Attentati e ossesso mediatico. Un dibattito necessario

Gli attentati delle ultime settimane, le maratone tv, sui media on-line, sui social. Cazzotti ripetuti allo stomaco, vocabolario urlato. Non serve, anzi è dannoso. E amplifica. Perché è necessario aprire un dibattito.

di Angelo Miotto
@angelomiotto

 

La prima cosa da raccontare, a chi non è cronista, è cosa succede quando avviene un fatto inaspettato e come si attivano le risorse informative per un singolo giornalista che si trova sul posto, e come si cerca dalla redazione.

Madrid 11 marzo 2004. Bombe alla stazione di Atocha e non solo, morti, feriti, caos, sirene che ululano, radio che scandiscono la breaking news e che aggiornano.
Cosa si dà in pasto ai lettori? Un misto di notizie che si raccolgono da testimonianze oculari, istituzionali, pubbliche, informazioni di servizio. Ma c’è sempre un momento, quando ancora fumano le carcasse accartocciate o il sangue è appena stato sparso sull’asfalto in cui in un medium si affaccia la più difficile delle tentazioni. Bomba che esplode, dare immediata risposta alla domanda: chi è stato? E quindi, perché? Dare le notizie così come arrivano, verificarle, aspettare mentre tutti gli altri escono e parlano e scrivono?

Le valutazioni di chi vive di un mestiere, una professione, in cui l’utilità e ruolo sociale sono molto importanti perché condizionanti delle percezioni e giudizi di massa è il punto nevralgico di ogni grande Breaking news.

Da diversi anni, ma negli ultimi mesi con un fattore di velocizzazione esponenziale, il fatto non si è ancora compiutamente consumato eppure la speculazione e il commento iniziano a distanza non ravvicinata, ma ravvicinatissima. Il tempo reale.

Le notizie, i fatti, si accavallano e il commento, la speculazione, svolge il proprio nastro in parallelo, modificando frasi principali e subordinate e a volte rivoltandone proprio il senso, perché i nuovi elementi sconfessano cambiano, indicano altro.
Ho scelto il caso di Madrid non a caso, perché a pochi giorni dalle elezioni generali spagnole quell’attentato fu manipolato grossolanamente dalla politica, dal Partido popular di José Maria Aznar, che perse le elezioni aprendo il passo al governo di Rodriguez Zapatero.
La destra spagnola riuscì a convincere, mentendo, i direttori di tutti i grandi giornali, che ancora senza verifiche in mano e con il fumo ancora in cielo scrissero Massacro di Eta, quando così avrebbero scoperto facendo il loro mestiere che non era. Manipolati loro, quindi manipolati i lettori.

Però il dibattito che qui si propone, e che dovrebbe riguardare soprattutto i comunicatori, è ancora più difficile, perché attiene a situazioni in cui non ci sono solo motivazioni politico-elettorali che vanno a intossicare la cronaca dei fatti. Stiamo parlando degli attentati delle ultime settimane e di come gran parte del mondo dell’informazione, che tiene al suo interno chi lo fa di professione lo fa e chi sparge notizie sui social network, reagisce e informa.

Un fatto accade e subito si accende il meccanismo della diretta, che ovviamente ha bisogno, soprattutto su alcuni media, di un aggiornamento continuo, per non perdere ascolto e attenzione da parte del pubblico. Dal momento che ognuno di noi ha nel suo SmartPhone un universo di notizie in tempo reale quello che si potrebbe chiedere a chi di professione esercita il giornalismo è verifica delle fonti, capacità di sintesi, capacità di non divulgare elementi che siano non provati, quindi distorsivi della realtà e della descrizione di fatti che comporteranno analisi e giudizi, opinione.

Un fatto accade e chi è presente, addirittura chi lo compie, può scattare foto, girare video, riportare fatti senza nessun filtro. Postati sulle bacheche prenderanno la propria strada attraverso il meccanismo della condivisione. È un fiume inarrestabile che scorre impetuoso a ritmi serratissimi senza verifiche, senza controllo in rimbalzi che è impossibile controllare.

