Como. Come a Ventimiglia, come al Brennero

Rossella ha dei capelli rossi lunghi e lisci, un paio di occhiali e un curioso tatuaggio di due calzini spaiati sull’avambraccio.

di Alessandra Governa

Ci siamo conosciute al corso per operatori legali in assistenza ai richiedenti asilo anche se lei, questo mestiere, lo faceva già per una cooperativa di Como. Per sette mesi, due volte al mese, ci siamo sedute in seconda fila, parte sinistra dell’aula. A metà dell’anno mi ha portato del burro di arachidi fatto in comunità in cambio degli appunti della lezione precedente.

Tutto questo per dire che non è una che si improvvisa.

Rossella, Michele, Stefania e Laura da alcuni mesi gestiscono la pagina facebook Wel-Com – Osservatorio migranti Como, pagina nata “per iniziativa di un gruppo di cittadini comaschi con l’obiettivo di mantenere un canale di informazione e monitoraggio sulla realtà dei richiedenti asilo accolti nella provincia di Como (circa 1500 persone al febbraio 2016). Uno spazio che speriamo possa aprirsi – grazie al contributo di altri cittadini – anche alla condivisione di buone prassi e iniziative legate alle realtà di accoglienza.”

E’ più o meno l’ottobre dell’anno scorso quando 50 – 60 pakistani si accampano in stazione a Como e nei giardini antistanti. Il fatto di essere arrivati via terra e non sbarcati, secondo le autorità preposte non dava loro diritto ad essere inseriti nel circuito dell’accoglienza dei richiedenti asilo.

La pagina facebook è stata e continua ad essere solo una delle tante attività organizzate per portare l’attenzione sul problema e per cercare di risolvere quella che a tutti gli effetti era un’emergenza.

“Un’emergenza nuova – racconta Rossella – la stazione di San Giovanni e il parco sono sempre stati luogo di ritrovo e pernotto dei senzatetto e degli emarginati della città, ma mai luogo di permanenza di cittadini stranieri. I pakistani prima e gli eritrei per la maggior parte ora, sono un fenomeno a cui le istituzioni per ora non sanno rispondere adeguatamente.”

Non sanno o non vogliono? Davanti alla presenza ormai costante da quasi due settimane di oltre 150 persone che vivono all’aperto nel parco, la linea della prefettura sembra essere quella – lungimirante – della chiusura. Se non diamo servizi, se facciamo capire che di qui non si passa, se non rendiamo loro la vita vivibile, prima o poi se ne andranno.

Servizi basici come l’apertura prolungata delle toilettes della stazione piuttosto che l’installazione di bagni chimici o di cestini per l’immondizia sono stati quindi negati.

Se ci mandate indietro, noi riproveremo. E’ il ritornello, stanco ma fermo delle persone accampate. Tante le donne, anche in gravidanza e i bambini.

Noi non vogliamo stare qui. Vogliamo andare in Svizzera e poi chissà, in Germania o in Svezia.

Cambia il contesto – qui il confine è quello di Chiasso, a meno di sei chilometri dalla stazione – cambia la destinazione di transito – la Svizzera e non la Francia o l’Austria, ma il sistema è sempre lo stesso.

Il nostro sistema è sempre lo stesso. Un sistema violento che non genera accoglienza e inclusione ma passaggi irregolari, accampamenti informali, sfinimento e in definitiva favorisce l’illegalità.

“Le persone che attendono hanno situazioni molto diverse tra loro. C’è chi è la prima volta che prova a varcare il confine, c’è chi è già stato respinto una, due, tre volte dalla gendarmerie svizzera anche se minorenne. C’è chi è quasi al termine del percorso per il riconoscimento dello status ma sa già che l’esito sarà negativo.”

Persone e situazioni diverse che hanno in comune l’obiettivo di andarsene.

La frontiera la si raggiunge in vari modi. Quasi tutti all’inizio provano il treno. Poi a piedi, lungo la strada che arriva dritta in dogana. Qualcuno ora sta esplorando le “vie alternative”.

