo padre, tra l’altro contro il suo parere. Ci è tornata in diverse occasioni: ce ne parla?
«La prima volta che sono partita era il 2000: non era ancora scoppiata la seconda Intifada e si respirava un clima abbastanza sereno, anche se ricordo una conversazione avuta in Israele con un ebreo americano che mi disse: “Siete tutti arabi: perché non ve ne andate in un altro Stato?”. Quando tornai nel 2002 era appena stato raso al suolo il campo profughi di Jenin, la situazione a Gaza era terribile e dalle conversazioni si percepiva come la distanza stesse diventando incolmabile. Sinceramente sono pessimista sul futuro: credo che l’unica possibilità sarebbe quella di uno stato unico, perché ormai il territorio è talmente frammentato che sarebbe impossibile dividerlo. Tuttavia per Israele uno stato unico è inconcepibile perché non accetterebbe mai che non fosse fondato sull’identità ebraica. Io mi auguro che con l’avvicendarsi delle generazioni ci si accorga che non è più possibile vivere così. Ho da poco letto il romanzo Alla ricerca di Fatima di Ghada Karmi e mi sono stupita ancora una volta nel verificare come negli anni Venti e Trenta si convivesse pacificamente. In questo libro il padre dell’autrice racconta dello shock collettivo di assistere all’assegnazione, da parte degli inglesi, di uno stato agli ebrei e di come fino all’ultimo si fosse sperato nella possibilità di creare anche uno stato arabo. Invece si è preferito liberarsi del senso di colpa per vicende avvenute altrove penalizzando un popolo che non c’entrava nulla e che aveva sempre avuto con gli ebrei rapporti ottimi, fino a quando non è iniziata l’immigrazione di massa».

Macerie a Jenin, 2002 - Foto: Svala Jonsdottir via Flickr in CC

Macerie a Jenin, 2002 – Foto: Svala Jonsdottir via Flickr in CC

Lei percepisce la sua identità come composita o si sente soprattutto palestinese?
«Senza dubbio composita. Io non sono riconosciuta come ebrea perché la madre di mia madre non lo era: tuttavia sono cresciuta a stretto contatto con mio nonno materno, quindi all’interno di un contesto culturale ebraico. La mia identità, però, non influisce sulla mia posizione politica. Non ho bisogno di sentirmi un po’ meno ebrea per sapere da che parte stare. Tra l’altro la mia identità ebraica non si confonde con un’identità israeliana: e non solo per questioni politiche. Non sento molte affinità con gli israeliani, perché hanno un approccio alla vita aspro, poco raffinato, a volte persino maleducato. Andando in giro per Tel Aviv lo si percepisce bene: non è un popolo che ti mette a tuo agio. È come se fosse sempre sulla difensiva, probabilmente perché vive sentendosi costantemente sotto attacco».

Nel romanzo lei si domanda: «Quante generazioni ci vogliono per seppellire un esilio?». Si è data una risposta? E quali ripercussioni ha un esilio sulle generazioni successive?
«Le conseguenze sono forti ed evidenti nella vita di tutti i giorni, perché senti l’assenza dei legami familiari. Difficilmente nella diaspora si riesce ad andare tutti nello stesso posto, dunque le famiglie finiscono per disperdersi. Credo però che arrivi un momento, con l’avvicendarsi delle generazioni, in cui questa mancanza si stempera. Io l’ho sentita, ma penso che non sarà così per i miei figli. Ad ogni modo, anche quando fai pace con la mancanza, ti resta il desiderio di raccontare, condividere una parte della tua identità. Per esempio quest’anno nella scuola dei miei figli, qui a Lubjana, hanno istituito una Giornata Internazionale e ci hanno chiesto quale Stato volessimo rappresentare, la Slovenia o l’Italia. È stato mio marito, che pure è sloveno, a rispondere: la Palestina. Così abbiamo sfilato sotto la bandiera palestinese e cucinato piatti tipici. Per me è stato un modo per condividere con i miei figli una parte della mia identità che emerge poco perché ce ne sono altre più evidenti. Per rispondere alla domanda, quindi: sì, a un certo punto ci si può liberare del peso dell’esilio, ma senza dimenticare le origini, soprattutto se sono ancora politicamente irrisolte».

