L’11 settembre con gli occhi degli altri

Quindici anni dopo, il fallimento della cosiddetta guerra al terrorismo è sotto gli occhi di tutti. Una nuova narrazione collettiva di Q Code, per raccontarli con gli occhi di chi ne ha pagato le conseguenze, per ripartire da una memoria condivisa

di Christian Elia

Domani, quindici anni dopo, saremo ancora prigionieri. Le Torri Gemelle, che per un ragazzo ormai alle superiori sono accadute prima della sua nascita, continuano a bruciare.

Continuiamo a precipitare, senza ancora toccare terra. E senza avere pace. I fogli, quei milioni di fogli, che le costruzioni sventrate sbuffavano fuori come un animale ferito e furioso, sono ancora la metafora della nostra angoscia.

Perché domani, quindici anni dopo, dell’organizzazione che progettò ed eseguì quell’attacco nel cuore simbolico degli Stati Uniti resta poco o nulla. Il suo leader, Osama bin Laden, è stato ucciso il 2 maggio 2011 in un ameno residence del Pakistan, venduto dai suoi stessi presunti protettori. Come capita a quelli che non contano più nulla.

La sua organizzazione ha lasciato il posto a formazioni ben più radicali, il Medio Oriente è esploso, milioni di persone sono morte o in fuga. E tutto questo è il risultato della reazione a quell’attacco. Perché oggi, dopo quindici anni, si può ritenere necessario il tempo per dirlo: dall’11 settembre 2001 a oggi sono state sbagliate tutte le mosse.

Dagli Stati Uniti, in primis, ma non meno dall’Europa. Che per certi versi è anche più ipocrita di Washington, lasciando che sia, lamentandosi un po’, ma non facendo nulla perché non accada.

L’Iraq e la Siria non esistono più, l’Afghanistan è sempre più diviso e insanguinato. Gli attentati, oggi, sono molti di più di allora, inafferrabili e imprevedibili come le cellule dello spontaneismo radicale. Interi stati sono senza controllo, terreno ideale per ogni genere di gruppi di fanatici.

Abbiamo accettato la compressione delle nostre libertà, abbiamo accettato il ritorno di pratiche barbare come la tortura, le esecuzioni extragiudiziali, la detenzione senza processo. Senza ottenere che un mondo più insicuro, più violento di prima.

Ecco perché, in fondo, siamo ancora prigionieri delle torri che bruciano. Ci manca il fiato, bloccati nel fumo, tra rampe di scale che non sappiamo in quale senso percorrere. E chi è fuori, sbaglia ogni volta che ci dice cosa fare.

La cosiddetta ‘guerra al terrorismo’ è un fallimento totale. Ogni analista, oggi, dovrebbe avere il sereno coraggio di ammetterlo.
Abbiamo accettato Guantanamo, Abu Ghraib, le renditions e tutto il resto. Abbiamo girato il volto, abbiamo cercato giustificazioni, abbiamo sperato in fini che giustificassero i mezzi.

Quel rimosso collettivo dell’Europa e dell’Occidente, oggi, dobbiamo avere il coraggio di guardarlo negli occhi. Perché possiamo anche aver smesso di pensare a quelle immagini drammatiche, ai pigiami arancioni, ai cappucci, ai cani contro uomini inermi.

Ma quelle immagini perseguitano noi nel disprezzo di una generazione che ha vissuto quello come uno stupro collettivo, una punizione di massa contro civili innocenti, una pioggia di fuoco degna di una rappresaglia nazista.

In questi quindici anni, senza ottenere quella ‘sicurezza’ che cercavamo, abbiamo perso ogni credibilità quando parliamo di diritti umani, democrazia e rispetto. E con questo dobbiamo fare tutti i conti. Come fanno i predicatori dell’odio, che da quindici anni – ogni giorno – trovano nuovo materiale per la loro propaganda.

E per farlo è necessaria una presa di coscienza collettiva che, come sempre, non può che partire dalla consapevolezza della storia degli altri. Riguardare quello che è stato con gli occhi di chi lo ha subito o l’ha percepito come suo.

Ecco perché, dopo Gerusalemme e le città, Q Code si mette in gioco con un’altra narrazione collettiva. Questa volta saranno le storie di coloro che, senza che nessuno riuscisse ad accusarli di nulla o a dimostrare la loro colpevolezza, hanno avuto la loro vita distrutta.
Ex detenuti di Guantanamo, vittime di renditions, prigionieri di Abu Ghraib e di tutti i non-luoghi della sospensione del diritto. Le racconteremo in prima persona, per provare a immaginare come ci si sente, per immaginare se fosse successo a noi.

Perché quando succede a noi, è differente. Ma solo quando si sente il dolore di qualcosa che non è accaduto a noi come proprio, si comincia a costruire un futuro differente.

Per farsi largo nel fumo, per trovare una via di fuga. E per spegnere finalmente il rogo dell’odio che arde da quindici anni e che, invece di placarsi, diventa sempre più spaventoso.