La mia Tunisi

In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.

Di Clara Capelli

Anni fa (ma non così tanti!) la mia Tunisi era il percorso che facevo rigorosamente a piedi ogni mattina per raggiungere l’Institut Bourguiba dove studiavo arabo classico dal collegio universitario in cui stavo. Venti minuti sotto un sole già feroce seguendo la linea del tram, dal quartiere di Bab Saadoun a Shara‛ Hurria, Avenue de la Liberté, nel centro della città.

Le casette modeste ricoperte di bouganvilles, poi i chioschi di shawarma e i taxiphone – negozietti dove si telefona per pochi dinari – all’entrata di Bab el-Khadra’. Seguiva una lunga via in cui i café, sempre gremiti di uomini intenti a fissare il vuoto – sempre le stesse facce, sempre le stesse espressioni stanche e distanti – si intervallavano alle fripes, i bancali di vestiti usati. Infine, si sbucava in Avenue de la Liberté con le sue case di quella che era la ville nouvelle del periodo coloniale francese, eleganti facciate rosicchiate dal tempo e dalla mancanza di cura. La moschea al-Fath, che il venerdì si animava fino a bloccare il traffico. E poi la sinagoga, proprio accanto all’Institut Bourguiba, sempre sorvegliata dalla polizia tunisina.

La mia Tunisi della mattina erano anche il café giusto all’angolo, le cui piastrelle verdi hanno assistito a tante chiacchierate nelle pause e nei pomeriggi dopo le lezioni, i tortini di pasta sfoglia della boulangerie Pino, il supermercato del centro commerciale Lafayette dove fare la spesa, il gelato al pistacchio di De Carlo.

La mia Tunisi del pomeriggio era di nuovo Bab Saadoun con il mercato di Halfaouine, dove con la scusa di comprare la frutta cercavo di imparare qualcosa di arabo tunisino.

Si dice qaddesh, meglio ancora qaddè, non bikam; in Tunisia si dice ‛aychek, non shukran; per le uova si usa la parola ‛adham, come ossa, perché sono bianche.

Ogni pomeriggio, da Bab Saadoun a Bab Souika, passando con familiarità sempre più naturale tra robivecchi, fruttivendoli, negozi di limonate e dolci ricolmi di miele, macellai e pescivendoli, indifferente alle mosche, alle teste di animali esposte, all’acqua putrida usata per spazzare via i resti del pesce e scacciare i gatti. Col tempo ho iniziato a salutare la signora dei profumi, il vecchietto che vendeva la pesche buone, il ragazzino da cui compravo a pochi millim dei sacchetti di plastica neri per infilarci frutta e verdura, mentre intorno a me uomini e donne stringevano salda la loro qoffa, la borsa di paglia usata per la spesa. Della medina e dei suoi turisti poco mi importava, e se ci andavo mi ostinavo a camminare per quasi un’ora tra le vie che da Bab Souika conducevano a Porte de France – o Bab el-Bahr, la Porta del Mare.

La mia Tunisi della sera erano le ore passate nella corte del foyer universitario a chiacchierare e mangiare l’ennesimo piatto di pasta arrangiato o il polletto arrosto preso all’angolo, sotto gli occhi curiosi dei custodi Yusra e Mustafà. Le note di Samra ya Samra, lo zaghrarid – urlo vibrato che le donne fanno in celebrazione di qualcosa – a indicare che qualche matrimonio era in corso nei paraggi. Solo qualche volta gli studenti squattrinati uscivano per un couscous a Sidi Bou Said, del pesce alla Goulette o una birra sulla terrazza dell’Hotel el-Hana’.

Quella era anche la Tunisia qabla ath-thawra, prima della Rivoluzione. La Tunisia dove respiravi la paura della polizia e dove lo spazio pubblico era riempito da immagini di Ben Ali.

A Tunisi ci sono tornata brevemente nel 2013, quando l’ottimismo per un nuovo futuro stava ormai già scemando, ma i muri erano ricoperti di graffiti e le proteste erano riprese al Bardo, il quartiere dove si trova la sede del Parlamento. Lì ho passato parte delle mie serate di agosto, a osservare quello che succedeva e cercare, ripartendo da zero, di conoscere un mondo che avevo lasciato poco prima che tutto avesse inizio, per tornare in Italia a fare un dottorato in cui non credevo granché.

Ora a Tunisi ci vivo stabilmente dal 2015. Non abito più a Bab Saadoun, ma in un quartiere tutto sommato popolare della borghese e francofona La Marsa. La spesa la faccio lì, i negozianti mi hanno aiutata a rimettere in un cassetto il dialetto orientale che avevo nel frattempo imparato. Le be’s – come stai? – non kifak; ricordati di pronunciare la lettera qaf; wahda, una, non wihda; le uova si chiamano ‛adham, non baida, ricordatelo. Di taxiphone ne vedo pochissimi, di smartphone parecchi. Lavoro nel nuovissimo quartiere senza storia né anima di Lac 2, fatto di ville e palazzoni vuoti costruiti con i soldi della speculazione edilizia.

La città è diventata più grande per me, ho conosciuto meglio le sue diverse zone e anime.

Ho scoperto le vie non turistiche della medina, dove vive una mia delle mie più care amiche. Alla Marsa, che ho un imparato ad apprezzare grazie a un’altra amica architetto, ci sto pochissimo, perché la maggior parte dei miei amici vive sparsa in varie aree del centro, Centreville. Il café dietro la sinagoga è sempre il mio preferito e sono fermamente convinta che il tè bil-na‛na‛, alla menta, sia più buono lì che altrove.

Halfaouine è ora, in un certo senso, uno dei tanti simboli delle politiche economiche di esclusione che da ricercatrice analizzo e critico. I cambiamenti del Paese a volte mi smarriscono, a volte mi rattristano, ma mi ostino a dirmi che quella cappa soffocante di paura non tornerà perché in molti spiriti – almeno in quelli che frequento – tanto è cambiato.

A Bab Saadoun vado molto raramente. Ma ogni volta che ci passo ricordo e sorrido.