Napoli, precarie visioni

Se viviamo di pre-giudizi, di pre-visioni inevitabili e fallibili, Napoli offre un caso speciale di verifiche, problematico e particolarmente incerto

di Tano Siracusa

In qualunque posto ci rechiamo veniamo preceduti dalle sue immagini. Forse perché appare rassicurante disinnescare lo spaesamento della scoperta facendo coincidere ciò che vediamo con ciò che avevamo immaginato. Figuriamoci a Napoli, dove un formidabile repertorio di film, fotografie, libri, canzoni, documentari, proverbi, personaggi, affastella una rappresentazione, un preteso caleidoscopico sapere della città, tanto ovvio quanto esposto a sorprese, smentite, continue integrazioni.

Il sistema di aspettative a Napoli si rivela infatti non solo inevitabilmente provvisorio ma permanentemente inadeguato. Se viviamo di pre-giudizi, di pre-visioni inevitabili e fallibili, Napoli offre un caso speciale di verifiche, problematico e particolarmente incerto.

Città di sorprese. Vecchi conventi abbandonati trasformati in percorsi surreali di artisti come Gianmaria Tosatti o austeri lanifici borbonici rinfunzionalizzati con eleganza in centri di incontro, integrazione culturale, formazione e orientamento per giovani italiani e migranti: come Officine Gomitoli ha realizzato nei locali sovrastanti il chiostro della cinquecentesca chiesa di Santa Caterina da Formiello.

Oppure vecchi manicomi giudiziari trasformati in luoghi di incontro e intervento civile, politico, popolare da centri sociali come Je so’ pazzo o una chiesa stracolma alle 11 di mattina per ascoltare un nobile discorso del filosofo Masullo.

Il fumetto che sfotte il sindaco Narciso, il sindaco che nella realtà si esibisce scamiciato e orgoglioso come un re del popolo. E dopo un po’ il sistema di aspettative sconfina, il suo arco si estende e si spezza, lasciando varchi e risucchi verso le regioni estreme dell’improbabile, dell’ignoto, a leggere Curzio Malaparte magarìe di una casualità capricciosa e imprevedibile, sospesa nel dubbio e scosceso confine fra l’inverosimiglianza e l’evidenza.

Nella vampa gialla dello scirocco che rinsecchisce i pochi gatti randagi che si vedono in giro e che rallenta l’ondeggiare instancabile della folla per strada, accadono infatti a Napoli microstorie difficili da credere eppure vere, che sembrano prolungare nella veglia l’ inganno allucinatorio di certi sogni.

Un esempio. Per trascorrere qualche giorno nella città di De Magistris all’indomani della sua trionfale riconferma e per misurare una distanza non mia dalla città, ho pensato appunto di rileggere La pelle di Curzio Malaparte. Le pagine sulle nane della scalinata al Pendino di Santa Barbara mi hanno particolarmente impressionato.

Come sempre in quel romanzo visionario, il dubbio sulla verità della narrazione cede alla meraviglia per la magnificenza dello stile, per il manierismo, il ricamo dell’artificio, della deformazione espressionistica, dell’iperbole dimostrativa.

Ma il dubbio sulle nane della scalinata del Pendino nel ’43, sulla loro realtà storica, mi è rimasto e ne ho chiesto ad Alfonso, napoletano d’adozione, che nella città arroventata mi ha fatto da tutore e guida. Dove fosse quella scalinata, però, non lo sapeva e mai aveva sentito parlare di quelle orribili nane gracidanti.

Con Alfonso l’appuntamento era a Largo banchi nuovi alle 19. E’ arrivato puntuale e mezz’ora dopo in via Toledo mi sono accorto di non avere più il cellulare. Quando siamo tornati a Largo banchi nuovi – solo per un’ astratta, meccanica pignoleria – era passata un’ora e lo scirocco aveva saturato la colonna d’aria davanti la settecentesca chiesa abbandonata. Sulla navata di sinistra il balcone di un appartamento al primo piano e l’ingresso del caffè al pianoterra inquadravano interni illuminati con discrezione.

Al centro del Largo un uomo anziano in canottiera e pantaloncini rimaneva seduto immobile su una sedia come un’ora prima, proprio come una statua. Contro ogni previsione le ricerche di Alfonso hanno avuto dopo un paio di minuti buon esito. Qualcuno ha raccontato che il cellulare l’aveva preso un tale che vive in un ‘basso’, lungo una scalinata a cento metri. Bisognava andare dritto e poi c’è sulla sinistra una scala che scende.

Al secondo tentativo si è dischiusa una porta, si è illuminato un interno, e un uomo minuto, in canottiera, ci ha accolti con gentile circospezione solo perché voleva essere sicuro che fossi proprio io li legittimo proprietario del cellulare.
L’uomo ha accolto con sorpresa e gratitudine una piccola ricompensa consegnata a una bambina, sua figlia, mentre la moglie sorrideva imbarazzata nella penombra dell’interno, povero e ordinato.

Perdere un cellulare a Napoli e averlo riconsegnato con gentilezze e sorrisi un’ora dopo in un ‘basso’ nel cuore del centro storico non è una sequenza di eventi facilmente prevedibile. Il sistema di aspettative sussulta come i motorini sul lastricato sconnesso di Spaccanapoli.

Due giorni dopo Marcella, lei napoletana da sempre, mi ha portato alla scalinata delle nane. Sa dov’è il pennino di Santa Barbara ma delle nane neppure lei ha mai sentito parlare. Però ne aveva viste, a pensarci bene quando era piccola Marcella ne aveva viste. A pensarci bene, dice.

Quando ci siamo ritrovati a Largo banchi nuovi non ho avuto più dubbi, eravamo oltre il confine del ragionevolmente prevedibile, delle aspettative legate ad un qualunque orizzonte previsionale, e proprio perciò sapevo che la nostra passeggiata sarebbe finita laggiù, per il realizzarsi di una improbabilità e uno scarto ulteriori, proprio in cima alla scalinata dove nell’estate del ’43 quella orrida popolazione di nane riusciva talvolta a trascinare in un basso un negro ubriaco, offrendo ai ‘bravi, onesti soldati americani’ lo spettacolo della nostra abiezione di vinti, della peste dell’anima che ci aveva ammorbati, tutti a Napoli e nell’intera Europa scriveva Malaparte.

E per offrire al nostro sangue infetto un innesto di bellezza, vigore fisico e sanità morale, aggiungeva più o meno lo scrittore.
L’uomo che che mi ha restituito il cellulare (‘che c’è di strano? dirà poi Carla, napoletana, non è che tutti sono ladri a Napoli, qui ci stanno pure le brave persone’), abita uno di quei bassi, a metà della scalinata al Pendino di Santa Barbara.

Nel torrido tumulto della città, fra l’echeggiare delle sirene, le motociclette che sfrecciano sui marciapiedi, il traffico indiano, la monnezza sparsa attorno ai contenitori e per strada, di sera echeggiano nella calura immobile dello scirocco i botti, i fuochi d’artificio. Una leggenda metropolitana, dice Alfonso, racconta che annunciano l’arrivo di partite di droga. E tu ci credi?, ho chiesto. Assolutamente, ha risposto. Ma non ho voluto che chiarisse se ci crede o no.