L’inconsapevole leggerezza bolognese sul radicamento mafioso

La presenza della criminalità organizzata
nel capoluogo emiliano è sottovalutata. Ma c’è chi si muove,
soprattutto nei luoghi di formazione

di Sofia Nardacchione

Bologna città di mafie o per le mafie? Per la maggior parte degli abitanti del capoluogo emiliano-romagnolo, nessuna delle due. “C’è la mafia a Bologna?” chiedeva forse un po’ ingenuamente un volenteroso gruppo di liceali alle persone che passavano in piazza Maggiore quattro anni fa; una risposta su tutte: “C’è chi lo dice, ma nella mia vita non c’è”. Non cambierebbe molto se l’esperimento venisse rifatto adesso, e sono tanti i fattori che lo dimostrano, come tanti sono gli elementi che portano a delineare un quadro completamente diverso da quello immaginato dalla gran parte della cittadinanza.

Le mafie ci sono, ci sono da anni, e non lo dimostrano solo i due processi che si stanno svolgendo.

Lo dimostrano anche i sussulti politici, ad esempio la legge 3 del 2011 sulle “Misure per l’attuazione coordinata delle politiche regionali a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso, nonché per la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile”, che tra poco convergerà in un testo unico. Lo dimostra l’istituzione della Direzione Investigativa Antimafia a livello regionale nel 2011, e l’attenzione dimostrata subito dopo il terremoto del maggio 2012 per attuare meccanismi di salvaguardia dalle possibili infiltrazioni mafiose, meccanismi che si sono dimostrati non adeguati visto quanto sta emergendo dal Processo Aemilia.

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Brevi sussulti, o nessuno. Come nell’ambiente imprenditoriale. Nel 2012 Gaetano Maccaferri, ex presidente regionale di Confindustria Emilia Romagna, affermav che la mafia in regione non esiste: “Non abbiamo di questi problemi”, dice. “Le infiltrazioni mafiose o il pericolo mafia non sono all’ordine del giorno”. Ma è proprio l’ambiente imprenditoriale quello più fertile per le mafie in una regione relativamente ricca e soprattutto in un periodo di crisi, quando è facile accettare offerte economiche apparentemente vantaggiose, senza approfondire tutto ciò che di oscuro c’è dietro. In un periodo come quello attuale, per le mafie è anche più facile entrare in possesso delle imprese e degli esercizi commerciali in difficoltà, tramite il prestito a strozzo, cioè l’usura.

Certamente il “mondo politico” dovrebbe essere in allerta, dovrebbe sentire che il mancato sviluppo del welfare porta inevitabilmente a una maggiore ramificazione delle mafie nel tessuto economico legale.

In mancanza di sicurezze lavorative e con un notevole aumento della disoccupazione, anche nella ricca Emilia Romagna diventa molto più facile – per disperazione o per facilità – andare a finire in una zona di illegalità che si nutre del “ricorso ai sistemi mafiosi di sfruttamento della manodopera, di minaccia alla concorrenza e di evasione delle norme fiscali e previdenziali”. Le mafie approfittano quindi delle opportunità di lavoro che il territorio ancora è in grado di offrire, minacciando l’intera economia legale.

Lavoro nero ma non per questo vantaggioso: tanti sono i casi, emersi anche nel processo Aemilia, che mostrano un sistema di vero e proprio sfruttamento dei lavoratori, costretti in alcuni casi a restituire una parte dello stipendio dichiarato, che va così a creare un ulteriore fondo monetario sommerso. È il caso, ad esempio, della Bianchini Costruzione s.r.l., che, secondo l’accusa del processo Aemilia, avrebbe creato un sistema di sfruttamento dei lavoratori impiegati nelle ricostruzioni post-terremoto. Il lavoro degli operai avveniva tramite metodi illegali, volti al guadagno dell’organizzazione mafiosa con cui il titolare della società era in contatto, in particolare con Michele Bolognino, uno dei principali imputati accusato di essere a capo della ‘ndrina emiliana. Bolognino, infatti, organizzava il lavoro tramite minaccia di licenziamento o di “male fisico” e tramite intimidazione, “derivante dalla nota appartenenza alla ’ndrangheta”. Secondo l’ordinanza, inoltre, Bolognino approfittava “dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, i quali in un contesto di grave crisi occupazionale, accettavano condizioni di impiego inique e onerose e caratterizzate dallo sfruttamento, che soltanto a fronte di un reale stato di necessità potevano essere imposte e tollerate”.

