La mia Beirut (Li Beirut)

In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.

Di Costanza Pasquali Lasagni

La mia Beirut è fucsia. Anzi, “fusha”, come diceva Amira, la mia estetista egiziana e mamma adottiva a Beirut, quando mi suggeriva il colore dello smalto da mettere ai piedi.

Fucsia come la copertina del libro di Zena Al Khalil, Beirut I love you, e delle kefyeh e dei glitters che usa nei suoi quadri, e dei combattenti con il mitra rosa dei suoi video, quando racconta della cosmesi post guerra, fucsia appunto, dagli zigomi ai palazzi, tutti rifatti, che non si capisca che dietro si nascondono ferite di decenni.

Zena, che definirla artista è riduttivo, è una che dice che l’amore vince quando hai visto la guerra, che è ora di mettere via le armi – e chi ha tra i trenta e i quarant’anni a Beirut di guerra ne ha vista tanta – e per amore non intende l’innamoramento tra persone, bensì quel senso di bellezza universale, di comprensione e compassione per il dolore altrui, e sì, anche di incazzatura, perché l’amore non è bello se non è litigarello.

E allora, quando trovai una kefya fucsia in un negozio di Betlemme, anni dopo, non me sarei più separata.

La mia Beirut fucsia, senza ancora saperlo – che sarebbe diventata fucsia, dico – è iniziata il primo maggio del 2007, mentre pensavo di andare a vivere, da brava orientalista da manuale, libro di Robert Fisk alla mano, nelle mille e una notte, nella Parigi del Medio Oriente, e invece la notte non si dormiva dalle zanzare, dal rumore dei cantieri perennemente aperti, e dal traffico.

Tempo una settimana ed ero già scappata a Damasco, su un pulmino scalcinato al costo di pochi dollari e con un visto turistico fatto alla frontiera e mi ero immersa nel profumo dei gelsomini e nel silenzio delle pietre bianche e nere, cercando di elaborare una strategia per sopravvivere i tre lunghissimi mesi che mi attendevano a Beirut.

“When in Lebanon, do as Lebanese do”. E così la mia Beirut è diventata un posto da adottare e difendere, a suon di erimbau e marce per i diritti civili, make civil wedding, not civil war, e rodas da rua di capoeira, rode di strada, a simboleggiare che noi questa Beirut maltrattata e sofferente, ma piena di voglia di vivere, ce la volevamo riprendere, curare e restituire, come nel video, fucsia anche lui, di Zeid and the Wings, General Suleiman, e come nelle lezioni di capoeira ai piccoli profughi palestinesi del campo di Borj el Barajneh, e ai piccoli sans papier della comunità di Nabaa, passando dall’arabo all’inglese al turkmeno, ma in realtà alla magia dei sorrisi e del suono del berimbau.

La mia Beirut è la Volta ao Mundo, il giro di roda che tiene tutti uniti e al tempo stesso liberi e uguali. La mia Beirut è mio padre che mi viene a trovare, e mi chiede come riesco a riconoscere un “servis” da un taxi.

E’ già tanto che riesca a farmi portare almeno un po’ vicino a dove vorrei andare, gli rispondo, serate passate a fare i compiti di arabo ed imparare il dialetto libanese, quello con le “e” al posto delle “a”.

La mia Beirut, d’estate, è ma fi may, e ma fi karhaba, senza acqua ed elettricità, e andare a pagare le bollette arretrate nei sotterranei dell’Electricité du Liban, cercando di azzeccare il giorno giusto e le tre ore di slot di elettricità, scapicollandomi in discesa da Ashrafiyeh cercando di non perdermi tutti vari fogli e foglietti. E fucsia era il foglietto che trovavo puntualmente sul contatore, segno che le ganasce dell’efficiente ministero avevano ancora una volta fatto colpo, poiché quando passava l’omino della bolletta, con il foglietto bianco invece, io non c’ero mai.

La mia Beirut è guidare come una camionista messicana, cercando di schivare motorini, carretti di kaak e SUV, e scoprire che Beirut e Roma non si discostano poi tanto, in fatto di sopravvivenza stradale. E che forse guidavo come una camionista messicana anche prima, ma non sapevo schivare le buche pestando forte l’acceleratore. E le pozze di pioggia quando diluviava, poiché la mia Beirut è senza tombini.

La mia Beirut è il manoush za’atar e labneh a metà mattina, magari con le olive e le foglie di menta, e la birra Almaza, la birra del diamante, alla sera, e le chiacchiere con le ragazze nel terrazzino interno a ridosso del vento e del traffico, a fare il punto della giornata.

Ad aggiustare la lavatrice che perdeva acqua. A parlare di come far incontrare le donne di Hermel, nel nord della Bekaa, con le donne di Nabatyeh, nel profondo sud, una missione impossibile, e non solo perché il viaggio durerebbe più di una giornata e molte di loro non si possono fermare a dormire fuori casa, sennò ai pargoli chi ci bada e la cena chi la prepara.

La mia Beirut profuma di acqua di fiori d’arancio, may zahar, per fare il caffè bianco, qahweh beydah, sapiente miscela di acqua calda, fiori di zagara e una scorzetta di limone, da bere a fine pasto, per digerire le mezeh più buone del Medio Oriente e la quotidiana razione di hummus, magari mangiata ad improbabili orari notturni a Bourj Hammoud, il quartiere armeno.

La mia Beirut, Li Beirut è la voce di Fayrouz alla mattina che risuona nelle radio dei tassisti, e anche nella mia, è la musica del risveglio, con il profumo inebriante del caffè al cardamomo, rigorosamente saade, senza zucchero per me, servito nelle tipiche tazzine senza manico decorate di rosso e verde.

Qualcuno dice che se la musica di Umm Kulthum è passione, quella di Fayrouz è senza dubbio amore. Ne sono profondamente convinta.

È il 2016, e la mia Beirut, ora di passaggio, è sempre lì, sempre più spolpata, mangiata, consumata, che mi accoglie quando ne ho bisogno e offre conforto e cicatrici, le sue, per curare quelle degli altri, ma che io tengo a distanza, sapendo di averla già vissuta, come un’amica che non si giudica, perché forse Beirut non è mai stata mia, né degli altri, ma al possesso e consumo degli altri deve invece resistere, per mostrare dignitosamente la sua dolorosa bellezza e il suo straziante e seducente dolore.

Beirut, I love you.

Questo articolo rispecchia il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale.