Il tempo di Niccolò

Il presente, la paura, l’educazione, la musica. La nostra intervista a Niccolò Fabi prima del suo concerto al Parco Tittoni di Desio

di Antonio Marafioti
foto di Laura Cerzosimo

Più che a una somma di piccole cose ascoltare un concerto di Niccolò Fabi fa pensare a una somma di piccole storie. Tante piccole storie, accomunate per qualche ora dalle canzoni del musicista romano in live al Parco Tittoni di Desio. I cori svelano la perfetta empatia fra il cantante e il pubblico. Ma c’è anche un silenzio che è vivo quanto il rumore. È una quiete simile a note mute che si ascoltano senza che nessuno le suoni veramente. Lo spartito condiviso in cui artista e pubblico incrociano emozioni e vissuto.
E Fabi, che di parole e note è vergatore sapiente, questo lo sa benissimo, tanto da eseguire ogni brano come se fosse il più importante della serata. La generosità è quella comune a pochissimi altri artisti, gli encore sono tre, forse quattro. C’è una canzone adatta alla stagione: Vento d’Estate, composta dall’amico Max Gazzè, ed incisa insieme nel 1998.
Sono passate diciotto estati da quando Niccolò Fabi cantava il verso “Ho capito come cambia il vento”. Era il vento del tempo che soffia attraverso la vita. Era l’ennesima lenta mutazione del mondo. La fotografia di quel momento è istantanea per tutti i nati prima della metà degli anni Ottanta: due ragazzi su un tandem a spasso fra città deserte e campi di girasoli. Le sensazioni sono più complesse, seppur legate a un unico rassicurante concetto, quello di sostenibilità. Oggi, a differenza di diciotto estati fa, sembra esser venuta meno la capacità di tenere il passo con la realtà. La velocità dell’uomo, delle sue ambizioni, delle sue azioni, dell’informazione sulle sue azioni, rendono impensabile risalire a bordo di quel tandem e godersi l’aria della strada. Incontriamo Niccolò Fabi un pomeriggio d’estate. L’organizzazione ci comunica che prima di riceverci stava riposando su un’amaca appesa all’ombra di due grandi alberi. Non avrebbero potuto presentarlo meglio.

Partiamo dai versi di un tuo brano. “La storia è un equilibrio tra le fonti/il disegno che compare unendo i punti”. Che cosa viene fuori ultimamente se provi a unire quei punti?

«Un disegno non particolarmente rassicurante. Mi sembra abbastanza evidente che non ci sia una consapevolezza globale di quel famoso equilibrio. C’è una smodata, cieca, modalità di arrivare a perseguire un interesse tendenzialmente economico che sovrintende un po’ a tutte le nostre vite e che però non si cura dell’innalzamento della qualità della vita globale, ma solo di quella particolare di troppe poche persone. Quindi è un equilibrio che non sta in piedi, è evidente. Ci sono mille episodi quotidiani che testimoniano che siamo in presenza di una sorta di terremoto».

Ascoltando la tua musica si è portati a meditare sulla parte buona dell’uomo, quella capace di esprimere i sentimenti migliori. Che cosa senti quando, invece, sei costretto a confrontarti con l’onda di odio e rabbia che ultimamente colpisce così indiscriminatamente.

«L’espressione artistica, in realtà, dipende non solo dai sentimenti provati, ma anche da quelli che si ha la sensazione di poter comunicare artisticamente in maniera migliore. Per caratteristiche artistiche, per faccia, per tonalità della voce, per storia, città e quartiere di nascita. Sono molte le motivazioni che fanno sì che tu sia più credibile se racconti un certo tipo di approccio nei confronti delle cose rispetto a un altro. Questo non esclude che la persona possa avere consapevolezza del lato oscuro di tutto ciò. È vero che ho una solarità di fondo, di pelle, direi quasi fisica; in realtà la mia è una musica completamente malinconica, che però in qualche modo viene indorata, anche mio malgrado, da una luce che emano che è comunque più rischiarante, ma che non è semplicemente collegata alla filosofia del bello e del buono, del vogliamoci tutti bene e tutto va bene comunque».

Però ammetterai che nei tuoi pezzi c’è una dose di speranza che nella vita reale sta venendo meno.