Mensilmente, Bolognino e il collaboratore Richichi trattenevano parti dello stipendio relative alla cassa edile, ai buoni pasto, alle visite mediche, alle indennità di mancato preavviso e ad altre spettanze, per un ammontare approssimativamente pari a circa 1.000 euro per ogni dipendente.

“Con ciò costringendo – come si legge nell’ordinanza – con costante intimidazione verbale e “ambientale” i dipendenti reclutati di cui veniva organizzata l’attività lavorativa, a tollerare un mensile prelievo del denaro pure a loro destinato, quale prezzo della intermediazione, con profitto ingiusto e pari altrui danno e obbligando sistematicamente i lavoratori ad un gravoso impiego settimanale senza fruizione della giornata di riposo”.

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Eppure, nonostante i dati parlino chiaro – 273,71 chili di droga sequestrati a Bologna nel 2013, 817,12 in Emilia-Romagna e 18 beni confiscati nella provincia di Bologna, 97 in tutta la regione – sembra che la percezione rimanga ferma a qualche anno fa, quando si parlava appena di una possibile infiltrazione. Dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani, spesso non cambia molto: a Bologna le mafie non ci sono, punto.

Qualunquismo – egoistico, dovuto a una scarsa attenzione verso le esigenze collettive e quindi anche verso fenomeni criminali che vanno a deteriorare il tessuto sociale ed economico – da una parte, poca informazione – brevi notizie, non messe in risalto dai giornali e poco lette – dall’altra.

Ed entrambe le cose portano a una gravissima sottovalutazione del fenomeno, anche da parte di quegli organismi, politici e sociali, che il territorio dovrebbero invece controllarlo, studiarlo attentamente in tutti gli aspetti, anche in quelli sommersi. Ma, anche da parte di questi, l’attenzione viene posta piuttosto ad altri problemi: quello della immigrazione, ad esempio, che viene associata da buona parte della popolazione a una diminuzione della sicurezza. Come se un appalto gestito male non portasse a una pericolosità molto maggiore: bassi prezzi quindi bassa qualità dei materiali, materiale scadente quindi minore sicurezza, magari in una scuola o in un ospedale. Luoghi comuni, essenziali.

Non possiamo certamente buttare tutto: una parte della cittadinanza che si muove, e cerca di far muovere le coscienze, c’è. Associazioni antimafia, sindacati, ma anche insegnanti e studenti. Quegli stessi insegnanti che in questi anni hanno portato, e continuano a farlo, i propri ragazzi ai processi di ‘ndrangheta a Bologna e a Reggio Emilia, davanti a mafiosi che tutto sembrano tranne che criminali, davanti a facce pulite accusate di associazione mafiosa, usura, estorsione, sequestri, sfruttamento.

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Ed è proprio vedere queste facce pulite nel banco degli imputati che può portare a una svolta: permette di far capire che non tutto quel che sembra legale lo è.

Fa capire che i settori in cui le mafie si sono radicate, anche a Bologna, sono settori “normali”, e che portano soldi: il settore imprenditoriale, quello degli appalti, finanziario. Ma, anche grazie ai processi, si può imparare che dietro a questa velata legalità si nasconde una violenza molto spesso brutale, fa capire che il male presente non si vede da un primo sguardo, fa capire quindi che bisogna andare a fondo e che non si può più dire che “la mafia a Bologna non c’è perché non si vede”. Ci siamo forse abituati alla presenza di una illegalità diffusa, che va dalle mancate ricevute a qualcosa di più. Ci siamo abituati perché pigri, perché è conveniente, perché individualisti, perché c’è sempre qualcosa di più importante. A forza di sminuire per riuscire a giustificare la nostra indifferenza, ci troviamo in una regione, e in una città, in cui le mafie ci sono. Possiamo continuare a dire che non è così, o fare in modo che qualcosa cambi.

A partire dalla presenza ai processi, di fianco a testimoni impauriti, facendo in modo che le aule giudiziarie non siano riempite solo da studenti – sono circa 1.000 i ragazzi che hanno partecipato alle udienze dal 2014, grazie al lavoro di Libera Emilia-Romagna. Facendo in modo che se ne parli di più, perché non è possibile che neanche nel Tribunale di Bologna le guardie sappiano che proprio là si sta svolgendo un importantissimo processo di ‘ndrangheta. Rispondendo a coloro che dicono, ancora adesso nel 2016, che le mafie qua non ci sono, provando a diffondere quella cultura della legalità che trova il suo principio più importante proprio nelle scuole, ma che dovrebbe arrivare anche a quei settori professionali che sono più a rischio.

 

Le immagini di Bologna sono tutte foto di Roberto Taddeo tratte da Flickr in CC