La mia Algeri

In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.

di Christian Elia

Un uomo di colore, di un’età indefinita, è seduto su una sedia di plastica. Sembra allo stesso tempo infastidito – in ordine – dal mondo, da se stesso, dallo straniero che chiede un’informazione, dal caldo torrido.

In realtà è un imprenditore, uno che ha trovato il suo modo di sopravvivere. Algeri, interno notte. Da fuori lo riconosci subito, perché è come se una mano gigante avesse, pazientemente, appoggiato gli uni sugli altri i mattoncini di un lego per ciclopi.

Lo chiamano Aerohabitat, ed è uno dei pochi semi sbocciati dalla semina visionaria di Le Corbusier, al secolo Charles-Edouard Jeanneret-Gris, architetto e urbanista di fama mondiale, che elaborò un piano di sviluppo per Algeri la Bianca, che doveva allo stesso tempo sancire il matrimonio che – all’epoca – sembrava indissolubile con Parigi e portare Algeri nella modernità. Almeno in quella di Le Corbusier.

Un piano che, a ben vedere, immaginava quasi un’europeizzazione dei quartieri nuovi di Algeri, che avrebbe visto poi convivere nella capitale algerina il passato (la Casbah) e il futuro. Il piano dell’architetto non vide mai la luce, ma influenzò molti architetti e l’Aerohabitat è ancora là a ricordarcelo.

Realizzato nel 1955 dall’architetto Miquel, in Avenue Bouakouir, il caseggiato nasceva con la missione di dare un alloggio alle migliaia di famiglie che ingolfavano Algeri proveniendo dalle campagne, per quel lavoro che mai riusciva ad arrivare nell’Algeria rurale.

Ma voleva alloggiarli con rispetto, offrendo anche a loro una vista sulla meravigliosa baia di Algeri. E poi centri commerciali, percorsi pedonali, uno spazio abitativo sano, e un grande ascensore, pubblico.

Ed è proprio là che il nostro uomo aspetta. Una piccola mancia, per utilizzare l’ascensore, che è diventato l’azienda di famiglia. Per non fare a piedi una scalata che vien da piangere solo a pensarci, per più di cinquanta piani.

Ecco, la mia Algeri è raccolta in quel micro (macro) cosmo. La storia di una colonizzazione profonda, violenta, che ha tentato di plasmare i luoghi e i suoi abitanti. Quell’anelito socialista che, nei primi anni dopo l’indipendenza promettevano un grande futuro all’Algeria.

E un presente legato a enormi ricchezze, ritenute nelle mani di pochi, mentre il popolo algerino, tra mille difficoltà, sale e scende scale ripide. Sulle quali qualcuno lucra. L’Aerohabitat finisce per raccontarci un mondo intero, un paese e la sua gente, la sua storia e i quella sensazione di qualcosa che poteva essere ma non è ancora stato.

La vista, dai piani alti, è mozzafiato. E non si tratta di estetica, ma di ventilazione. Perché all’improvviso si prende aria, in una città dove tutto sembra abbracciarti a tal punto da nasconderti il sole, in dedali che raccontano di trame e di storie, di guerre e ribellioni, di artisti e radicali.

Ed è il mio modo di astrarmi, guardando Algeri dall’alto, come a fermare i pensieri, a vederla muoversi, sempre liquida, sempre sospesa tra un passato doloroso e un futuro incerto.

Il giorno in cui su quell’ascensore saliranno tutti, potrebbe essere un gran giorno. Quanto manca? Non si può dire, ma non si può neanche accettare in eterno la fatica degli algerini, che potrebbero avere tutto e a volte si accontentano di niente.