La domenica del villaggio

Cronaca di una giornata tra le vita impigliate a Ventimiglia

di Alessandra Governa

Se vi dicessi di un barbiere, di una partita a calcetto, di persone che pregano, di una pentola di sugo che asciuga a fuoco lento, di crocchi di persone raccolte intorno al saggio o al pazzo del villaggio, a cosa pensereste?

Con buona probabilità vedreste la piazza di un paese, la domenica. Riconoscereste di quando anche voi, quella volta lì, avete pregato perché la vicina bisbetica vi ridesse il pallone finito nel suo giardino. Riassaporereste il gusto delle lasagne della nonna, che si fanno solo al compleanno o a Natale perché è un lavoro lungo tirare la sfoglia come dio comanda.

Vi verrebbero alla mente i musi per andare in chiesa, perché ci si deve andare almeno l’anno della comunione o sorridereste davanti al racconto di quando il Mario aveva detto da ubriaco che avrebbe mangiato l’amanita perché tanto chi lo dice che fa male (e poi lo aveva fatto davvero, da sobrio, di mangiare l’amanita e lo avete salvato per un pelo).

Pensereste che voi fate parte di quel quadro, come spettatori o come protagonisti. Un pezzetto della storia vostra, della nonna, del paese e dell’ubriaco. Certo, anche dell’amanita.

Aggiungo allora dei particolari: la barba è fatta con una lametta, senza rasoio. Di quelle rettangolari, che tagliano solo a guardarle e che a mala pena stanno tra due dita. Il barbiere ha gli auricolari del cellulare intorno al collo e un piede sul muretto e una mano sulla fronte del cliente, per bilanciarsi e riuscire ad avvicinarsi il più possibile al suo viso. Aggiungo anche che non ci sono specchi, se non uno tascabile di plastica verde che viene passato di mano in mano, che a destra e a sinistra del barbiere i clienti, seduti in fila, parlottano tra loro in attesa sotto il sole.

Chi prega lo fa all’ombra, in ginocchio e senza scarpe. Lo fa muovendo le labbra, in una cantilena silenziosa e inchinandosi al tempo di una musica che solo lui sente. È una preghiera intima e solitaria. Quando ha finito, chi prega, arrotola il tappetino su cui era inginocchiato e che ha avuto cura, prima, di pulire dalla polvere.

Chi gioca a pallone, gioca a pallone. Senza maglietta, con le porte fatte da due bottiglie di plastica, alzando la polvere e disidratandosi per correre avanti a indietro in un campetto dalle dimensioni variabili e immaginarie. Chi gioca a pallone, gioca a pallone e va a recuperarselo se il tiro è sbagliato, fa lo slalom tra chi passa incurante del gioco ed è contornato da un pubblico che guarda più per noia che per interesse e che raramente si lascia andare a scene di giubilo per un’azione ben riuscita.

Chi cucina lo fa stando seduto intorno al fornello da campo. Guarda il sobbollio in un pentolone grande e pesante, annerito sul fondo. Chi cucina, sta attento a che non si attacchi il sugo e a non sporcarsi con le gocce che schizzano. Chi cucina, lo fa in gruppo e passa il tempo piluccando pezzi di pane o dando sorsate di acqua da bottigliette di plastica azzurra per arginare il caldo del fuoco che si somma alle temperature torride di una domenica di metà luglio.

Chi chiacchiera lo fa in cerchio: uno che parla e gli altri in silenzio che ascoltano. Chi parla gesticola, fa disegni per terra, con le dita. Guarda in una direzione e sembra dire dì là o lontano. Chi chiacchiera lo fa in una lingua antica, che sembrava persa e alla quale invece ci si attacca come una coperta di Linus. Perché rappresenta casa.

So che ora penserete, un po’ disorientati, che io abbia preso il vostro quadro e abbia fatto dei segni a caso per rovinarlo.
La vostra domenica non è più vostra?

Eppure è la domenica delle circa 300 persone che vivevano in quello definito come “Campo B”* (il campo A è gestito dalla Croce Rossa per conto della Prefettura e dista poche decine di metri), nel parco Roja a Ventimiglia.

Il Roja è il fiume, ora quasi secco e con un greto di pietre bianche e arbusti. Il Parco è un’area che avrebbe dovuto fare da scalo commerciale e mai utilizzata davvero per la sua potenzialità dalle Ferrovie. Una distesa di binari morti punteggiata da cumuli di materiale di scarto. Gli unici segni di vita sono le insegne sulle porte dei capannoni che indicano dove si costruiscono i carri dell’infiorata.

Dicono che da qualche giorno, anche loro si siano animati. Tra la porzione di binari utilizzata e il campo formale, c’è una struttura di cemento, aperta su uno dei lati lunghi, che avrebbe dovuto servire da stalla per il bestiame in transito a Ventimiglia. La stalla è la casa degli uomini in transito. Di chi cucina, di chi prega, di chi si fa la barba, di chi gioca a calcio.

Casa di fortuna e scelta obbligata per i più, dopo che il centro presso la Parrocchia delle Gianchette è stato chiuso a metà luglio e che i container della Croce rossa (con posti per 180 persone) si sono riempiti.
Casa di fortuna, ma scelta da chi, dopo poco più di una settimana, ha preferito trasferirsi dal campo A al campo B, perché qui si sente libero.

Non che il campo A sia chiuso, ma probabilmente la distribuzione assicurata dei pasti, l’assistenza medica, un letto e bagni decenti, non riescono a controbilanciare la presenza di tante divise, del badge per entrare e uscire, della “residenza a scadenza” (dieci giorni in cui decidere tra il farsi foto-segnalare e quindi entrare nel circuito dell’accoglienza previsto per i richiedenti asilo oppure o il non farsi identificare e quindi rimanere nel circuito dell’irregolarità che porta all’espulsione).

C’è fermento al campo B tra volontari, visite delle volanti, smistamento del cibo, medicine e vestiti regalati da associazioni o privati cittadini. C’è fermento nel costruire le docce, nel raccogliere la spazzatura o nel autogestire spazi e cucina.

È un fermento che non ha bisogno di parole, i più sussurrano in arabo, e sa di rassegnazione. Rassegnazione che questo sia solo un ulteriore passaggio obbligato (come la traversata del deserto, le torture in Libia, il gasolio sulla pelle nel Mediterraneo) verso un qualcosa che è altro. Che deve essere altro. Rassegnazione che a guardar bene è resilienza. In questa domenica che è di tutti.

* il campo B di cui si racconta è stato.sgomberato dalle forze dell’ordine lunedì 1°agosto e tutti i migranti spostati nel campo della Croce Rossa