Da mesi lei è impegnata nell’accoglienza dei migranti che giungono in Slovenia, ci racconta questa esperienza?
«Ho iniziato alla fine dell’estate scorsa a lavorare come volontaria per la Croce Rossa nei campi profughi. Nonostante il mio arabo non sia eccellente, non eravamo in molti a parlarlo, quindi mi hanno affidato il compito di aiutare chi arrivava a ritrovare i familiari dispersi durante la guerra o la fuga. I turni erano anche di 12 ore, ai quali si aggiungevano le due ore di viaggio da Lubjana, che cercavo di fare di notte per stare vicina ai miei figli durante il giorno. A febbraio hanno chiuso le frontiere e quindi anche il campo. Oggi qui arrivano, in aereo dalla Turchia o dalla Grecia, solo richiedenti asilo che poi attendono la conclusione della procedura. Da marzo lavoro con un’associazione che si occupa appunto di queste persone: faccio da intermediario con i legali, li porto dal medico, organizzo attività. L’obiettivo principale è di aiutarle a stabilizzare la propria vita e a combattere la depressione. Perché finché sono in attesa dello status di rifugiati non possono lavorare e si confrontano con parecchi problemi legali, connessi per esempio al ricongiungimento familiare».

Bambini al campo profughi di Dobova, in Slovenia -  Foto: Trocaire via Flickr in CC

Bambini al campo profughi di Dobova, in Slovenia – Foto: Trocaire via Flickr in CC


In che modo la sua storia personale è legata alla scelta di dedicarsi all’attività di volontariato?
«Le due cose sono ovviamente connesse: per descrivere nel libro i profughi palestinesi, per esempio, ho fatto riferimento alle immagini che ho avuto sotto gli occhi in settembre, quando masse di persone sono arrivate senza scarpe, sotto la pioggia, con il freddo. I bambini soprattutto mi hanno colpito perché hanno risorse fantastiche. Riescono a giocare anche in un campo profughi in mezzo al fango, portandosi in giro a vicenda su una carriola: tu sai che quella carriola è di solito usata per trasportare rifiuti e ti viene voglia di fermarli, ma poi li vedi così felici e li lasci fare. Sanno essere vitali in qualunque situazione, ma le loro esistenze sono segnate».

La sua famiglia materna, quella di suo padre, i migranti che arrivano oggi in Europa: l’esilio sembra un destino ineluttabile per una parte dell’umanità…
«È così. Quando sento qualcuno domandarsi: “Ma perché questi vengono qui?” mi viene da rispondere: il prossimo potresti essere tu. Nessuno di noi è al riparo. Nei Balcani potrebbe cambiare tutto nel giro di poco. Eppure ci ostiniamo a pensare: no, a noi non può succedere, capita solo agli “altri”. Ed è incredibile come tutte le storie di esilio siano caratterizzate dallo stesso approccio mentale, dalle stesse affermazioni: “Tanto dura poco”, “Andiamo via solo momentaneamente”, “Portiamo i figli fuori dal Paese per una stagione e poi torniamo”. Ho sentito le stesse frasi nei racconti di mio nonno, di mio padre, in quelli dei rifugiati che incontro oggi in Slovenia. Perché pensiamo che a noi non possa succedere? Il futuro non è prevedibile. La Gran Bretagna è uscita dall’Europa e le istituzioni europee non sono più forti come un tempo. Siamo davvero sicuri di essere al riparo per sempre da un destino di esilio?».

 

(Widad Tamimi presenterà Le rose del vento a Milano con Moni Ovadia, alla libreria Hoepli, lunedì 4 luglio alle ore 18).