Golpe in Turchia: i media sotto attacco

Il tentato colpo di stato e la reazione del governo mettono sotto fortissima pressione la stampa.
A rischio la libertà di espressione in un contesto già estremamente fragile

di Dimitri Bettoni, da Istanbul
tratto da Osservatorio Balcani e Caucaso*

Durante le ore del tentato colpo di stato avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 luglio, i militari hanno occupato la televisione pubblica TRT. La giornalista Tijen Karaş ha letto il comunicato che annunciava la presa del potere dell’esercito. Secondo una successiva testimonianza della Karaş, dopo che gli uffici sono stati sgomberati dalla polizia, i militari avrebbero preso in ostaggio lei ed i colleghi, obbligandola ad annunciare il comunicato con una pistola alla testa.

Poco dopo, i militari hanno tentato di fare irruzione nelle sedi della holding Doğan, un gruppo mediatico a cui fanno capo anche la CNN turca ed il quotidiano Hürriyet, uno dei maggiori del paese.

Ha invece perso la vita Mustafa Cambaz, foto-giornalista del quotidiano filogovernativo Yeni Şafak.

Secondo quanto riporta il suo giornale, Cambaz è stato ucciso da un proiettile sparato dai militari che hanno aperto il fuoco sulla folla nel quartiere di Çengelköy ad Istanbul.

Il fotoreporter di Hürriyet, Selçuk Şamiloğlu, è stato invece aggredito e picchiato da un gruppo di circa 20 persone mentre si trovava sul ponte sul Bosforo ad Istanbul, dove si era recato per scattare alcune foto. Sempre secondo la testimonianza del giornalista, i manifestanti anti-golpe hanno minacciato di gettarlo giù dal ponte. Şamiloğlu è stato poi prelevato dalla polizia e portato in ospedale per le medicazioni.

 

Il contro-golpe

Ma i media non potevano uscire indenni nemmeno dalla determinata reazione del governo, nonostante fin da subito avessero dato voce unanime e contraria al tentativo di golpe.

L’esecutivo dell’AKP ha bloccato l’accesso a oltre 20 siti di informazione online, che oggi risultano irraggiungibili a meno di usare sistemi per aggirare la censura statale.

Merdan Yanardağ, proprietario del sito oscurato ABCGazete, ha dichiarato: “Come possiamo io e il mio sito rappresentare un pericolo? Il nostro lavoro ha fatto riferimento al rischio di un possibile secondo colpo di stato, di stampo islamista, dopo il fallimento del primo. Abbiamo sollecitato i lettori a sostenere la democrazia e non solamente l’AKP”.

Bloccato anche Haberdar, sito per cui lavora Arzu Yildiz, giornalista contro la quale è stato spiccato un mandato di custodia. La Yildiz non è collegata a fatti relativi al golpe, ma ha ricevuto una condanna di 1 anno e 8 mesi, oltre ad essere stata privata della potestà sui figli, per i suoi articoli sul traffico di armi verso la Siria.

Sono invece almeno 25 le emittenti radio e televisive raggiunte da un provvedimento che annulla la licenza di trasmissione.

L’accusa, anche in questo caso, è di “avere dato sostegno o avere collegamenti con l’organizzazione di Fetullah Gülen”. A 34 giornalisti è stata invece revocata la tessera stampa.

Le conseguenze del contro-golpe che si fanno sentire anche all’estero, in un paese molto vicino alla Turchia come l’Azerbaijan, dove il canale ANS TV ha, su pressione di Ankara, cancellato la messa in onda di un’intervista al leader della Cemaat, Fetullah Gülen, che Erdoğan considera l’artefice del tentato golpe, e ordinato la sospensione delle trasmissioni per un mese. La ragione del provvedimento sarebbe “evitare provocazioni mirate a danneggiare le relazioni strategiche tra Turchia e Azerbaijan e prevenire ogni aperta promozione del terrorismo”.

La repressione prosegue anche su Twitter.

Alcuni account legati all’AKP pubblicano da diversi giorni nomi di media, giornalisti, dipendenti pubblici, politici ed altre importanti personalità che dovrebbero essere perseguiti dalle autorità giudiziarie per i loro collegamenti con la Cemaat.