«In parte è vero. Io parlo più spesso dell’uomo che della massa, quindi dell’individuo singolo, cercando in lui tutti quei meccanismi che poi moltiplicati per mille, per duemila, per milioni, creano l’aggressività, il desiderio di guerra, la rivalsa la vendetta. Inquadrando il microscopico probabilmente non si ha la sensazione che io stia descrivendo l’ondata che ci travolgerà, perché racconto una molecola d’acqua che in prospettiva potrebbe essere uno tzunami. Però io non ti racconto dello tzunami, ti racconto della molecola d’acqua. Per questo che non hai la percezione che sia un quadro apocalittico».

Uno degli attentati più cruenti è stato quello al Bataclan di Parigi. Ti sei mai immedesimato, da artista, nei colleghi degli Eagles of Death Metal che in quel momento erano sul palco?

«Ho provato a pensarci. Il Bataclan lo avevo fotografato sei mesi prima di quei fatti. Ci ero andato da fan, lì sono stati registrati bootleg storici tra i quali due ai quali sono molto legato: quello di Jeff Buckley e, ancora prima, quello dei Supertramp, Live at Bataclan, un luogo che nella memoria di un appassionato di musica è fondamentale.
Però non l’ho sentito più oltraggioso di tutti gli altri attentati. Non credo che se un attentato si consumi in una stazione mi riguardi di meno per il solo fatto che sono un musicista. È ovvio che sia potente l’immagine di un luogo di evasione trasformato in un luogo di morte, però non ho avuto quel timore proprio dell’artista che altri musicisti hanno dichiarato di avere. Che siamo sotto scacco lo sapevo pure prima. Quindi non ti posso dire che sono stato sconvolto in quanto musicista. Il mio essere musicista è sempre e comunque un passo indietro rispetto al mio essere uomo. E la paura dell’uomo c’era già stata e c’è. Ma nessuna immedesimazione nel gruppo. Non ho mai pensato “se fosse accaduto a me”, più di quanto non avessi fatto già in altre situazioni simili. Ormai la minaccia è potenzialmente ovunque».

E invece da padre come ne parli a tuo figlio Kim?

«Da padre è più complicato. È comunque un osservatorio che mi interessa di più. Nel mio caso, tecnicamente, è ancora presto, perché Kim ha un’età in cui non è ancora consapevole di queste cose e non ha ancora gli strumenti adatti perche gli si possa raccontare una cosa del genere. Però come tutti i bambini si confronta subito con il possesso, l’affronto, la vendetta, la violenza. E questa è un’esperienza che come essere umano è potentissima perché non è affatto semplice scegliere che cosa indicargli. Al di là di ciò che si sceglie, lui sente quella luce di cui parlavamo prima. Lui sa che io sono una persona buona e se ne approfitta evidentemente anche su quello (ride). Per buono intendo colui che non cerca l’ostilità con l’altro, ma che si affida alla comprensione, anche per desiderio di conoscenza. Non ho un’istintiva aggressività nei confronti degli altri, questo lui lo sente e dovrà bilanciarlo con l’aggressività che, invece, sente con i suoi compagni di scuola. Credo che quello che si fa abbia sempre un impatto comunicativo più forte di quello che si dice. Adesso è la mia calma che lo tranquillizza, non il fatto che gli dica “devi stare calmo”».

In questi giorni sul nostro giornale è aperto un dibattito sul valore dell’informazione riguardo ai tempi e ai modi di dar notizia dei fatti cruenti. Da lettore, da uomo di parole, che opinione hai del modo di informare nel nostro Paese?

«Non sono in grado di giudicarlo confrontandolo con le altre modalità di scrittura. Ho la sensazione che ci sia una generale trasformazione del linguaggio giornalistico inevitabilmente condizionata da internet e dai tempi che si sono sovrapposti a quelli della lettura. E questo evidentemente è un impoverimento del contenuto a fronte di un’ipotetica capacità e possibilità di informare tutti velocemente di quello che succede. Però è ovvio che la capacità critica delle persone sia paurosamente diminuita. Sentiamo e leggiamo pareri, prese di posizione su argomenti in virtù di un trafiletto o di un titolo messo spesso come esca. Sappiamo quali sono i meccanismi di mercato per cui anche la notizia, o il click, è un fattore di mercato e quindi anche quella è soggetta a certe modalità. Come un banchetto della frutta dove ognuno pensa di essere più capace di attirare il povero acquirente. Io sento che per l’evoluzione delle persone ci vogliano dei bravi maestri. Gli editorialisti bravi, quelli che ti raccontavano schiettamente i loro punto di vista».

