Only the Dead

Un documentario, girato a Baghdad dal 2003 al 2008,
racconta come l’illusione sia diventata strage

di Christian Elia

Alla fine restano solo i morti. Non è solo un titolo, Only the Dead, ma è anche quel che resta alla fine della visione del documentario di Michael Ware, del 2015.

Giornalista australiano, Ware nel 2003 è catapultato in Iraq, dove segue – poco più che 30enne – l’invasione delle truppe internazionali guidate dagli Stati Uniti. Scrive per il Time, è elettrizzato.

Passa la storia, ci salta a bordo, come tanti. Solo che, con il passare dei mesi, cambia lo scenario, cambia la missione e tutto quello che avevano raccontato governi e militari, arriva il sangue e il dolore. E cambia anche lui.

L’idea di fondo di Ware, che decide di restare a Baghdad per anni, è quella di non mollare la sua storia. E la sua storia ha un nome: Abu Musab al-Zarqawi. L’uomo che, dopo essersi radicalizzato in carcere, è il punto di riferimento di al-Qaeda in Iraq, ma che fino a quando non viene ucciso dalle truppe Usa inizia un processo di diversificazione dall’organizzazione di Osama bin Laden e di al-Zawahiri, che dopo molti anni porterà alla nascita dell’Isis.

Ware, con il suo amico fotografo russo Yuri Kozirev, è sorridente. Si riprende, un po’ spocchioso, con quell’atteggiamento che i reporter di guerra (quelli veri) hanno solo nei brutti film. Poi, pian piano, entra in contatto con il fallimento della missione, con il massacro di civili. E resta a raccontarlo.

Una scena è dolorosa nella sua immediatezza: un ragazzo, poco più che adolescente, sul luogo di un check-point. I militari hanno sparato, hanno massacrato il fratello al volante. Lui è salvo, ma urla in lacrime la sua rabbia, il suo dolore, la sua sete di vendetta. Questo è quello che è capitato a migliaia di iracheni che, in tanti, ci avevano creduto davvero alla liberazione dal regime di Saddam, alla fine della dittatura, alla democrazia.

Ma non è andata così, e Ware lo racconta in chiave diaristica. La sua ricerca ossessiva di al-Zarqawi lo porta tra i ribelli, cogliendone le motivazioni, che lo mettono in difficoltà, tra il dovere giornalistico di raccontare e la retorica patriottarda della ‘guerra al terrorismo’, che sembrava chiamarlo a una scelta di campo.

Ware continua, vede morire il suo riferimento iracheno della sede della Cnn, ne sente tutto il dolore. Ed embedded segue i militari, ragazzi sotto pressione, che odiano e sparano. E lasciano morire, sotto gli occhi della telecamera impietosa, un ragazzino che gli aveva sparato contro.

Solo che ti chiedi, alla fine, Chi è il ‘cattivo’? Ecco, al-Zarqawi è il cattivo perfetto. Solo che la guerra è andata troppo oltre, l’odio ha avvelenato i pozzi. Quando il cattivo muore, non c’è più nulla di quelle speranze che c’erano prima.

Ci sono solo armi, autobombe, vendette, interessi, strategie. E morti, tanti morti. Civili, ribelli, militari. E’ tempo di partire, di tornare a raccontare altre guerra. Ware parte, ma nel documentario ci sono i suoi anni in Iraq, la disillusione, la fine delle bugie. E restano i morti.