Questa strada, per una testata giornalistica però, obbliga a un lavoro ancora più meticoloso, o perlomeno dovrebbe, chi per professione è chiamato a fare sintesi, cercare, raccogliere, vagliare, contrastare, quindi trasmettere.

Quest’ultimo passaggio è saltato, anzi troppo spesso – e guardiamo soprattutto all’Italia – il giornalismo insegue l’onda del social, abbeverandosi a materiali di ignota provenienza, a rumors, a informazioni che hanno bisogno di un tempo fisiologico per il necessario lavoro di verifica e conferma.

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L’utente, che è anche antenna di trasmissione, diventa un soggetto che subisce una massa di input diversi, contrari, saturi di condizionali o di incertezze e nello stesso tempo si butta in un esercizio di condivisione che non fa che moltiplicare una miriade di frammenti impossibili da unire nella ricostruzione di una forma qualsiasi.

Da una parte ci si emoziona, dall’altra si dispensa adrenalina che va a colpire altri attori della rete sociale, in un gioco di tempo reale che pare mettere noi stessi dentro la scena dell’attentato, di farci correre con chi corre, di voler dire dove scappare perché c’è un hastag che ti aiuta, nel voler dare indicazioni sulla matrice, sulle armi, nel voler già capire dati balistici, falle nella sicurezza, dietrologie da complotto che crescono nel giro di pochi, pochi minuti.

Nel frattempo le testate mainstream sul web raccolgono dalla rete e titolano in caratteri sempre più grossi. Urlano, graficamente, quindi ci mettono in una situazione di allerta, spargono foto in tempo reale di morti ammazzati, di killer con la pistola in mano, trasmettono in diretta scene con una o due visuali differenti quasi a dirci che stiamo guardando da quella finestra la realtà che accade. In realtà non vediamo nulla, non sappiamo nulla.

La gente scappa, noi la teniamo prigioniera secondo per secondo di quella fuga fino a riempirci gli occhi, per sentire, empatizzare, commentare e stare male. Genuinamente male. Disagio, lacrime, dolore, rabbia. E giù a vomitare sui social.

E i giornali proseguono e le tv con maratone, dirette che spesso devono ripetere notizie che paiono invecchiare nel giro di secondi, se non hai qualche cosa di nuovo da dare, da buttare all’audience. E quindi apri subito al commento, perché puoi aspettare nuovi particolari e intanto intervallare con gallerie di più o meno esperti che con una manciata di indizi sono in grado di elaborare teorie finte, fittizie, inutili, disturbanti, nocive.

Chi dovrebbe razionalizzare partecipa al fiume in piena dei social. Chi dovrebbe valutare e prendersi il tempo per contrastare, spara in pagina, tanto poi si cambia. Chi dovrebbe aiutare in una lettura informata, ripete format e stili che non informano e, piuttosto, creano un senso di attesa crescente che sappiamo tutti non potrà essere appagata se non aspettando.

Sono meccanismi consumati. Il giornalismo della paura, del terrore e del sangue, delle iperboli, dello splatter in nome del click, che è profitto.

Cosa sta cambiando però ai nostri giorni: le azioni dei lupi solitari, di chi compie sostanzialmente un’azione kamikaze, vive anche del clamore che lui sa perfettamente seguirà il suo gesto. La sua morte, perché tranne rari casi muoiono tutti, sarà un evento, sarà una minaccia, sarà una chiamata.

Un evento spettacolare.

Una minaccia che genera panico immediato e diffidenza nel breve periodo, sospetto e ripulsa nl medio.

Una chiamata per i con-simili, un esempio, una dimostrazione di notorietà, quindi di diffusione, attenzione e semina d’odio.

Cosa possiamo fare, allora, se non tornare alla vocazione principale di quella che è la nostra professione? Professionalità e però anche umanità.

Qualcuno dirà che basta la professionalità. Ma senza l’umanità il diritto e dovere di cronaca è arma spietata, perché in fatti così sanguinosi e su larga scala, ma anche se fosse una sola vittima, si pone con forza quell’hastag che le autorità francesi hanno subito diramato dopo Nizza: #respect.

