Conflitti “territorializzati”

La “rivendicazione” dello spazio nelle micro pratiche della vita quotidiana

di Emilio Gandini, tratto da Iconocrazia

Introduzione
Nel corso di un laboratorio di urbanistica partecipata, un abitante del quartiere oggetto della discussione, segnala il pericolo generato dalle bici che transitano tra le corti dei condomini dove i bambini giocano. Un intervento apparentemente banale che però innesca un dibattito. Prende la parola un rappresentante di una organizzazione ambientalista, specificando che nelle città di oggi dove dominano le auto non ci si può schierare proprio contro le bici che rappresentano la mobilità sostenibile e la vera alternativa ad un uso troppo intenso delle automobili. Questo breve resoconto di un dibattito molto più ampio e strutturato che avviene nel corso di uno degli incontri di urbanistica partecipata nel quale abitanti ed esperti discutono di problemi ed istanze che hanno ad oggetto lo spazio della città, rappresenta bene il senso del conflitto di cui si intende discutere nelle pagine che seguono. Conflitto e territorio, declinati nel rapporto tra abitanti e “spazio di vita”.
In questo contributo non parleremo, dunque, di conflitti generati da scelte politiche ed economiche non condivise dalla popolazione e che si riflettono sul territorio. E nemmeno affronteremo quei conflitti nei quali movimenti sociali o gruppi organizzati di cittadini rivendicano il “diritto allo spazio” attraverso mobilitazioni che chiedono “giustizia sociale”. Ci occuperemo di conflitti “interni” alle questioni di convivenza negli “spazio micro” della vita quotidiana, di conflitti “endemici” che scaturiscono dall’esigenza di avere una qualche rivalsa sullo spazio che si considera necessario per la propria vita ordinaria. Conflitti ai quali non corrisponde necessariamente “la lotta sociale” ma che generano contese che coinvolgono la condotta di vita di altri con i quali si condivide lo spazio.
Nello specifico proveremo a ragionare su cosa vincola le forme del conflitto allo “spazio del vissuto”, e così al territorio, quando questo è la posta in gioco e cosa ciò implica nel configurarsi delle relazioni sociali. “Conflitti territorializzati” sono dunque tutte quelle contese i cui effetti si osservano nel momento in cui gli individui manifestano una qualche necessità “sullo spazio” che risponde a delle mancanze. Il contributo si articola in due percorsi, nei quali, attraverso un approccio basato su ricerche etnografiche e sull’uso delle testimonianze orali, si cercherà di rilevare le forme della contesa per lo spazio in alcuni ambiti di vita quotidiana. Nello specifico, nel primo paragrafo, si discuterà del conflitto e della sua incidenza sui legami sociali sulla base di alcune testimonianze raccolte nell’ambito di un focus group che si è tenuto in un laboratorio di urbanistica partecipata. Nel secondo paragrafo, invece, a partire da un lavoro di ricerca svolto in due quartieri di edilizia popolare in Sardegna, si affronterà il discorso sul conflitto a partire dal rapporto tra relazioni sociali e pratiche spaziali.

