La mia Bussana Vecchia

In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi

Di Gabriella Ballarini, foto di Mirco Conio

Se dalla strada si guarda in alto, nello stretto della terra ligure, non ci si rende conto, non si vede, non si sa, ma poi c’è un cartello che dice Bussana Vecchia e una freccia. E questo nome, che cosa vuol dire? Vecchia, perché?
Esiste un libro di etimologie inventate, un libro che fantastica sui nomi delle cose trovandone nuovi significati, allora farò anche io così con la mia Bussana.

Bussana: il nome ha origine dalle molte porte che, in antichità, se bussate con vigore, si aprivano. Gli abitanti del piccolo villaggio sulla collina davano poi il benvenuto con abbracci. Gli abbracci bussavano le spalle per far sentire la presenza, era tale e quale, ad ogni arrivo, ad ogni partenza.

Ecco, Bussana è così, ancor di più dopo il terremoto.

Terremoto? Nel 1887 un terremoto distrusse le case e la chiesa e tutto il resto. Un gruppo di impavidi, molti anni dopo, alla fine degli anni cinquanta, salì per la collina, erano artisti di tutti i tipi, pittori, scultori, scrittori. Realizzarono una comunità di abitanti.

Occuparono le case e ridiedero vita al borgo antico, distrutto, trasformando il disastro in estrema bellezza. Le piccole cose meravigliose che realizzarono, oggi le puoi vedere quando dal mare sali uno, due, tre e vari altri tornanti, quando arrivi alla strada stretta, preludio dell’ingresso del villaggio e ti rendi conto di dover lasciare l’auto, parcheggi e ti fai guidare dal buio, che poi si fa largo nei tuoi occhi e diventa luce flebile, diventa contorni delle cose.

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Ombre in lontananza raccontano il primo ristorante e il profumo della carne arrostita quando arrivi di sera o anche a mezzogiorno, una fila di panche sulla sinistra e un tizio che si asciuga il sudore e ti sorride, un sorriso gigante, che in Liguria un sorriso così quasi non me lo ricordavo. Se ti fermi a mangiare, scopri che l’interno del ristorante è colorato e ci sono delle insenature nei muri e ti sorridono anche dentro: una Liguria atipica, insomma.

Si cammina poi verso destra o verso sinistra e comunque qualcosa succede. In questi anni ho deciso di andarci almeno una volta l’anno, per guardare i cambiamenti, per sedermi su una pietra o un divano di fortuna e guardare il mare. Bussana ti regala il silenzio e il cambio, un nuovo punto di vista su tutti i mondi dimenticati.

Viaggiare il mondo intero e poi rintanarsi nel paesino anche solo per poche ore, restituisce la bellezza dell’andare.

La chiesa che si spacca in due e poi in tre e dentro ci cresce un albero e attorno i fiori che coprono il ricordo dei fiori cresciuti prima. Un tempo immobile che si ripete. Tra i ricordi che si mischiano e si confondono c’è quello di una famiglia tedesca, un bambino piccolo dai capelli biondi lunghi e la sua mamma che vendeva vestiti usati e un tizio che si è messo a suonare seduto su uno scalino e io che guardavo i miei amici che scoprivano il villaggio.

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Sì, gli amici che vengono a trovarmi per la prima volta, li porto sempre qui, è come una dichiarazione, come dir loro che esistono terre immense, ma che poi ci sono anche dei rifugi e c’è il silenzio e qui non dobbiamo parlare per forza.

Possiamo prendere la birra al primo bar che si trova sul primo spazio abitato e sederci, aspettare che arrivino altri e poi seguire in silenzio o raccontare. Guardare i gatti raggomitolarsi all’ombra e non soffrire il caldo, per merito della casa di Barbara, che tanti anni fa aprì una delle tante porte e mi fece entrare. C’era una cucina, piccola e poi una sala grande e tutti i mobili fatti a mano e la sala dei dipinti e delle sculture e una terrazza da dove si vedeva il mare infinito, Mediterranea visione del mondo dall’alto.

Ci sono anche i baci, quelli dati vicino alla cassetta delle lettere, che c’è un punto dove ce ne sono tipo cinque una in fila all’altra e Francesco mi ci portò una sera, eravamo giovani e mi promise di girare il mondo con me. A Bussana si fanno anche infinite promesse, è così, ci si ritrova in case dai soffitti bianchi e dalle pareti bianche altrettanto, con i soppalchi in muratura e tu la chiameresti Grecia, invece è sempre quella regione che è una linea curva e i cui abitanti sono un po’ linee curve anche loro.

Complicati, silenziosi, gente che guarda il mare per difendersi da chi arriva.

Gente che protegge i propri piccoli giardini e che un pesciolino guizza dall’acqua di gioia quando si concedono di perdersi in un abbraccio verso chi non conoscono. Ma Bussana non è così, lei ti racconta subito la sua miseria, ma con ricami di nostalgia così armoniosi che ti sconvolgono, ti spettinano e ti mettono a sedere. I canti che liberano il canto nei bar e nel retro dei bar, dove si consuma la vera poesia, in quel tempo perduto e ritrovato del vento che accarezza le coste e che quando arriva sull’altura diventa sollievo dopo un giorno di lavoro o di sole che segna la pelle.

Il borgo si svela con lentezza e cambia la dimensione dei suoi abitanti, che se tu guardi le porticine e le finestrelle tutto ti sembra appartenere ad un mondo fatato e poi comprendi che il labirintico andare, altro non è che uno srotolarsi artistico di tentativi di esistenza.

Esistere diversamente, senza andare troppo lontano, solo prendere la strada principale, la via Aurelia e girare a destra o a sinistra, ad un certo punto, e poi salire e salire ancora un po’, per cambiare punto di vista, per ritrovare il proprio nord.