Destano sempre più preoccupazione anche gli episodi di aggressione da parte di gruppi di militanti vicini all’area governativa, come accaduto al quotidiano Gazetem İstanbul, i cui uffici ad Istanbul sono stati razziati e distrutti da un gruppo di giovani che, secondo le dichiarazioni del presidente dell’Associazione dei Reporter di Istanbul Mehmet Mert, si sarebbero identificati alle guardie della sicurezza come membri della sezione giovanile dell’AKP. Sull’episodio la polizia avrebbe aperto un fascicolo.

In generale, ogni tipo di opposizione, mediatica e non solo, è di fatto silenziata dalla spada di Damocle che pende su ogni voce di dissenso: l’accusa di essere un terrorista al soldo di Gülen.

 

Azzeramento dell’apparato pubblico

Con il colpo di stato ormai fallito, il governo ha intrapreso azioni per riportare il paese sotto il suo controllo. I primi provvedimenti hanno ovviamente riguardato le forze armate, con oltre seimila fermi al momento in cui scriviamo, ma anche i servizi segreti (MIT) e la polizia, che pure hanno reagito combattendo per il governo nelle ore più incerte, non sono esenti da rimozioni. Cento membri del MIT sono stati sospesi dal servizio.

L’azione di purga non si limita tuttavia soltanto ai militari, ma sta coinvolgendo tutto l’apparato statale.

L’accusa di fondo che accomuna tutti i provvedimenti adottati dalle autorità turche è avere “dato sostegno o avere collegamenti con l’organizzazione Cemaat di Fetullah Gülen”, ritenuto la mente dietro il golpe, oppure “aver fornito supporto al tentato colpo di stato”.

Il sistema giudiziario ha visto sospesi dal servizio 2754 tra giudici e procuratori, 140 membri della Corte suprema d’appello, 48 esponenti del Consiglio di Stato mentre sono stati arrestati due membri della Corte Costituzionale.

Il ministero per gli Affari Religiosi, che ha mobilitato le moschee nella fatidica notte del tentato golpe unendosi all’appello di Erdoğan rivolto ai cittadini – invitati a scendere in strada – ha visto 492 suoi membri venire destituiti. La stessa istituzione ha annunciato nel frattempo di rifiutare il servizio funebre ai deceduti coinvolti nel tentativo di golpe.

Negli uffici del Primo Ministro sono invece 257 i dipendenti sospesi dal servizio. 393 quelli sospesi dal ministero per la Famiglia e le Politiche sociali.

I rettori delle università sono stati convocati dal portavoce del Consiglio per l’Istruzione Superiore, il quale ha annunciato che “si discuteranno i provvedimenti che adotteremo per ripulire la comunità accademica da questo gruppo” (i gülenisti). 15.200 provvedimenti di sospensione sono già stati diramati ai dipendenti del ministero dell’Istruzione e la tv pubblica TRT ha annunciato che le autorità hanno formalmente chiesto le dimissioni dei 1557 presidi delle facoltà universitarie turche. Il Consiglio ha inoltre sospeso l’autorizzazione all’insegnamento a 21mila insegnanti delle scuole private.

Quello a cui stiamo assistendo sembra essere molto più che un piano di epurazione delle istituzioni dalla presenza gülenista. Appare piuttosto come l’azzeramento della macchina statale con l’obiettivo di avere l’assoluta certezza che ogni singolo meccanismo pubblico sia di provata fedeltà al governo.

Il tempo dirà se queste mosse spianeranno anche la strada ai cambiamenti che il presidente ha in mente per il paese, una su tutte l’agognata riforma presidenziale, da sempre il vero cuore del progetto politico di Erdoğan: quella sua Yeni Türkiye (Nuova Turchia) contrapposta alla repubblica parlamentare di Mustafa Kemal Atatürk.

 

*Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto

 

L’immagine di Erdogan in apertura è una foto di thierry ehrmann tratta da Flickr in CC intitolata “RecepTwit Erdogan”