Conflitto vs coesione sociale

È cosa piuttosto nota che quando si parla di processi partecipativi ci si riferisce a situazioni sostanzialmente diverse tra loro. A partire dagli anni novanta, in chiave diversa rispetto al passato, i “processi partecipativi” sono diventati parte di un vocabolario comune al quale si ricorre in più campi della società civile (Moini 2012). Non ci si riferisce più solo ad azioni “dal basso” ma anche ad iniziative “pilotate” da attori pubblici o privati. Bisogna evidenziare, oltretutto, che non sempre si fa riferimento alla “partecipazione” con l’intento di avviare “buone pratiche”; in molti casi si ricorre ai processi partecipativi per mostrare un interesse “velato” verso alcune azioni che non trovano sempre effettiva realizzazione poi nella azioni. Si è soliti considerare la “partecipazione” in rapporto alla possibilità che le persone hanno di essere parte della società civile e di avere un ruolo attivo nelle scelte o quantomeno di esprimere idee sulle questioni locali. Potremmo dire, in sintesi, che con il termine “partecipazione” si intendono un insieme di pratiche che coinvolgono la società tutta – o parte di essa (i soggetti interessati alle questioni ad oggetto, per esempio) – nella scelta di azioni ed interventi e nell’individuazione di istanze. È dunque, così inteso, un concetto estendibile a molti aspetti della vita sociale. Quello che ci si aspetta, nella migliore delle ipotesi, a conclusione di un processo partecipativo il cui fine è arrivare a deliberare, è che si produca “condivisione” e un qualche grado di consenso che porti a delle scelte chiare. Il conflitto, di conseguenza, è considerato un ostacolo il cui antidoto sta nella “coesione sociale”. Infatti, tra i diversi usi che in letteratura si possono ritrovare del concetto di “coesione sociale” – oltre a quello che rimanda esplicitamente alla riduzione delle disuguaglianze – vi è anche la dimensione che evidenzia la forza dei legami sociali. Quest’ultimo aspetto che ha le sue basi nella sociologia di Emile Durkheim e nelle sua disamina sulla solidarietà nei contesti comunitari e sociali (Durkheim 1971) emerge molto chiaramente nelle parole di alcuni partecipanti ad un focus group condotto nell’ambito di un laboratorio di urbanistica partecipata. I partecipanti non fanno esplicitamente rimando alla categoria “coesione sociale” ma, nel descrivere i termini della partecipazione dei cittadini alle questioni urbane, evidenziano come il conflitto (in questo caso intergenerazionale) sia la conseguenza della debolezza dei legami sociali, come sostiene una mediatrice culturale:

come occupano i ragazzi il tempo libero? esce fuori che non fanno nulla. Quello che fanno di più è la palestra, dopodiché attività di volontariato viste con molta diffidenza, una lontananza incredibile, gruppi spirituali, culturali… Io vedo una solitudine incredibile, le persone si sentono sole, non si riesce più a comunicare con i ragazzi giovani, c’è un contrasto generazionale terribile, uso di sostanze alcoliche e stupefacenti. Quando parli con le famiglie te ne rendi conto, altrimenti sembra che non si avverta.

La distanza tra giovani e adulti emerge di frequente quando si mettono a confronto le generazioni. Secondo i nostri interlocutori, tuttavia, la separazione tra generazioni – che condividono in fondo lo stesso “spazio di vita” – è uno degli effetti della mancanza di “coesione sociale” intesa come “disinteresse rispetto ai temi della città”, come racconta una psicologa di un centro d’ascolto per il disagio:

Ho notato un disinteresse rispetto ai temi della città, si fanno le cose e pare che per i cittadini, se non i pochi eletti, addetti ai lavori, non c’è molto interesse. Abbiamo fatto delle interviste sul disagio nella città, non di tipo scientifico ma esplorativo e abbiamo appreso che ogni cittadino è preso dal problema che sta dietro casa sua ma non è interessato alle dinamiche della città […] Vedo una passività disarmante.

La psicologa evidenzia il fatto che molti cittadini sono presi dai loro problemi e sono poco coinvolti nelle questioni di interesse comune. È importante notare, come riporta la direttrice di un centro servizi per il volontariato, che questa mancanza di interesse per le “dinamiche della città” si traduce in una sorta di conflitto che produce separazione fra gruppi di cittadini (in particolare giovani e adulti) e che si esprime nel diverso uso dello spazio urbano:

I giovani vivono la loro vita totalmente separata da quella degli adulti. Per esempio il sabato sera e il sabato notte, il fatto che tutti gli adulti, anche i genitori dei ragazzi che si vanno a ubriacare, se ne vanno a casa a dormire oppure se ne vanno da qualche altra parte a passare la serata tarda, non va per niente bene. Se invece vivessero anche loro la città, sforzandosi un poco di fare i nottambuli, forse i giovani capirebbero che la città non è il campo di battaglia loro, il sabato e la domenica, ma che è ancora la città di tutti, anche delle persone che hanno un’altra età.

