Morte di Rémi Fraisse: le responsabilità dello Stato

A Sivens, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2014, l’intervento dei gendarmi, completamente diverso da quello riportato nella versione ufficiale dei fatti, ha condotto alla morte di Rémi Fraisse, giovane attivista francese. I gendarmi, però, hanno agito secondo ordini ben precisi. Tutta una catena di istruzioni e consegne risale fino a Parigi, ai piani alti del governo francese. È quanto rivela la rivista francese Reporterre, nell’inchiesta tradotta in esclusiva da Q Code Magazine.

Prima puntata: Rémi Fraisse: salta fuori una squadra fantasma

Seconda puntata: Rémi Fraisse: come i gendarmi hanno cercato di sabotare l’inchiesta

 di Grégoire Souchay et Marine Vlahovic (Reporterre)
Traduzione per Q Code Mag: Valeria Nicoletti

Alla luce degli elementi presenti nel dossier sulla morte di Rémi Fraisse, è ormai impossibile negare le responsabilità dei gendarmi nella tragica vicenda e nascondere gli errori da parte delle forze dell’ordine, errori non riportati nella versione ufficiale dei fatti. A cominciare dalla presenza di una squadra fantasma, non menzionata nella descrizione del dispositivo di sicurezza dispiegato durante la notte del 25 ottobre.

Lo studio minuzioso delle 2.500 pagine dell’inchiesta corrobora le testimonianze dei manifestanti. Tutti sono d’accordo nell’attestare la presenza di una squadra, situata fuori dalla zona concessa alle forze dell’ordine. Questi stessi testimoni hanno subito minacce e tentativi di intimidazione, quando hanno cercato di informare gli investigatori di tali irregolarità. Un testimone ha persino avuto il telefono sotto controllo per qualche settimana. Quanto a Rémi Fraisse, invece, tutto è stato fatto per screditare la sua immagine e farlo passare per un attivista violento e la sua famiglia per “gente avida di vendetta”. Ma perché gli investigatori cercano di dissimulare i capi d’accusa delle forze dell’ordine?

La morte di Rémi Fraisse non è un semplice incidente e i fatti di Sivens non sono frutto del caso. Rispondono a una logica militare che trova la sua fonte nella definizione stessa di “mantenimento dell’ordine”. Questa espressione riunisce due realtà completamente diverse: MO (maintien de l’ordre), letteralmente mantenere l’ordine, e RO (rétablissement de l’ordre), ristabilire l’ordine. Un dettaglio non poco rilevante: come precisa una circolare del Ministero dell’Interno francese del 22 luglio 2011, “il mantenimento dell’ordine (MO) corrisponde a un impiego di forze dell’ordine di scarsa intensità, aventi l’obiettivo di conservare un ordine già presente”.

 

 

Solo che il 25 e il 26 ottobre 2014, a Sivens, le unità di gendarmi mobili sono impegnate sul campo per una missione di “RO rural”, ovvero ristabilire l’ordine in un ambiente rurale. Questo almeno è quanto indicato sul resoconto dell’intervento.

 

MO o RO: che cosa cambia? Tutto. “Ristabilire l’ordine (RO) corrisponde a un impegno di media o alta intensità, […] in contesti particolarmente degradati, necessitanti il ricorso a mezzi particolari”, precisa la medesima circolare. Innanzitutto, è concesso l’uso di armi da guerra, come le granate offensive. Ma anche di mezzi e strategie innovativi, come riporta un manuale di formazione professionale della gendarmeria, che Reporterre ha potuto consultare. Nel caso di un RO in ambiente rurale, si preconizza il ricorso a “iniziative decentralizzate a livello del comandante di ogni plotone, o a livello del capo gruppo, in collaborazione permanente con la gerarchia superiore presente”. Una “iniziativa decentralizzata” potrebbe, per esempio, corrispondere allo spiegamento di una squadra espressamente dedicata al fermo dei manifestanti…

 

 

Sivens, un campo di sperimentazione

Tali metodi hanno un’origine. Il ricercatore Mathieu Rigouste ha studiato i cambiamenti delle dottrine di messa in sicurezza nella Francia contemporanea. Secondo lui, il corpo di forze dell’ordine impiegato a Sivens, come oggi quello schierato in opposizione al movimento sociale contro la Legge sul lavoro, è un “modo di pensare, una matrice ideologica strutturata da e per favorire la guerra nella popolazione che s’ispira ai dispositivi usati in contesti militari e coloniali”. Insomma, il manifestante che protesta contro un progetto economico o una legge non è più considerato come un cittadino, ma come un “nemico interno” da neutralizzare attraverso una dimostrazione di forza. E questi metodi sono tutti da sperimentare.