Te ne viene in mente qualcuno?

«Bocca o Scalfari, al di là del fatto di poter essere d’accordo con loro, erano vecchi giornalisti che avevano una loro posizione chiara che poteva essere anche ruffiana o paracula, ma che sicuramente era espressa ad alti livelli. Non si trattava di far il titolo per farti comprare il giornale. Stesso discorso per la politica del passato che era di livello molto superiore rispetto a quella di adesso. Non parlo di onestà, che non è propria dell’uomo politico in generale, ma di approfondimento. Guardare una tribuna politica di trent’anni fa era tutta un’altra storia rispetto a questa ossessione di essere popolari a tutti i costi, di essere compresi facilmente da quanta più gente possibile. Il berlusconismo ha veramente tirato fuori il peggio di questo sistema».

La stampa ha seguito la corrente?

«In buona parte del mondo. Ma noi abbiamo avuto un caso che racchiudeva in maniera un po’ più simbolica, esagerata, italiana, quindi anche coreografata, un indirizzo diverso. Quando ero in Spagna mi rendevo conto che l’informazione aveva settori ben differenti, c’era El Pais che era il giornale di riferimento e poi c’era la Prensa del Corazon con centinaia di interviste e articoli di gossip. Erano due mondi che non entravano in competizione fra di loro. Da noi non è più così».

C’è uno dei tuoi brani capolavoro “Costruire” che è una sorta di invito a ripartire dalla semplicità per creare il proprio futuro. Esiste ancora la possibilità di vivere a misura d’uomo?

«Sulle grandi trasformazioni non mi saprei esprimere. Però so che ogni piccola scelta quotidiana che facciamo comporta un allontanamento o un riavvicinamento a quella qualità del vivere. Io vivo a Roma e quando ho preso casa in campagna mi sono reso conto di come tutto si rallenti e assuma una modalità molto più empatica. A volte il paese è fin troppo empatico dove tutti sanno tutto di tutti. Ma tra questa eventualità e quella in cui tutti se ne fregano, credo sia preferibile la prima».

Il tuo ultimo album Una somma di piccole cose è stato ispirato, fra le altre, alle sonorità di Neil Young, James Taylor e Joni Mitchell. Tre artisti che durante il periodo del Vietnam hanno tenuto viva la coscienza pacifista. Hai mai pensato a un concept album sulla pace?

«Sì, perché no? Ma vedi, la cosa bella di quel tipo di artisti in realtà è che la loro coscienza pacifista non sconfinava nel cliché dell’artista impegnato che doveva assolutamente comporre una canzone sulla pace anche a costo di scrivere una cosa brutta. Loro scrivono delle belle canzoni d’amore, di introspezione, a volte di coscienza civile. Non si creava binomio forzato tra impegno e canzone impegnata. Gli Stati Uniti sono sempre stati molto meno provinciali di noi, lì non c’è la regola che dice che se sei impegnato fai un certo tipo di musica come se fosse lo stile musicale a denotare la tua coscienza».

Lasciamoci con un tuo consiglio. Un album da ascoltare.

«C’è un disco che sto ascoltando molto in questo periodo, è di un cantautore svedese che si chiama The Tallest Man on Earth. Il disco s’intitola The Wild Hunt che è un folk però molto sorridente. Pur essendo un disco chitarra e voce e poco altro, non è affatto lagnoso. Questo lo dico per quelli che temono che chitarra e voce sia necessariamente lagnoso. Io ovviamente adoro la lagna quindi per carità (ride). Lui è proprio folk, dicono che sia una sorta di Bob Dylan svedese, è un artista di strada che sa come intrattenerti. Senti! (fa partire il brano e fa finta di suonare una chitarra)».