Quello che Henri Lefebvre descrive come “diritto alla città” (Lefebvre 1970), concetto molto utilizzato negli anni recenti soprattutto dai militanti dei movimenti sociali, si esprime attraverso delle rivendicazioni che vedono un’opposizione tra classi. L’idea di conflitto negli anni settanta è di questo tipo, basata sostanzialmente sullo scontro verticale tra dominati e dominanti. L’analisi di Lefebvre viene ripresa, poi, in tempi recenti, da David Harvey (2012) che, con un taglio differente, vede, da una prospettiva macro, la città come il campo di battaglia nel quale si gioca il diritto allo spazio in chiave neo-liberista. Nelle dichiarazione dei partecipanti al focus group, soprattutto nell’ultimo frammento di intervista che si riporta, invece, il “diritto alla città” assume connotazioni sostanzialmente diverse. L’oggetto della contesa è lo “spazio di vita” che traduce la necessità per tutti i cittadini di “vivere lo spazio” della città. Non si tratta di uno scontro tra classi ma tra diverse categorie di cittadini appartenenti in fondo alla stessa classe (figli e genitori), un conflitto proprio della stratificazione sociale i cui presupposti si possono leggere nella messa in discussione della stabilità dei legami sociali. Quello che queste dichiarazioni evidenziano è che le forme del conflitto “sul territorio” che si rilevano nell’uso di alcuni luoghi della città – aspetto che si può osservare in molti centri storici delle piccole e grandi città italiane soprattutto nei fine settimana – delineano sia l’indebolirsi della coesione sociale intesa in termini durkheimiani (disgregazione di un ordine sociale condiviso), quanto la sua debolezza in quanto concetto capace di descrivere le stratificazioni della società. Il concetto di coesione sociale, spostando l’attenzione sulle capacità dei cittadini di gestire se stessi e il proprio universo di relazioni, produce i suoi significati all’interno di un campo di discorsi che enfatizzano l’empowerment, i valori comuni e le reti sociali. L’intervistata, viceversa, esprime chiaramente la necessità di una rivalsa che si può mettere in atto senza dubbio se si modifica lo stile di vita, dunque agendo sulle proprie necessità, ma attraverso un’azione di forza: se gli adulti si riappropriano dei luoghi della città vivendoli anche in quelle ore in cui sembra prevalere il dominio dei giovani, dice, probabilmente la città torna ad essere la “città di tutti”. È un modo questo per rivendicare il “diritto allo spazio” concentrandosi sulla dimensione conflittuale più che su quella cooperativa e basata sulla solidarietà cui il concetto di coesione sociale rimanda nella logica comune.

La rivendicazione dello spazio

Erving Goffman considera il concetto di “rivendicazione” di primaria importanza nell’ordine dell’organizzazione sociale. Le analisi che egli propone nei suoi studi sulle relazioni in pubblico (Goffman 1981; 2006) ruotano intorno al diritto a possedere o a controllare un bene: il territorio. Come in tutti gli studi di Goffman, lo sguardo è micro, orientato alle relazioni minute della vita ordinaria e ai comportamenti che maturano nel rapporto con l’ambiente (umwelt), concetto che riprende dall’etologia di Jakob von Uexküll (1934). L’ambiente che descrive Goffman è spesso conflittuale, soprattutto quando questo è l’ ambiente “del conosciuto”. Scrive a riguardo Pier Paolo Giglioli nella prefazione all’edizione italiana de Il comportamento in pubblico:

[…] è come se Goffman ribaltasse l’abituale caratterizzazione sociologica Gemeinshaft/Gesellschaft: le relazioni di tipo comunitario sembrano essere quelle più esposte all’inganno e alla manipolazione, mentre i rapporti tra sconosciuti possono paradossalmente suscitare un senso di rispetto e spontaneità (Giglioli 2006, p. XVII).

