Nuova Africa e Vecchia Europa ai Rencontres di Arles 2016

Poca voglia di scandalizzare, ma tante proposte interessanti. Spunti e recensioni, da sfruttare fino al 25 settembre

di Alessandra Abbona

Sono trascorsi i tempi in cui i Rencontres di Arles ti mettevano davanti a immagini che lasciavano emotivamente disturbati: talvolta scuotendo la coscienza, talvolta con un pugno allo stomaco, talvolta con una grassa risata. Ricordo infatti la commozione alla proiezione di The Ballad of Sexual Dependency di Nan Goldin, che non ha bisogno di presentazioni, così come il fastidio provato alla vista delle immagini di Leigh Ledare, che ritraevano la vita sessuale – senza filtri – di sua madre, ma pure lo spasso alla vista delle composizioni dissacranti dell’argentino León Ferrari, con i suoi crocefissi nel tostapane e le riproduzioni di missili sull’altare. L’impressione è quella che, in questi tempi incendiari e paradossalmente troppo politicamente corretti, si cerchi di non scandalizzare troppo.

E così, anche la più importante manifestazione mondiale dedicata alla fotografia, a detta di chi scrive morde poco.

Questo però non significa che nella città della Camargue non si siano viste, in questa edizione 2016, delle mostre poco interessanti. Dal 2014 una nuova direzione è subentrata a quella storica (ne avevamo già parlato due anni fa) e ovviamente l’impronta del nuovo direttore Sam Stourdzé si fa sentire. Il format delle esposizioni e i luoghi che le ospitano sono gli stessi del passato, però con qualche novità piuttosto vistosa.
Partiamo dal Parc des Ateliers, le storiche officine ferroviarie dismesse che sono rimaste tali quali per anni dopo l’abbandono, e che ospitano generalmente i Prix Découverte, ossia le mostre dei fotografi emergenti selezionati da commissari affermati, esposizioni di immagini di grande formato o numerose collezioni particolari. Nelle varie edizioni scorse, i visitatori si trovavano a girare in enormi capannoni dalle temperature roventi, tra fili di metallo arrugginiti e scoperti. Un aspetto che aveva del fascino, benché lontano dalle norme sulla sicurezza cui siamo abituati nel Belpaese. Quest’anno imponenti lavori di ristrutturazione – promossi dalla Fondation Luma, partner ormai preminente dei Rencontres e che comprendono una avveniristica torre di cemento e metallo dell’architetto canadese Frank Gehry – stanno mutando il volto di quell’area polverosa. L’Atelier de la Mécanique è stato completamente rimesso a nuovo e, con “Systematically Open”, vede sperimentare nuove forme espositive con un effetto unico anche grazie agli spazi di grandi dimensioni.

Tear my Bra

Tear my Bra

Lasciando da parte le questioni logistiche e la verve innovatrice che caratterizza Arles 2016, nella estesa offerta di esposizioni, nonostante la full immersion di un giorno provochi capogiri e spiazzamenti, emergono autori e temi degni di nota. Il format dei Rencontres prevede alcuni filoni tematici. Quest’anno in particolare colpiscono “Street”, la fotografia di strada rivisitata, con artisti del calibro di Sid Grossman e la sua Coney Island e Little Italy in bianco e nero degli anni ’40, Garry Winogrand, altro maestro newyorchese della vita di strada e Ethan Levitas, giovane considerato l’erede di Winogrand ; “Africa Pop”, con la ‘Swinging Bamako’ di Malick Sidibè, il fotografo maliano scomparso nell’aprile scorso, che ritrasse la capitale in stile yeyè anni ‘60 e ‘70 e la storia fotografica dei Las Maravillas de Mali, una band di sette giovani musicisti mandati negli anni ’60 a studiare a Cuba, periodo in cui l’isola aveva forti legami politici e culturali con l’Africa, e ‘Tear my bra’, le immagini contemporanee di Nollywood, ovvero l’Hollywood nigeriana a Lagos, con il suo gusto ultra kitsch dei set cinematografici; “Après la guerre”, dedicata a immagini di luoghi di guerra, come ‘Champs de bataille’ di Yan Morvan, che ha ritratto con una vecchia e ingombrante macchina fotografica in legno i campi delle battaglie più famose dell’umanità, a partire dall’antichità, in Grecia, fino ai due conflitti mondiali e alle guerre odierne, nella Libia del 2012 (nella foto in apertura, Waterloo).

