Battiti al minuto/Il deserto dei Tartari

Una rubrica sui destini letterari

di Isidora Tesic

Vi sono libri che si leggono per atto di cura, verso se stessi. Altri che domandano un tempo senza
pentimenti. Ci raccontano, ci interrogano, senza attesa di risposte, perché il dubbio è passo primo in
libertà. Ci innamorano o ci abbandonano, perché il sentimento viene insegnato.
‘Battiti per minuto’ si propone, in una serie di racconti, d’essere la misura narrata dell’intensità di
vita dei personaggi dei libri richiamati al contemporaneo.
Marquez diceva che per ciascun uomo esistono tre vite, una pubblica, una privata ed una segreta. Ed
è in quella segreta, che incontriamo, per un attimo o senza tempo, i personaggi. Anche in storie
vere. Perché la vita, infine, abbraccia la letteratura

60 bpm
C’è un silenzio netto, inappellabile alle cinque del mattino. E una nebbia dura si essicca piano, levandosi dalla terra. Il cielo cavo è un tormento, da quanto è vuoto. E vuote sono le strade, le stanze e le nubi. G. ha visto la notte nei densi occhi, per tutte le ore di buio che gli hanno camminato sulla schiena. Ed ora ha lo sguardo secco come un ramo. Incastrato contro il soffitto, da tempo unico cielo che si concede.
Sulla scrivania, ai piedi del letto, stanno, disertati, i libri dell’ultimo esame brillantemente superato. E sopra i fogli scritti, dalla finestra serrata, si affila una luce di alba brusca. G. li guarda con un moto rude del petto. Molto simile al disamore, è il flutto che gli batte contro le costole. Sospira, più per abitudine che per sollievo. Non vuole neppure ricordare cosa vi ha scritto. Preferisce mantenere vuota la memoria. Casomai, un giorno, imparasse qualcosa di utile. Senza neppure guardarsi allo specchio, conosce la piega, reclinata verso sinistra, della sua bocca. La direzione ferita, che versa l’amaro, diretto in cuore.
Sua madre ha sempre rimproverato il suo sorriso storto. ‘O sorridi bene o non sorridere’, diceva. Ma da quando è partita in viaggio, ormai due mesi fa, nessuno glielo ha più ricordato. L’ha salutato attraverso la porta chiusa. G. ha sentito a malapena il suo bisbiglio. E il suono delle sue mani impresse contro il legno scuro. Lui non ha aperto. E lei non ha chiesto entrata. Ha aspettato, come meglio ha potuto. Poi ha fatto scivolare un foglio con gli orari in cui la casa avrebbe ricevuto visite. Lui, poteva considerarsi esente. D’altro canto, lo sapeva, era quello che pensava lui sapesse meglio fare.

G. si alza, con lo stesso gesto che usa per gettarsi a terra. Imparato per mancanza di cura. Si veste, tirandosi indosso una seconda pelle. Che la prima, non basta a proteggerlo. Fa un paio di passi, accanto al letto. Si muove, ma solo senza darsi troppo peso.

La prima volta che aveva trascorso tutto il giorno nella sua stanza, l’aveva fatto per esercizio di solitudine. Era davvero convinto che la solitudine fosse, nel corpo, uno stretto muscolo nascosto. Da evitarne l’atrofia. Appena tornato dall’Università, era entrato nella stanza e, con un solo, saldo respiro, aveva chiuso la porta. Mutili, fuori, erano rimasti altri passi. Nel rauco silenzio, nella sua quiete, solo l’alzarsi del suo cuore sotto pelle, era rimasto. E poi, ogni volta, sempre più semplice era stato non costringersi ad uscire. Fuori, tutto il mondo gli pesava i gesti. Lo misurava e sempre lo trovava mancante. Meno crudele gli era la vergogna di sé, se la teneva chiusa in una stanza.
Per altro, G. non offriva aggrappi alla disperazione. Non aveva voci per la tristezza. Ma ne aveva una, ben forte, per la rassegnazione. Ed anche aveva polmoni larghi e il respiro denso. Imparava, costantemente, a vivere la sua apnea d’ogni giorno, con ordine e senza fretta. Non aveva troppo amore, nascosto. Nessun foro di fuga, per aride abitudini. Era, esattamente, determinato dallo spazio che la sua carne occupava. Nulla oltre.
Si riprende, G., mentre la porta d’ingresso si apre, di scatto. Sente passi di donna che entrano, portandosi appresso, stanco, il suo respiro. Come sempre puntuale, in questi due mesi, anche se nessuno mai l’accoglie. ‘È una donna sofferente. Tutto quello che le era superfluo, gliel’ha strappato di dosso la vita.’ aveva detto la madre a G., annunciandogli il suo ennesimo tentativo d’aiuto, diretto verso tutti tranne che lui. Ed a G. era rimasta la curiosità di vedere chi, sul volto, ha solo il necessario per vivere.
La sente muoversi, oltre la porta, per casa lasciando, feroce, il suo profumo. Risuonano le stanze, ai suoi gesti secchi. Che a liberarsi dell’abbandono, non sempre serve garbo. Al di là della porta, G.sente schioccare i libri, i tavoli, le lenzuola. Il rumore della polvere fa sorda l’aria. Sorride, mentre la immagina, senza averla mai vista. La immagina di bocca stretta e palmi chiari. E distanti, sulla fronte, solchi fondi. Gli occhi, però, quelli non li sa pensare.

Si raccoglie le dita nelle mani. Ha passato la notte in veglia, davanti allo schermo, ed ora ha occhi crudi. E nessun velo, nel guardarsi attorno. Non prova rombi inquieti, né richiami. E neppure li ha mai provati.

È rigorosa, obbligata, la sua resa. Ha sempre perso contro se stesso. Quasi senza domandarsi. Non ha scoppi nei polsi, affanni per i nuovi giorni. Solo un’abituata attesa. D’altronde la vita ha passo lungo. E non sempre tutti ricorda e raggiunge.
È meglio, più sicuro, fermarsi ad aspettarla.
Ma, mentre lascia che un poco di pietà per se stesso lo avvolga, confortante, dall’altra stanza irrompe un crollo sordo. G. non accenna, subito, a muoversi. Non è la prima volta che la sente lasciar cadere qualcosa. Fa parte di quella scontrosa cura che lei ha della casa. Ma il silenzio sembra espandersi lento, fin davanti alla sua porta. E nessun rumore aspro, di rialzo, lo ritira.
G., nell’angolo più secco del cuore, affila un timore. Scomposto, si muove verso la porta. Poggia il volto, di lato, contro il legno. Attende, con le mani ed il cuore premendo. Ma l’aria non canta, nessuna presenza racconta.
La vita, lui non lo sa, richiama a sé, a colpi forti. Ma è scelta, quella di rispondervi. Anche se la vita è quella degli altri. G., d’un tratto tremante, si accorge che non si può più sottrarre. E per la prima volta certo, afferra la maniglia ed infine, apre.

* nota: Hikikomori è un termine giapponese che definisce chi, volontariamente, sceglie di isolarsi e recludersi in casa, evitando qualsiasi confronto, se non virtuale, con la realtà, sociale e relazionale. Incapaci di rispondere alle continue richieste di autorealizzazione e successo del mondo esterno, sentendosi profondamente inadatti, i più colpiti risultano essere i giovani che lo trasformano in un disagio psicologico, talvolta molto prolungato. In Italia, nel 2015, sono stati stimati 30 mila casi, anche se si sospetta ve ne siano molti ancora non riconosciuti ed il fenomeno appaia in costante diffusione.