“Non si capisce bene come si organizzino per passare la frontiera. Ci sono persone che, lì in piazza stanno sempre al telefono, ma dire che ci sia una rete o un sistema organizzato è prematuro.”

Da due settimane si ripetono le scene già viste a Ventimiglia. Cinquanta eritrei che cercano di passare la frontiera dalla porta principale, altri quaranta che vengono raccolti da un blitz congiunto italo – svizzero, messi su pullman diretti a Bologna e da Bologna caricati su un aereo per Taranto. Come fosse un monopoli ma senza i 20 euro se passi dal via.

“Le raccolte e le deportazioni ormai sono molto frequenti. L’unica cosa che ancora non avviene è che siano fatte con la violenza. Se qualcuno si rifiuta di salire sui pullman viene lasciato a terra.”

Rossella, Laura Michele e Stefania, si sono divisi i compiti a seconda delle competenze, chi giornalista, chi operatore legale, chi assistente sociale. Sono presenti in stazione ma anche sui tavoli di coordinamento e di trattativa.

“Quello che manca è il coordinamento. Qui c’è di tutto, dagli anarchici agli scout. La solidarietà è davvero tanta, sia quella in forma organizzata sia quella spontanea dei privati. La risposta della gente, dei pendolari in primis è finora calma e positiva. Certo casi finora isolati di violenza o di rabbia anche solo espressa verbalmente ci sono stati, ma per ora prevale la parte solidale.”

Anche dalla Svizzera arrivano. Giornalmente un’organizzazione elvetica arriva per sostenere la distribuzione dei pasti (suddivisi tra le mense dei poveri cittadine ormai al collasso e la distribuzione dei sacchetti ad opera della croce rossa direttamente in stazione) e anche una attivista ticinese, Lisa Bosia Mirra, sta dando voce e supporto alle organizzazioni italiane e ai migranti.

“Fondamentale il lavoro di informare chi transita da Como. Le situazioni che ci troviamo ad affrontare sono davvero le più variegate. Spesso anche chi riusciamo a far accogliere nelle strutture, penso soprattutto ai minori, scappa e torna in stazione, pensando sia l’unico luogo sicuro. Non tanto in termini personali, quanto in termini di unico luogo sicuro per partire.”

Como come Ventimiglia, come il Brennero. Luoghi di transito obbligatori. Luoghi di transito che diventa permanenza creati dalle miopi politiche europee sulla gestione dei flussi.

“La ricollocazione, relocation detta all’europea, è uno strumento inutile – dice Rossella – La prefettura ci dice di proporla agli eritrei e alle nazionalità per cui è stata pensata, ma non serve. Tu acconsentiresti di essere spostato alla cieca da un posto all’altro? Tu acconsentiresti di essere mandato in un luogo senza poterlo scegliere?”

Non ci sono soluzioni, almeno sul breve periodo. Non per i migranti che attendono e, mi permetto di aggiungere, nemmeno per il Prefetto. Il numero di chi prova a passare è destinato a salire. Il numero di chi, bloccato, soggiornerà in stazione, di conseguenza.

“Non sappiamo in realtà – continua Rossella – se il numero dei migranti sia aumentato o semplicemente ne sia aumentata la visibilità e la concentrazione.” Fino a qualche tempo fa infatti, tutti sapevano che la Svizzera facesse passare un centinaio di migranti alla settimana, mentre ora ha chiuso le porte.

“Forse Como è solo un imbuto dovuto a due fattori – ragioniamo insieme – la chiusura di Ventimiglia, Brennero e Slovenia e la maggiore rigidità della Svizzera.” Sarà un elemento da monitorare.

Non ci sono soluzioni, almeno sul breve periodo e non a livello locale. “Ci tocca organizzarci meglio altrimenti il rischio è di disperdere risorse umane e tempo, ma soprattutto davanti a un certo tipo di risposte ufficiali, il rischio se non siamo compatti è di perdere forza e credibilità”.

Come a Ventimiglia, come al Brennero. Come a Taranto, punto di partenza e di arrivo. A ciclo continuo. Perché il sistema sta girando a pieno regime.