Informazione e insicurezza, un dibattito necessario

I media ai tempi dell’insicurezza: Q Code Mag ha individuato uno spazio di dibattito necessario per chi lavora nei media e nei social media e network, perché l’informazione e la diffusione delle notizie sono uno dei pilastri di una strategia del terrore e della tensione. Ne abbiamo ragionato qui nei giorni scorsi.

Oggi abbiamo rivolto alcune domande a Claudia Vago, social media strategist.

di Angelo Miotto
@angelomiotto

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Come valuti la copertura mediatica LIVE degli attentati delle ultime settimane?
Mi pare che, particolarmente in Italia, ma probabilmente non solo, prevalga un elemento emozionale. In due sensi: da un lato, i giornalisti vogliono farci emozionare (e quindi via con le foto dei bambini coi peluche sull’asfalto) come se quello fosse il loro compito e non quello di guidarci nella comprensione di ciò che accade (e quasi mai quando siamo emozionati siamo sufficientemente lucidi per capire), dall’altro si emozionano loro e diventano incapaci di ragionamento. Le prime pagine dei giornali (tutti) dei giorni successivi alle ultime stragi questo dicono: a parlare è la pancia, non la testa. E l’uso dei social non è migliore, ovviamente, anche perché fatto sull’onda dell’emergenza e con scarse competenze su come si affronta l’emergenza online, la verifica delle notizie e delle fonti e con scarsa sensibilità che dovrebbe portare alla prudenza, a usare i condizionali, a diffondere solo notizie verificate, a non far circolare speculazioni… Ma, appunto, sembrano tutti (tutti) preda della pancia.

I social network hanno strumenti che cercano di presentartsi come utili, come il safety check di FB. Che però è cosa ben diversa dagli hastag #porteaperte che abbiamo ritrovato a Nizza come a Monaco. Che ne pensi?
Credo siano strumenti profondamente diversi. Safety Check è calato dall’alto, risponde all’esigenza di Facebook di farsi onnipresente, strumento utile in ogni occasione, imprescindibile, il luogo da cui non uscire mai perché al suo interno si trova tutto. Gli hashtag porteaperte sono iniziative spontanee, dal basso, rispondono a un’esigenza vera e diffusa (quando effettivamente sono usati e si diffondono) e sono quindi segno della vera essenza dei social network: persone in rete tra loro che producono contenuto e interagiscono col contenuto altrui.

 

Il diritto e dovere di cronaca viene spesso indicato come mandante di una serie di operazioni che vanno a colpire, alla fine, la pancia dei lettori.
Non sono giornalista, non ho fatto scuola di giornalismo, ma immagino, spero, venga insegnato che “dovere di cronaca” significa raccontare fatti accertati, non qualsiasi voce circoli come fosse cosa vera. Immagino e spero sia così, anche se mi pare che il più delle volte questo approccio laico e ragionevole lasci posto alla pancia, appunto, che di certo solletica di più la pancia del pubblico e quindi porta click. Nel breve termine, almeno.

 

Stiamo assistendo a rapresentazioni di singole missioni di morte che sicuramente nell’eventizzazione hanno un punto di forza/consolazione/innesco per chi compie tali atti.
Purtroppo credo che viviamo in un mondo in cui il broadcast la fa ancora da padrone. La televisione su tutti, broadcast per eccellenza. Quindi credo che qualsiasi anticorpo si possa sviluppare “dal basso” finisca per essere sconfitto dalle tendenze dominanti imposte dal broadcast: quindi approccio emozionale, corsa a dare per primi qualsiasi notizia senza verifica, totale noncuranza rispetto alle conseguenze di ciò che si racconta… Alcuni media francesi hanno deciso di non diffondere più immagini degli attentatori, per disinnescare una delle ragioni che muovono queste persone a compiere attentati, la glorificazione postuma. Non so se basterà, soprattutto se non si tratta di una decisione largamente condivisa.

 

Quale social racconta meglio i momenti in cui tutti cercano bulimicamente di essere in diretta con i fatti di sangue? Quali filtri o tecniche di verifica possiamo usare come utenti?
Nonostante Twitter sia moribondo, nonostante la timeline non più ordinata cronologicamente che rende difficile la consultazione, credo che per via del modo in cui possono essere usati gli hashtag (per creare flussi di contenuto omogeneo) a differenza degli altri social e per via della brevità dei messaggi che possono essere postati Twitter resti lo strumento migliore. A cui aggiungere i video live, da Periscope ai live di Facebook. I video live hanno il vantaggio di essere difficilmente “truccabili”: o uno è sul posto o non c’è. Su Twitter, invece, occorre fare molta attenzione perché capita che a twittare siano persone che stanno all’altro capo del mondo, magari riprendendo foto trovate a loro volta in un tweet o altrove online e quindi è bene dotarsi di strumenti come http://verificationhandbook.com/ e pazienza, senza la fretta di voler essere i primi.

 

Esiste nella tua esperienza una possibilità di arrivare a regole condivise sul come reagire nel non diffondere panico, senza contare sull’appoggio del mainstream che invoca, come detto, diritto di cronaca nel nome di una una cronaca troppo spesso senza regole?
Come dicevo, la vedo molto dura. Il problema è che il mainstream è ancora lo strumento dal quale le persone si informano. Deve cambiare da lì, deve nascere un movimento forte abbastanza da imporre un cambio di passo. Sul come fare, però, non so :)