La mia Dakar

In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi

di Lorenzo Bagnoli

Vista sulla mappa, la forma del Senegal ricorda una faccia con la bocca aperta. La punta del naso è Dakar, la capitale. Il suo nome perde le sue origini nella sua notte dei tempi, nel XVI secolo: qualcuno dice che derivi dalla parola in wolof – la lingua locale – con cui si chiama la pianta del tamarindo, qualcuno dal patronimico – d’Accard – di un avventuriero francese, qualcun altro da “dekk”(paese) e “raw” (scampare), i termini con cui l’hanno chiamata i capoverdiani in fuga intorno al XVIII secolo. La città fin dalle sue origini è una porta spalancata sul mondo, una delle città dell’Africa più vicino agli altri continenti.

La punta del naso del Senegal è un crocevia di conquistatori, schiavi, mercanti, avventurieri, benefattori, spie, criminali, santi e dannati.

Non ha mai perso la sua dimensione di approdo per fuggiaschi. Oggi è pieno di “expat”, come si chiamano gli immigrati bianchi, che hanno alle spalle qualche avventura finita male e cercano ristoro nella “teranga”, l’accoglienza senegalese. Almeno fino a gennaio 2016, c’era Michel Tomi, padrino della mafia corsa che ha colonizzato tutta l’Africa occidentale con i suoi casinò. Ci sono riciclatori di denaro sporco libanesi, partiti alla ventura per ripulire i soldi dell’eroina. Ci sono commercianti cinesi, neo conquistatori armati di denaro, dal 1980. Ci sono ex Carabinieri italiani – sotto indagine – che fanno gli impresari per musicisti e case di moda.

Storie su cui si è poggiata la coltre della sabbia che s’alza in ogni strada di Dakar, da Pikine fino a Fann.

A Dakar nei secoli è toccato in sorte anche il ruolo di ultimo porto sicuro da cui salpare prima dell’ignoto. È accaduto la prima volta nei secoli della tratta degli schiavi. Per le Americhe, si partiva dall’isola di Gorée, poco più di uno scoglio abbandonato a largo di Dakar, variopinto come solo i colori delle vesti africane possono esserlo. Una Auschwitz africana, una deportazione di massa. Il simbolo a futura memoria è la Maison des Esclaves, un luogo grigio di morte nonostante il rosso slavato della sua facciata. Un luogo dove lo sciabordio del mare che arriva fino alla “Porta del non ritorno” che si apre sull’oceano sembra risuonare ancora degli ultimi pensieri di chi partiva per l’altro mondo.

Non c’è orizzonte più terrificante di quello che si vede da quella prospettiva.

In questo universo che è Dakar, questo è l’unico vero segno di grigio. Non c’è al Plateau, il quartiere centrale, dove le rare vie d’asfalto si attorcigliano intorno a grattacieli e sedi governative. Non nelle brulicanti e sovraffollate banlieues, dove i veri dakaroise vivono. Come Yambeul, il primo quartiere che ho conosciuto: un inscindibile agglomerato di case, di cui non si vedono i confini di proprietà, raccoltosi intorno ad un pozzo adornato da una scritta “FC Barcellona”. Oppure a Tharoye, lungo la statale che conduce fino all’autostrada (costruita dai francesi): un sobborgo umile e operaio dove nel 1944 l’esercito francese da Parigi ordinò di sparare su una caserma zeppa di commilitoni africani, appena tornati dalla guerra in Europa. I morti furono (almeno) 35, colpevoli di pretendere di essere pagati come gli altri tiratori dell’esercito e di tornare a casa durante il congedo.

Il grigio non si vede nemmeno sulla Corniche, la pretenziosa “tangenziale costiera” di Dakar, una sorta di promenade per automobili in cui mostrare il lato più moderno e occidentale della città, tra alberghi di lusso come il Radisson Blu, improbabili centri commerciali e locali frequentati da tutti le possibili comparse della commedia umana.

Ma ad ogni tramonto, quel luogo riconquista un’anima che dall’azzurro stempera al rosso.

Un po’ di grigio s’intravede solo al cospetto della Statua del Rinascimento, un’opera di 49 metri costruita (da maestranze nordcoreane) per volere dell’ex presidente Wade, per sua ammissione, con l’unico scopo di lasciare un segno nella storia. E quello che fa impressione è vedere il turismo di piccolo cabotaggio africano venire a prostrarsi di fronte al monumento al rinascimento posticcio della cultura africana. Un’ode all’ignoranza che ha impietrito un continente per secoli.

Per fortuna, Dakar conserva con orgoglio i suoi colori, nascosti nelle corti disadorne delle ampie casi senegalesi, dove una tv ronza parole di continuo, una chiacchiera richiama la vicina e un montone bela fino al prossimo Tabaski, la festa tradizionale dove farà da piatto principale. E dove anche uno sconosciuto straccione può sedersi a tavola per mangiare il ceebu jen, come se fosse di casa.