Le analisi di Goffman sulla rivendicazione dello spazio offrono spunti interessanti se applicate allo studio delle “relazioni di vicinato” e ai rapporti che si instaurano tra coloro che condividono non solo lo stesso territorio ma anche la stessa esperienza “di insediamento” come nel caso degli abitanti dei lotti di edilizia popolare. I quartieri di edilizia popolare che nascono in Italia tra gli anni sessanta e settanta per dare casa ai ceti meno abbienti contribuiscono al processo di urbanizzazione dell’Italia che ha inizio con il piano Ina Casa alla fine degli anni quaranta (Di Biagi 2001). Oggetto di studio principalmente degli “studi di comunità”, i quartieri di edilizia popolare sono stati un tema di ricerca interessante per ciò che concerne il rapporto tra la cultura progettuale, la realizzazione degli interventi e i “fruitori” delle nuove abitazioni (Signorelli 1989). In un lavoro di ricerca condotto in Sardegna in due quartieri di edilizia popolare sorti pressappoco in quegli anni, nei paesi di Guspini e di Villacidro nella provincia del Medio Campidano, uno degli aspetti indagati è stato il rapporto tra abitanti e spazio nelle relazioni di prossimità (Gardini 2012). È negli insediamenti di edilizia popolare, infatti, dove lo spazio “viene assegnato” – creando al contempo lo stigma dell’ “assegnatario” – che lo spazio è la vera posta in gioco. Nei quartieri popolari di entrambi i paesi – come avviene anche in molti altri insediamenti di edilizia popolare sorti in quegli stessi anni – lo spazio pubblico, tra abbandono, stigma e appropriazione, è il campo nel quale hanno luogo i conflitti. Rispetto al caso in questione si possono individuare due forme di conflitto “territorializzati” che presentano specificità diverse; una prima forma di conflitto descrive la contesa fra gli abitanti delle case popolari e gli abitanti delle villette private sorte tutt’intorno ai lotti a pochi metri di distanza, e un secondo livello di conflitto che riguarda, invece, le relazioni “interne” tra gli stessi abitanti dei lotti. Nel primo caso, la “rivendicazione dello spazio” di taglio culturalista evidenzia in primo luogo delle incompatibilità legate allo stile di vita, come raccontano alcuni intervistati:

[…] alla fine li hanno messi tutti insieme e sai, metterli tutti in palazzine, tutti insieme, gente che era un po’ particolare, gente che non era abituata a vivere in appartamenti così, perché gente che gli hanno dato anche appartamenti con cinque stanze e due bagni e questi nei bagni ci mettevano anche le cipolle. Nel bidet, non l’hanno mai usato, ci mettevano anche il prezzemolo.

manca un po’ di cultura da queste persone, come dicevo anche prima […] a queste persone manca proprio la cultura, non vogliono acculturarsi.

Ma, allo stesso modo, si tratta di un conflitto che ha caratteristiche spaziali, come raccontano altri abitanti delle villette a schiera:

[…] queste palazzine non esistevano, hanno fatto pochissimo a circondarci di queste palazzine, cosa che noi ci abbiamo messo tanto per…hanno impiegato molto poco a circondarci di queste palazzine, perché noi, tanti anni che, sai, combattiamo con la regione per il mutuo, combatti con il comune, e qui, e là, questi in quattro e quattr’otto…circondati tutti da queste palazzine, stavamo così…bello, vedevamo tutto.

I punti di vista sono naturalmente diversi. Come mostra la mappa disegnata da un abitante dei lotti, dove le palazzine popolari sembrano essere esse stesse chiuse “verso l’esterno” e circondate dalle case private a schiera, la dimensione dell’ “invasione del territorio” è una costruzione che, da entrambe le parti, tende a giustificare l’esistente.