Impressionanti sono la pace e la quiete immobile che regnano in quei luoghi e che le fotografie di grande formato rendono molto bene.

Inserite in questi e altri filoni tematici, vi erano altre mostre molto suggestive, che ho però letto con i miei occhi, estrapolandole dalle categorie proposte dai curatori. Alcuni artisti, africani e non, hanno narrato varie sfaccettature dell’Africa. Non si può quindi parlare di un focus sulla fotografia africana, ma di fotografi che hanno ritratto in modo totalmente eterogeneo e sorprendente vari aspetti della cultura del continente. Di sicuro impatto il lavoro della giovane ugandese Sarah Waiswa, selezionata nei Prix Découverte, che ha narrato in modo inconsueto il fenomeno dell’albinismo e il suo stigma sociale, attraverso una modella albina totalmente staccata dal contesto, per le vie della baraccopoli di Kibera, a Nairobi.

Zanele Muholi_Somnyama Ngonyama

Zanele Muholi – Somnyama Ngonyama

Immagini di grande schiettezza formale e al tempo stesso di toccante poesia costituiscono l’esposizione del tedesco Hans Silvester, che ha documentato la vita dei Bench dell’Etiopia. Per la mia propensione alle tematiche etnografiche, l’opera di Silvester è quella che mi è rimasta più impressa: i Bench sono una popolazione agropastorale che costruisce abitazioni per la propria famiglia e per gli animali, decorandole con maestria e gusto e ricavando soluzioni ergonomiche e architettoniche da far invidia ai designer nostrani. La loro vita è scandita tra i campi e il villaggio, la loro società è perfettamente autosufficiente e i loro volti sembrano dirci: “Grazie, ce ne stiamo benissimo così”.

All’interno del padiglione sperimentale della Fondazione Luma, come già detto, si trova l’esposizione “Systematically Open”. Qui, tra opere a mio avviso meno memorabili di altri artisti, spicca il volto indagatore di Zanele Muholi, artista sudafricana militante e lesbica, riprodotto su fotografie a tutta parete, volto che si fa strumento in forma autobiografica nel progetto ‘Somnyama Ngonyama’, per narrare le tematiche politiche e culturali legate alla comunità e alla diaspora nera nel mondo.

Lasciando l’Africa e tornando nel vecchio continente, ecco la mostra del londinese Don McCullin.

Mostro sacro della fotografia, noto ai più per i suoi reportage attraverso le guerre del pianeta degli ultimi quarant’anni, qui è proposto nella sua dimensione di narratore di una Gran Bretagna povera, stracciona, proletaria che ci sembra impossibile da concepire oggi, ma risale a pochi decenni fa. I ritratti in un folgorante bianco e nero degli homeless di Spitalfield, all’epoca non ancora gentrizzata in favore di ricchi alternativi, ci raccontano un’Europa che sembra pescata direttamente da un terzo mondo che non ricordiamo più. Insomma, un “come eravamo” che fa molto riflettere su chi siamo oggi e da dove veniamo.

TheBench_HansSilvester

TheBench – HansSilvester

A soddisfare la mia passione per le catalogazioni, è stata “Mauvais genre”, la ricchissima collezione del francese Sébastien Lifshitz (dal 1880 al 1980) dedicata ad immagini, amatoriali e non, di queer, travestiti, transgender d’epoca. Uomini e donne che in privato facevano quello che non era consentito nella vita pubblica: uomini vestiti da donne, donne vestite da uomo, attori che impersonano il sesso opposto, mock marriages celebrati nei college femminili americani, travestiti parigini che hanno riempito le pagine dei rotocalchi anni ‘60 e così via. Una finestra su un mondo che poco ci viene raccontato e che, non solo in passato, è stato etichettato come un fenomeno deviante, ma che ci illustra quanto il tema delle identità sessuali variabili sia parte della vita umana da sempre.

 

I Rencontres di Arles sono visitabili fino al 25 settembre.
Tutte le informazioni su: www.rencontres-arles.com/