Una limitazione del ‘tutto si può pubblicare’? Qualcuno la vedrà così, ma il dibattito da affrontare è come eliminare evento, minaccia e chiamata nel nome di una corretta informazione che deve tornare a prendersi i tempi necessari per arrivare a costruire prime ipotesi del chi e perché, che abbiano basi ben più solide di pochi cenni pescati in rete o sommariamente al telefono con testimoni ancora sotto choc. In sostanza è scegliere cosa e come con attenzione smisurata.

In fondo si tratta di scegliere se il nostro sistema informativo debba avere anche una funzione nel propagare o meno comportamenti, sensazioni o messaggi controproducenti e/o addirittura dannosi. O se il ruolo del nostro giornalismo sia quello di terze parti imparziali che raccontano e si disinteressano delle ricadute di come le cose vengano raccontate. Il tono, l’urlo, l’aggettivazione smaniosa, i ritmi che inducono a pensare all’emergenza, le domande di rito, quelle stupide, quelle che il giornalista non sa cosa chiedere, perché che cosa vuoi chiedere a due minuti da una strage a un sopravvissuto o peggio a chi ha perso una persona: come si sente?

C’è un grande lavoro da affrontare, anche da parte dei lettori e utenti dei social.

Ma se chi, per lavoro, è chiamato a stabilire delle procedure cede, non ci sarà corretta informazione, non ci sarà capacità di assumere informazioni, non saremo capaci di avere consapevolezza e giudizi, se non quelli viziati dall’irresistibile impulso consumista che oggi muove gran parte del giornalismo mainstrem nostrano.
Che ha a che vedere con questa società dei consumi e del vecchio capitalismo, sempre lui alla fine, che detta i tempi e i modi anche del sentire.

Dal 27 luglio Le Monde, uno dei grandi attori del mainstream francese, ha deciso che non pubblicherà più rivendicazioni e quindi propaganda di daesh, né le foto degli assassini per evitare la glrificazione postuma, che porta all’emulazione. Lo spiega il direttore di Le Monde in un editoriale da leggere parola per parola.

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Un caso che speriamo apra questo necessario dibattito anche ai piani ‘alti’ dell’informazione, dove cioè si concentrano milioni di occhi che leggono, che guardano, spesso criticando, ma incapaci di cambiare abitudini di lettura. Questo sarebbe un risultato eccezionale, se cioè il dibattito che proponiamo dalle colonne di Q Code Mag, come ha già fatto Alberto Puliafito qui e Valigia Blu e altre realtà, dopo la decisione di un gigante come Le Monde potesse arrivare anche sull’italico e sventurato suolo.

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Nella foto di Luigi Ambrosio i titoli di alcuni quotidiani italiani e sotto giornali francesi e un quotidiano spagnolo. Trovate le differenze

 

 

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Dopo l’uscita di Le Monde arriva anche Mario Calabresi di Repubblica con il suo editoriale dove ci racconta di discussioni vivaci in redazione e quindi della decisione di non pubblicare alcuni video o foto più o meno sulla falsa riga di quanto afferma Le Monde.
Benvengano le vivaci discussioni a Repubblica e negli altri grandi giornali. E però il direttore di Repubblica parla di contenuti multimediali, anche se in questo dibattito necessario l’accento che vogliamo mettere non è solo sulle immagini, o le foto, ma sul ritmo delle parole, della breaking urlata e gettata in pasto, l’enfasi, i titoli urlati, i caratteri cubitali che gridano, tutto ciò che pompa adrenalina e curiosità, che fa crescere una risposta emotiva nel lettore.

 

Ps.

Che ne dite grandi giornali italiani, riusciamo a togliere i pre-roll, i mini spot pubblicitari che precedono i video quando questi abbiano contenuti sensibili come attentati, morti, fatti di umanità sconvolgente?
Prima dei video di queste ultime settimane son passate pubblicità smart, aranciate, profumi e altri generi di consumo vario, con i jingle svolazzanti. Non si chiede una marcia funebre, ma almeno di non andare a guadgnare su quei video. Ci sono sempre i gattini per il resto delle vostre colonne destre.
Eh lo so che con tanti click ci si guadagna… (non chiamatelo mercato suvvia, è il vecchio bieco capitalismo).