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Il livello di conflitto interno presenta invece caratteristiche ecologiche legate alla lotta per l’appropriazione dello spazio in comune. Al momento del lavoro di campo si è osservato come lo spazio pubblico non fosse molto curato[8]: gli interni dei palazzi e gli intonaci non presentano segni di manutenzione, le corti sono danneggiate, l’erba dei cortili è spesso alta e in alcuni punti impedisce gli spostamenti danneggiando gli stessi residenti. Secondo una visione piuttosto superficiale, orientata a ridurre gli abitanti ad incivili incapaci di dominare il proprio spazio di convivenza, questi segni nello spazio pubblico vengono considerati indicatori di arretratezza[9]. Tuttavia – questione che segnala come la cura per il proprio spazio di vita è un aspetto molto più complesso – a questa mancanza di attenzione per ciò che è collettivo, corrispondono altre azioni che, alla maniera di Goffman, si possono definire come atti di “rivendicazione dello spazio”. In alcune aree interne ai lotti ci sono orticelli privati, forni in muratura, aree adibite a depositi privati per la legna o altri materiali che sono diventati di proprietà di alcuni che hanno sottratto spazio ad altri:

eh…ognuno, a chi l’ha messo per la motoretta, questo signore che abita di fronte, a chi…l’hanno fatto per mettersi i fiori, però noi no. Quando vogliamo fare la pulizia tutti insieme, ci riuniamo tutte le signore, andiamo, puliamo…sto bene così. Però più giù, già ci sono che si son messi la legna, si son messi i fiori, hanno chiuso. A chi si è fatto il barbecue giù, e fanno le cucine… orti (…) perché tu non sai qual è il pezzo che spetta a te, noi abbiamo un pezzo di cortile, però ognuno sai…, chi è prepotente la vince perché lo lasciano fare, non è che devi stare sempre a bisticciare.

Considerare queste azioni come atti di rivendicazione e non semplicemente come “di abusivismo” significa concentrarsi non solo sul “desiderio di spazio” ma sulla mancanza di una risorsa. Queste appropriazioni indicano, infatti, per un verso la necessità di procurarsi ciò che il luogo “progettato” non offre – dunque la separazione fra le intenzioni progettuali e i bisogni degli abitanti (Signorelli 1989) – e per l’altro la problematicità che pone un ambiente in cui lo spazio pubblico diventa una risorsa rara e quindi un terreno di contesa. Un ambiente come quello dei lotti di edilizia popolare nel quale molte persone si trovano a condividere continuamente lo spazio pubblico (un gran numero di persone entra ed esce dagli edifici, si ferma a chiacchierare, usa l’ascensore, frequenta il cortile e gli spazi in comune in modi diversi) rende paradossalmente più difficile la riconoscibilità dello spazio come “proprio” generando la necessità di controllare e determinare le attività che vi si svolgono al suo interno. La rivendicazione agisce allora generando distinzione all’interno di un gruppo apparentemente omogeneo, incidendo sulle forme di classificazione prodotte dagli schemi dell’habitus (Bourdieu 2001). Ne deriva una contraddizione che nella differenza fra l’utilizzo collettivo dello spazio e le singole modalità di appropriazioni rintraccia il nesso che lega le pratiche spaziali alla vita sociale (De Certau 2001). Le azioni di rivendicazione dello spazio indicano così che la territorialità – quel tipo di atteggiamento che determina la volontà o la necessità delle persone di dominare una parte di territorio e di “marcare” il proprio attaccamento al luogo – spesso si esprime in contrasto con l’interesse collettivo (Holloway, Hubbard 2001). In tensione fra stigma prodotto dall’esterno, appartenenza debole e, allo stesso tempo, necessità di produrre il proprio spazio, il legame con il territorio si manifesta attraverso una lotta ecologica.