 

Come si apprende dal dossier dell’inchiesta, a differenza degli altri squadroni di gendarmi inviati a Sivens, i militari de La Réole, coinvolti nella morte di Rémi Fraisse, inviano sistematicamente i loro resoconti al CNEFG, il Centro nazionale di formazione delle forze di gendarmeria. È qui, a Saint-Astier, in Dordogna, che si è formata l’élite dei gendarmi mobili francesi.

Si tratta di rapporti particolarmente precisi e dettagliati. Ancora prima del tragico fine settimana del 26 ottobre, questo squadrone è già intervenuto a più riprese sulla ZAD (zona da difendere, ndt). Nel corso dei due mesi che hanno preceduto la morte di Rémi Fraisse, gli interventi dei gendarmi erano frequenti e non poco violenti. Negli “insegnamenti tratti dalle operazioni”, si precisa in particolare “che una unità di forze mobile supplementare permetterebbe di manovrare più facilmente e in tutta sicurezza” mentre “i PSIG (Plotoni di sorveglianza e d’intervento della gendarmeria) effettuano un lavoro notevole ma non dispongono di un equipaggiamento adatto per il RO”. Indicazioni insolite in un contesto di scontri. Qual era allora la vera missione di questo squadrone a Sivens?

Il terreno, in ogni caso, sembra appropriato per la sperimentazione di nuove tecniche di messa in sicurezza. Nascosta in seno alla piccola valle del Tarn, la ZAD del Testet è al riparo dai radar mediatici. Inoltre, il numero degli occupanti è ben inferiore a quello di Notre-Dame-des-Landes. Infine, la zona è stata controllata di continuo dalle forze dell’ordine per due mesi. Il tempo necessario per testare i nuovi dispositivi direttamente sul campo. Ma se c’è stata una sperimentazione, questa ha avuto sicuramente l’avallo dei piani alti.

Il militare che ha lanciato la granata fatale non è una pecora nera. Non si può isolare la responsabilità di un solo gendarme, perché ognuno di loro agisce secondo ordini gerarchici, che intervengono per specificare cosa può e deve fare o, come minimo, per circoscrivere una certa libertà d’azione.

Il maresciallo J., principale implicato nella morte di Rémi Fraisse, precisa, nella sua testimonianza, che ha agito secondo gli ordini: “Abbiamo l’autorizzazione di utilizzare granate offensive dall’una del mattino […], autorizzazione che mi è stata ricordata dal maggiore A, cinque minuti prima”. Il maggiore A. è alla testa dei 15 gendarmi del plotone Charlie. Il suo superiore, il capitano J. comanda lo squadrone della gendarmeria mobile de La Réole e i suoi 72 gendarmi presente quella sera a Sivens (confrontare lo schema in basso, inserito nel rapporto della Commissione d’inchiesta parlamentare sul mantenimento dell’ordine, maggio 2015).

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A Sivens, i gendarmi mobili devono coordinarsi allo stesso tempo con i gendarmi locali e le forze di polizia, soprattutto nel pomeriggio del 25 ottobre. Tutte queste unità rispondono a un’unica unità: il gruppo tattico di gendarmeria (GTG), capitanato dal comandante L. È lui che decide di autorizzare o meno l’impiego di armi come le granate offensive. Allora perché un solo gendarme è accusato mentre è la gerarchia tutta che autorizza l’uso di granate mortali? I giudici incaricati dell’inchiesta non hanno ancora deliberato, per ora hanno messo il maresciallo J. sotto lo statuto di testimone di “omicidio involontario”. Una decisione che potrebbe portare a una messa in discussione più generale delle forze dell’ordine. Ma i veri responsabili non sono ancora stati indagati.

Testimoni esiliati in Nuova Caledonia
A Sivens, l’operazione di messa in sicurezza obbedisce, da una parte, a una autorità civile e, dall’altra, alla divisione locale della gendarmeria. Il gruppo tattico di gendarmeria impiegato risponde a sua volta alla gendarmeria del Tarn, che fa capo al luogotenente-colonnello Sylvain Rénier. Rénier è presente durante la giornata del 25 ottobre, ma abbandona il cantiere all’imbrunire e torna solo verso le 3 del mattino, dopo la morte di Rémi Fraisse.

Rénier, formato alla scuola speciale militare di Saint-Cyr, è arrivato nel Tarn nell’agosto del 2014, prima dell’inizio dei lavori della diga. Secondo una fonte vicina alla gendarmeria, avrebbe “fatto pressione” alle truppe locali per “evacuare il prima possibile gli occupanti della ZAD”. Il suo arrivo corrisponde a un picco di violenze perpetrate dalle forze dell’ordine ai danni dei manifestanti tra settembre e ottobre. Poco apprezzato dai gendarmi locali, secondo la stessa fonte, “Sylvain Rénier è stato accusato della morte di Rémi Fraisse, ma non è mai stato destituito. Sarebbe stato come constatare un fallimento”.

