La lunga notte di Erdogan

Tentato e fallito un colpo di stato dei militari in Turchia
di Christian Elia

Dopo una lunga notte, al momento la situazione in Turchia sembra sotto il controllo del governo e delle forze di polizia. Il presidente Erdogan è al suo posto, la gran parte delle forze armate non ha seguito il tentativo di colpo di Stato, così come la popolazione civile.

Il resto, però, non è molto chiaro. Un’altra certezza è che Erdogan esce rafforzato da questa notte, al contrario di quello che potrebbe apparire, perché da oggi in poi tutta una serie di misure liberticide e di azioni militari contro la popolazione curda saranno lette con le lenti della restaurazione del potere democratico.

Che tale è, nel senso di democraticamente eletto, in libere elezioni. E questo, per quanto le scelte di Erdogan degli ultimi tre anni siano sempre più andate verso una deriva autoritaria, non va dimenticato.

I fatti. Per quello che è dato sapere, ieri, nella notte, le sedi diplomatiche turche nel mondo hanno ricevuto un cablo (sui canali riservati alle emergenze) che annunciava di tenersi pronti al cambio di regime nel Paese. Come era già accaduto negli anni Ottanta, i militari prendevano il potere, per fermare la ‘deriva islamista’ della Turchia.

Contestualmente, alcuni mezzi blindati delle forze armate scendevano per le strade, mentre un manipolo di soldati prendeva il controllo della televisione di stato e provava a prendere il Parlamento. Sembra di scrivere un articolo degli anni Settanta o Ottanta, ma siamo nel 2016.

Le notizie iniziano a rincorrersi, mentre le forze di polizia reagiscono all’unisono in linea con Erdogan e il governo: sono almeno 104 le vittime di una serie di scontri a fuoco nel paese, oltre 1500 i militari di ogni ordine, grado e arma arrestati. Una prima ridda di voci racconta di Erdogan in fuga, in aereo, nel tentativo di ottenere asilo politico in Europa.

Evidentemente pareri di chi conosce poco Erdogan, che per il suo approccio muscolare difficilmente avrebbe lasciato la Turchia ai golpisti senza combattere. E che poco conoscono la storia turca e il consenso di cui gode il presidente turco che, spaccato e polarizzato il paese, è riuscito a far sentire oltre la metà della popolazione ingaggiata in una lotta del bene contro il male.

Ad oggi pare che la regia del colpo di stato (al quale si è sottratta la Marina militare) sia stato orchestrato dal generale Hulushi Akar, capo di stato maggiore, rimosso nella notte e sostituito con Umit Dundar.

Erdogan (che invece si è alzato in volo dopo il tentativo – a suo dire – di colpire il luogo dove si trovava, a Marmaris, per poi tornare ad Ankara) ha già individuato i colpevoli: il predicatore Gulen, rifugiato da anni negli Usa, e un manipolo di ufficiali laicisti sfuggiti alle purghe del processo Ergenekon, l’operazione contro i militari ritenuti colpevoli (17 ergastoli nel 2013) di tessere trame eversive contro l’Akp, il partito di Erdogan.

Gulen, storico sodale di Erdogan, è ormai il nemico pubblico numero uno di Erdogan. La rottura, consumata negli anni ed esplosa con l’appoggio del predicatore all’insurrezione di Gezi Park nel 2013, ha lacerato un rapporto che per anni è stata una delle chiavi della rinascita politica degli islamisti del 2000, culminata con la prima vittoria elettorale di Erdogan nel 2003.

Troppo presto per provare ad analizzare nel dettaglio quello che è accaduto, ma di certo ci sono alcuni punti che sono fermi.

Da un lato, nonostante l’epurazione dei vertici dell’esercito avvenuta in questi anni, restano delle sacche di malcontento nelle forze armate, legate alla visione laicista del padre della patria Ataturk.

E non sono bastate, almeno sembra, le ultime decisioni di Erdogan che si muove negli ultimi anni su una linea politica estremamente aggressiva e nazionalista, in linea per certi versi con la visione dei generali. Basti pensare alla questione curda: era molto più facile immaginare una rottura tra Erdogan e i militari quando – nella prima fase del suo mandato da premier – Erdogan sembrava pronto a risolvere pacificamente il conflitto.

Oggi, che invece la brutale repressione militare dei curdi è una realtà drammatica e quotidiana, è strano che i militari spacchino l’equilibrio spingendosi addirittura a un tentato colpo di stato.

Altro elemento interessante è la normalizzazione dei rapporti tra Erdogan e Israele, dopo la strage della Mavi Marmara, quando l’esercito di Tel Aviv attaccò un convoglio diretto a Gaza, e con la Russia, con cui i venti di guerra erano all’ordine del giorno per la divisione rispetto alla guerra in Siria, con l’appoggio di Erdogan ai ribelli e quello di Mosca ad Assad.

I militari, che in Turchia hanno controllato per anni le leve dell’economia, muovendosi come un’immensa holding finanziaria, avendo il controllo del Paese dal golpe degli anni Ottanta fino alla prima vittoria di Erdogan, non avevano alcun interesse a tenere alta la tensione con Russia e Israele e la distensione dei rapporti dovrebbe essere un segnale accolto positivamente nelle caserme.

Una chiave di lettura manca. Perché adesso? Perché in questo modo, con tecniche che ormai possono funzionare solo in qualche sperduto paese e non certo nell’attuale Turchia? Anche perché hanno ottenuto l’effetto contrario.

Erdogan, infatti, oggi è più forte: nel cuore di una crisi economica che ha posto brutalmente fine alla crescita turca, nel bel mezzo di una guerra sanguinosa con i curdi, mentre nega libertà fondamentali all’opposizione e all’informazione, coinvolto nella guerra in Siria con un ruolo molto opaco, e con il paese obiettivo di ripetuti attentati terroristici.

Anche a livello internazionale, dal presidente Usa Obama all’Unione europea, Erdogan ha incassato la solidarietà delle istituzioni mondiali, promettendo tremenda vendetta e preparando un’altra stagione di repressione.

Dopo una lunga notte, il potere del ‘sultano’ è più forte. Era questo che volava ottenere questo colpo di stato? Come dopo i terribili attentanti prima delle elezioni, alla fine, il potere di Erdogan esce più saldo, con uno spazio di manovra politica maggiore, e con uno spazio di repressione ancora più legittimato. Se l’obiettivo, vero o presunto, dei militari era rovesciarlo, hanno sbagliato tutto.