Mentone, andata e ritorno

Reportage da Ventimiglia

di Alessandra Governa

Vai a Mentone, così vedi come fanno.

Il treno regionale delle 14,08 parte da Ventimiglia e arriva a Cannes. Quattro, forse cinque carrozze con un fascino retro se non fosse per l’apertura automatica delle porte. A quest’ora di un mercoledì di agosto i passeggeri sono pochi. Nel mio scompartimento siamo in quattro: un signore con infradito e costume che scoprirò alla fine del viaggio essere francese, un uomo e un ragazzo entrambi africani. Siamo seduti ognuno per sé, come a lasciare tra noi più spazio possibile.

Scelgo il lato mare, posto corridoio. Il panorama sarà l’ultimo dei miei pensieri nei quindici minuti scarsi di viaggio verso la meta, Menton Garavan, prima fermata del treno e prima stazione oltreconfine.
“Nice?” è il ragazzo giovane, non più di quindici anni ad occhio che rompe il ghiaccio.
“Yes.” Sorrido. Vai a Mentone, così vedi come fanno.

Il gioco delle parti salta subito: loro sanno che io so. Che tentano la strada del treno per attraversare una frontiera che non si vede ma c’è, che non hanno il biglietto, che arriverà la polizia o il controllore, che dovranno scendere. Nice è solo un obiettivo a lungo termine.

Io so che loro (forse) non sanno che se sono stati fotosegnalati in Italia, saranno rimandati in Italia per un’eventuale richiesta di asilo, che i minori non sono espellibili e che vale, per loro “l’interesse supremo”, qualunque cosa voglia dire. E il ragazzo, piccolo lo è davvero, con la sua maglietta a righe e bermuda larghi sotto il ginocchio. Nemmeno una zainetto.

Io so che loro non sanno che combatto con i mulini a vento, oltre che con lo sguardo del francese con le infradito che non approva il mio interessamento per la condizione giuridica dei due nostri compagni di viaggio e che vivo con angoscia il momento in cui, e so che succederà, saremo controllati.

Sfilano dal finestrino scogliere, spiagge e ville con piscina. Dicono che Mentone sia bella. Non ho in programma un giretto nella piazzetta né un bicchiere di pastis.

Vai a Mentone e vedi come fanno.
Fanno così: salgono quattro poliziotti, tutti di blu vestiti. Due davanti e due dietro e rastrellano il treno. Un’operazione a tenaglia, che sa di routine e che ha come unico obiettivo quello di individuare i neri e chiedere loro i documenti. Nessuno si indigna perché tutti sanno come va a finire: i neri che non hanno documenti si alzano e i poliziotti li scortano fuori dal treno affidandoli ad altri poliziotti, rimasti sulla banchina. I neri con i documenti, li rimettono a posto, con le scuse della gendarmerie.

Così, vagone per vagone. I bianchi non sono nel campo visivo. I neri, tutti i neri, sono i protagonisti.

Sulla banchina in meno di cinque minuti vengono radunate quattro persone, compreso il quindicenne. Chissà se chiederà asilo pur volendo andare in Germania. Chissà se almeno dirà di essere minorenne. Chissà. Posso solo seguire a distanza.

La vera frontiera, per chi viaggia in treno è questa stazione anonima e poco più grande di quella di Zoagli, per chi fosse pratico del levante ligure.Conto 16, 17 poliziotti di blu vestiti, quattro camionette e una macchina di servizio. Mi siedo in disparte e al sole. Si fermano quattro treni in arrivo da Ventimiglia. Sul Tello, una sorta di intercity italo – francese, salgono tredici uomini blu, due quasi per ogni carrozza. Salita, rastrellamento, discesa, raggruppamento, perquisizione. Metodici e inesorabili. In mezzo, tra un treno e l’altro, si sta seduti all’ombra, si beve caffè da un thermos, si fumano sigarette elettroniche, si mandano messaggi con il cellulare.

Delle quasi trenta persone fermate, la maggior parte vengono fatte spostare sul binario opposto e fatte salire sul primo treno in arrivo per Ventimiglia. I restanti vengono portati in commissariato, mi dice l’unica poliziotta presente.

Sulla banchina assolata non c’è tempo e modo di verificare la condizione giuridica di ciascuno, come dovrebbe invece avvenire, né si tiene conto dell’anagrafe o della condizione fisica delle persone.

Tra le quasi trenta di queste due ore ci sono bambini con le loro mamme, c’è una donna incinta, ci sono almeno tre minori non accompagnati. Un eterno ping pong che non ha nulla di legale. Un eterno ping pong che spazza via anche le minime tutele in fatto di respingimenti previste dall’Accordo di Dublino e da quello bilaterale Italia – Francia, sulla cui costituzionalità si sono già sollevati dubbi.

Mi avvicino al gruppo dei respinti. Sono facce note. Sono le donne che nei giorni scorsi ho incontrato alla chiesa di Sant’Antonio, nel quartiere delle Gianchette, a pochi minuti a piedi dalla stazione. Sì, sono proprio i visi a cui ho ricordato la procedura di asilo, i visi a cui con delicatezza ho chiesto quale percorso abbiano fatto per arrivare in Italia e che quando dicono Libia abbassano gli occhi, perché non serve aggiungere altro. Donne eritree, sudanesi ed etiopi che vogliono raggiungere un marito o un fratello in Germania.

Il loro inglese è stentato e io non conosco l’arabo, ma ormai fingerprints non lo dico nemmeno più, faccio il gesto e spingo i polpastrelli sulle cosce, come se schiacciassi del pongo. Aggiungo solo, quando fanno cenno di sì con il mento, mushkila, problema in arabo. Vorrei fosse mafi mushkila, nessun problema, ma è solo mushkila
.

Accanto alle mamme ci sono i bambini, quasi tutti sotto i quattro anni. Curiosi, con i capelli legati con elastici colorati. Sono vestiti a strati per alleggerire zaini e borse. Hanno nomi che non ricordo o che non riesco a pronunciare.

In stazione, a Ventimiglia sorridono, come fosse la fine di una gita. Mi chiedono, ancora una volta, se posso dar loro un passaggio, perché sei, otto mesi per un iter burocratico sono troppi, anche per chi ha sabar, pazienza. Non posso e so che non le rivedrò. Domani saranno su un nuovo treno o su altre rotte, meno sicure, più costose e che alimentano un grande mercato parallelo in cui il migrante che passa è merce preziosa, perché paga in anticipo.