Lettere al confine

Ventimiglia, la terra di transito in cui s’incrociano mille storie e mille vite

di Alessandra Governa

Ventimiglia la si riesce a raccontare solo standoci. O facendosela raccontare da chi, da mesi o da anni, è lì, al confine.
Ventimiglia è in realtà due, come spesso accade. Una parte nuova e una vecchia, arroccata e bellissima, a ridosso del confine. Quella arroccata e bellissima ha vicoli stretti, ombrosi, per lo più pedonali e abbelliti da sempre più rare vetrine in legno. “Le nuove ordinanze – raccontano – impongono che al cambio gestione, si cambino anche gli infissi.” Ai suoi piedi c’è il nuovo porto turistico in costruzione e di proprietà di Alberto di Monaco e l’interporto, di dubbia gestione per dirla eufemisticamente.
La Francia è in là, indicata genericamente da un cartello con la scritta, appunto, Francia.
Ho visto altre città di confine. Ne ho attraversati a piedi e in autobus scalcagnati. Ho cambiato soldi di cui non sapevo l’effettivo valore, ho pagato per uscire da un paese ed entrare in un altro. Ho perso visti scritti a mano su foglietti che sembravano carta straccia. Una volta, sul lago Titicaca, ho aspettato tutta una notte al freddo che aprissero gli uffici della dogana. Era la frontiera Bolivia/Perù: due sbarre di ferro, un ponte, una strada sterrata e due fusi orari. Le città di confine spesso sono brutte, caotiche, estreme. Nessuno ci vuole rimanere più di tanto, ma nessuno ne può fare a meno.
Se hai la mia età, un passaporto europeo e se non hai viaggiato via terra fuori dal vecchio continente, i confini non puoi ricordarteli. Puoi solo ricordarti l’ossessione per la sicurezza e quei luoghi sempre più non luoghi degli aeroporti. Confini dentro un territorio, ma totalmente avulsi da esso.

I confini addormentati e addomesticati all’interno dell’Europa hanno però perso tutto d’un colpo la loro patina di civiltà, hanno perso quel finto disinteresse a chi passa e chi no.
I confini ordinati nel cuore dell’Europa si sono svegliati e hanno scoperto di avere paura. Si sono armati, si sono corrazzati, si sono salvati. O almeno così vorrebbero credere e farci credere.

I confini di Ventimiglia, così porosi per merci e denaro, sembrano impermeabili per chi ha la pelle nera e un viaggio disperato attraverso il Mediterraneo. Sono impermeabili anche se non dovrebbero e non potrebbero.
Ventimiglia è punteggiata di nero. Fino a sabato prossimo, dicono – finché non sarà pronto il nuovo centro di transito gestito dalla Prefettura e fatto di container – i puntini neri saranno accampati di fronte all’interporto, oltre il fiume, nei locali sottostanti la parrocchia di Sant’Antonio delle Gianchette. Ormai il numero si è attestato intorno agli 800. Una moltitudine nera indistinguibile a occhi e orecchie inesperti. Uomini giovani, la maggior parte dei quali, eritrei e sudanesi. Una moltitudine in attesa, sdraiata a contendersi le poche zone d’ombra. Accanto, accatastati, zaini e coperte, resti di effetti personali da avere sempre a portata di vista. Attaccati ai muri fogli multilingue informativi. 
Il confine, la frontiera, sa di lontano e di vicino.
Da lontano – dall’Europa che tutti nominano ma che nessuno vede davvero – vengono le leggi che regolano la vita di questi 800 e di chissà quanti altri. Ottocento sono pochi per essere considerati un’invasione. Sono tanti per essere persone a cui sono negati i diritti più elementari quali pace, protezione, casa.

Da vicino vengono le prassi, anche italiane, che di quelle leggi europee si nutrono e dietro le quali si nascondono. Prassi spesso illegittime che parlano dai respingimenti differiti e di gruppo, di deportazioni con pullman a seconda del colore della pelle, di botte, di mancanza di informazioni comprensibili.

In un ping pong tra nord e sud del mondo, tra nord e sud d’Italia. Vengono da vicino la stanchezza di chi si sente abbandonato e circondato, in pericolo, e la frustrazione di chi da un anno prova a chiamare le persone, persone e non clandestini, immigrati, peso morto, irregolari, negri, terroristi, rubalavoro. E vengono da vicino le bottigliette d’acqua e i pasti distribuiti dalle signore del quartiere .
Vengono da vicino, infine, le parole del vescovo che apre le porte della parrocchia e quelle del sindaco che si dimette dal suo partito, ma che non sa che pesci pigliare. Così come vengono da vicino i fogli di via agli attivisti e il giro di passeur che lucra su un passaggio in Francia.
Ventimiglia non ha un confine, ne ha mille, come mille sono queste voci e queste storie.
Vi scriverò delle lettere al confine e del confine. Cercherò di tessere i fili di questi movimenti, che partono da lontano, come le loro ragioni. E che vogliono arrivare lontano.
Perché Ventimiglia è e rimarrà una terra di transito, non una terra promessa.