Riflessioni conclusive
Il noto lavoro di Benedict Anderson sulle origini dei nazionalismi (Anderson 2004) evidenzia come l’appartenenza ad un contesto socio-spaziale come la nazione sia di fatto caratterizzato da condivisioni che scaturiscono da “appartenenze immaginate”. Anderson usa non a caso il concetto di comunità – piuttosto noto nella letteratura sociologica (Tönnies 1979) – per descrivere come il campo delle interazioni tra le persone è vincolato a rappresentazioni che hanno origine in un tempo sincrono:

Un americano incontrerà o conoscerà di nome solo una minuscola manicata dei suoi milioni di compatrioti americani. Non ha nessuna idea di ciò che essi stiano mai facendo. Ha però piena fiducia della loro costante, anonima, simultanea attività (Anderson 2004, p. 44).

Per seguire le intuizioni di Anderson, è alla comunità che ci riferiamo quando pensiamo al territorio della prossimità, un contesto nel quale le relazioni fra le persone sono intime, solidali e “controllabili”. Ed è alla comunità che pensiamo quando immaginiamo l’assenza di conflitti. Allo stesso tempo, però, il senso della parola “comunità” descrive anche qualcosa che ha a che fare con quello che Henri Lefebvre definisce come “spazio di rappresentazione” (Lefebvre, 1974), cioè un paesaggio immaginario che assume senso se collocato in una cornice simbolica utile a descrivere l’appartenenza. Sì è visto, però, come la produzione del proprio spazio e così dell’appartenenza – questione che vale per entrambi i casi affrontati brevemente in questa disamina – non avviene necessariamente al di fuori del conflitto, anzi in qualche modo lo produce nella continua “lotta per l’ambiente”. Quest’immagine che pare rimandare alla visione ecologica e figlia dell’evoluzionismo sociale dei sociologi di Chicago necessita di una ulteriore formulazione per non essere fraintesa. Per i chicagoans la lotta per il territorio avviene, come nel mondo naturale, per invasioni, come se l’ordine sociale fosse determinato da un ordine biotico nel quale il più forte domina e gli altri si adattano (Park, Burgess, McKenzie 1999). Non è certamente questa la visione che si intende sostenere. Non si tratta qui di equiparare le azioni sociali a quelle determinate dall’ordine ecologico proprio del mondo naturale, quanto di collocarle in un quadro nel quale è l’azione sociale che incide sulla struttura della società con l’intenzione di modificarne alcune disposizioni. La competizione per l’ambiente può essere letta allora come una competizione per l’affermazione delle identità sociali in un contesto in cui il conflitto non è solo verticale, tra dominati e dominanti, padri e figli, ricchi e poveri, “assegnatari” e “proprietari”, ma orizzontale, un conflitto che si basa sulla separazione tra gruppi di individui (Donzelot 2008). Giovani e adulti rappresentano due categorie sociali portatrici di stili di vita e di modelli di comportamento contrapposti e “immaginati” (spensieratezza vs responsabilità, immaturità vs maturità e così via), come lo sono i “proprietari” e gli “assegnatari” di case, ma come lo sono anche gli “assegnatari” in quanto categoria non necessariamente omogenea che cercano nella appropriazione (che descrive di per sé la voglia di proprietà) la loro caratteristica di distinzione. “Una lotta delle classificazioni” come scrive Pierre Bourdieu (2001), relativa al modo in cui si individuano e marcano dei confini – che al caso in questione il territorio incarna bene nella sua fisicità – utili a ridefinire continuamente il rapporto tra sé e gli altri. Ciò significa che bisogna ripensare i termini del conflitto per collocarlo in un campo di analisi più complesso dove non basta “immaginare” composizioni sociali organicamente solidali e coese per rintracciarne all’interno le contese generate dalle disuguaglianze o dalle differenze. Il conflitto per lo spazio, anche quando questo è lo spazio apparentemente non soggetto a classificazioni e a gerarchie come lo spazio pubblico – che proprio in quanto “spazio di tutti” è il principale luogo dei conflitti – rappresenta in tutto la principale arena per la propria affermazione nel mondo sociale dove la separazione fra gruppi di individui è in fondo in stretta relazione con la voglia “immaginata” di coesione.