Giornalismo di pace

Una raccolta di saggi, una visione del racconto dei conflitti

di Christian Elia

Il Centro Studi Sereno Regis di Torino è una delle realtà più serie che, da anni, lavora nel mondo della pace e della soluzione dei conflitti. Con il piglio dei ricercatori, con l’umanità di coloro che sanno da che parte stare.

Anima del Centro è stato, per anni, Nanni Salio, che è prematuramente scomparso recentemente, lasciando un grande vuoto, ma anche la consapevolezza di un lavoro che andrà avanti.

Giornalismo di pace, a cura di Nanni Salio e di Silvia De Michelis, edito da GruppoAbele, è una raccolta di saggi attorno al tema della ricerca che da anni Johan Galtung, e non solo lui, porta avanti. Quella di un racconto giornalistico capace di superare i limiti e i cliché del reporter di guerra.

Premessa: come il giornalismo di guerra non è a favore della stessa, quello di pace non è terreno esclusivo di militanti contro la guerra. Anzi. Si tratta di un approccio professionale, corretto e completo al mestiere di raccontare quello che succede nei conflitti che ancora insanguinano il mondo.

Ed è terreno di ricerca autorevole: nel libro ci sono contributi di Salio e Galtung, di Stuart Allan e di Birgit Borck-Utne, di Jake Lynch e Dov Shinnar.

La proposta, per altro, ad alcuni può sembrare ovvia: un racconto che non sia legato solo al ‘qui e ora’, un lavoro giornalistico capace di cogliere il contesto, di raccontarne l’umanità, che non si limiti solo alla voce dei leader, che non schiacci popoli interi sulla visione dei suoi comandanti, che sappia scomporre un conflitto fino a leggerne gli interessi.

Eppure sembra rivoluzionario, almeno per chi ha sempre tentato di raccontare tutto, di farlo prima che le situazioni deflagrassero, di guardare con il punto di vista degli ultimi, di porsi in ascolto di tutte le narrazioni in campo, non solo delle dominanti.

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Ma non va così e con la tragedia della crisi che travolge i media, sembra sempre più difficile lavorare su un salto etico e professionale, su un’evoluzione delle dinamiche di questo lavoro.

Il libro raccoglie saggi che affrontano anche il tema del fotogiornalismo, della discriminazione di genere e della libertà del racconto in zona di guerra, in particolare rispetto ai recenti conflitti in Iraq e Afghanistan, dove per motivi di sicurezza (veri o presunti) ed economici, sempre più spesso si è fatto ricorso a colleghi locali, che in alcuni casi hanno pagato in prima persona per una narrazione non in ‘linea’ con i committenti.

Un testo importate, che fa il punto di quanto scritto e detti sul giornalismo di pace. Non sempre si può essere d’accordo con la proposta di Galtung di essere capaci anche di proporre soluzioni creative al conflitto, perché non è detto che spetti a noi farlo.

Allo stesso tempo, però, come non essere d’accordo con l’assunzione di responsabilità che deve compiere chi fa questo mestiere? Come non porsi domande su quanto certe narrazioni stereotipate, manichee, non finiscano per alimentare un conflitto?

Una serie di interventi da rileggere e da far studiare nelle scuole di giornalismo. Ripartire dalla capacità di mappare un conflitto, dal rifiuto di qualsiasi arruolamento culturale, dalla certezza solo della complessità, dalla sicurezza che saranno i più deboli a pagare il prezzo della guerra. Chiamatelo giornalismo di pace, ma in fondo è solo buon giornalismo.