Il principale responsabile resta il rappresentante dello Stato nel dipartimento del Tarn: il prefetto Thierry Gentilhomme. Ex alto funzionario al ministero degli Interni, arriva nel Tarn a fine agosto 2014. Un ultimo arrivato, che conosce poco la zona.

Il suo direttore di gabinetto, Yves Mathis, gestisce il dossier dall’inizio. È sua la firma, con la delegazione del prefetto, per numerose richieste ufficiali di invio di forze mobili dal 10 al 26 ottobre e poi dal 27 al 31 ottobre. Qualche giorno prima della morte di Rémi Fraisse, la prefettura del Tarn, i deputati Cécile Duflot e Noël Mamère, e numerosi oppositori locali al progetto della diga si incontrano per discutere dell’andamento della protesta. Uno dei partecipanti, Ben Lefetey, portavoce del Collectif Testet, ci descrive una scena sorprendente: “Yves Mathis prende la parola per annunciare che la prefettura sospetta delle convergenze di movimenti sulla ZAD di Sivens. Quando gli chiedo spiegazioni, mi risponde, sorridendo: ‘Pensiamo ci siano delle vicinanze con i movimenti islamisti’”. Un’analisi fondata sull’esistenza di un luogo nominato “Gazad”, sul ritrovamento di scritte e slogan di sostegno alla causa palestinese e all’uso ripetuto di espressioni in arabo davanti alle cariche della polizia. Ma, per il testimone di questa scena, “Yves Mathis parlava seriamente”. Davanti alle proteste dei deputati e dei manifestanti, il prefetto ha precisato che “si tratta solo di ipotesi”.

La notte del dramma, non c’è nessun rappresentante dello Stato a Sivens. Yves Mathis, direttore del gabinetto del prefetto, gestisce gli eventi a distanza, attraverso il telefono. Mathis, informato del giro di vite delle forze dell’ordine intorno alle 21h30, “evoca la possibilità di un’interruzione delle operazioni se la sicurezza dei gendarmi è messa in causa. Il comandante del gruppo richiede un ordine scritto via SMS, che non riceverà”. Sul ruolo del prefetto o del suo direttore di gabinetto, non figura nient’altro nel dossier. Hanno tutti e due rifiutato di pronunciarsi. Peggio ancora, Yves Mathis da allora è stato trasferito come direttore del gabinetto del delegato del governo, in Nuova Caledonia. Lontano, tanto lontano dai giudici e dall’inchiesta sulla morte di Rémi Fraisse, nella quale, come diretto superiore, non è mai stato ascoltato.

A Parigi, in ogni caso, si seguono gli avvenimenti di quel fine settimana con molta attenzione. Il generale Denis Favier, direttore della Direzione generale della gendarmeria nazionale (DGGN) invia numerosi messaggi ai responsabili presenti a Sivens. Diversi media hanno tracciato un ritratto lusinghiero di questo militare “vicino ai suoi uomini”, che si sono sempre espressi benissimo riguardo a questo “eroe della gendarmeria”. Favier è stato anche consigliere della gendarmeria da giugno 2012 a aprile 2013 con Manuel Valls allora ministro dell’Interno. Ed è stato di recente nominato “responsabile della sicurezza” per il gruppo Total.

Ma torniamo all’autunno del 2014. Denis Favier è ancora alla testa della Direzione generale della gendarmeria nazionale (DGGN) e risponde a Bernard Cazeneuve, che ha rimpiazzato Valls alla direzione del ministero dell’Interno. Diventato primo ministro, Valls dichiara guerra ai manifestanti di Sivens. Non intende assistere al nascere di una seconda Notre-Dame-des-Landes nel sud-ovest della Francia. Inoltre, Valls ha da sempre appoggiato il progetto della diga, in particolare durante il discorso del 6 settembre 2014 davanti al congresso dei giovani agricoltori in Gironda, dove afferma aver “resistito per la diga di Sivens […]. La mia politica vuole sbloccare questo paese”.

 

Cosa fa la giustizia?
Da allora, resta un interrogativo: il mantenimento dell’ordine a Sivens è stato direttamente pilotato dal Primo ministro e dai suoi uomini, tra cui il direttore generale della gendarmeria nazionale, in collaborazione con il Ministero dell’Interno?

L’inchiesta sulla morte di Rémi Fraisse non è di certo in dirittura d’arrivo. Nonostante mesi d’istruttoria, restano ancora tante domande senza risposta sul decesso di un ragazzo colpevole solo d’aver partecipato a un raduno militante il 25 ottobre 2014, nel Tarn.

Lo scorso 1° luglio, il tribunale amministrativo di Tolosa si è espresso sul progetto della diga di Sivens. La giustizia ha annullato tre punti fondamentali tra cui la dichiarazione di utilità pubblica del progetto. I lavori iniziati erano totalmente illegali. Rémi Fraisse è stato ucciso sul sito di un progetto illegale. La giustizia penale ne terrà conto?