Dieci prugne ai fascisti

Intervista alla scrittrice italo – bosniaca Elvira Mujčić sul suo ultimo libro

di Gabriella Grasso

In un racconto di guerra e di esilio l’ironia va maneggiata con cautela. Se ci si riesce, conferendo leggerezza alla narrazione senza toglierle nemmeno un grammo di profondità, allora si ottiene un risultato straordinario: raccontare l’irraccontabile, onorando allo stesso tempo il dolore per la morte e la gioia per la vita.

È ciò che ha fatto la scrittrice italo-bosniaca Elvira Mujčić nel suo Dieci prugne ai fascisti (Elliot, euro 16). La storia è quella di una famiglia bosniaca arrivata in Italia negli anni Novanta a causa della guerra nella ex Jugoslavia e del massacro di Srebrenica, che per ottemperare alla volontà della nonna di essere sepolta nella sua terra, affronta un viaggio (a tratti decisamente surreale) verso la Bosnia.

Per i tre fratelli Candido, Zeligo e Lania si tratta di una migrazione al contrario, un’occasione per fare i conti con le dinamiche familiari e riconnettersi con le proprie radici.

L’ironia è una cifra stilistica nuova nella sua produzione letteraria, perché questa scelta?
Uso da sempre l’ironia nella vita, ma finora non avevo mai avuto il coraggio di farlo narrativamente, perché parlando di guerra temevo di non riuscire a trovare il giusto equilibrio. Con l’età e con la distanza temporale rispetto alle vicende della ex Jugoslavia, ho capito che potevo provare a trovare una grazia tra la tragedia e la comicità della vita. La mia famiglia, poi, è molto simile a quella che racconto nel romanzo, quindi non è stato difficile inserire nella narrazione dialoghi divertenti, seppure sempre misurati e rispettosi.

Il tono ironico aiuta anche a rendere più facile il racconto del dolore?
Ci sono diversi modi per reagire a un tragedia: si può vivere nel dolore per tutta la vita, oppure si può sfuggirlo. Ovviamente c’è una terza via, quella dell’elaborazione, che è la più intelligente ma anche la più difficile, perché spesso non si possiedono gli strumenti. Nel romanzo io volevo raccontare come questa famiglia reagisce al dolore, dal quale si sente continuamente attratta e respinta. E spesso la chiave per respingere qualcosa che fa male è proprio l’ironia: non vogliamo dimenticare, ma per poter ricordare abbiamo bisogno di ridere. Nella risata c’è meno retorica, e per me che ho vissuto sulla pelle i fatti di cui narro, la memoria non può essere retorica. Parlando del genocidio di Srebrenica nel solito modo, ovvero ricordandone gli ottomila morti, si affronta la tragedia come un blocco unico, focalizzandosi sui numeri e dimenticando le storie dei singoli. Il registro narrativo di questo romanzo mi sembrava il giusto modo non solo per raccontare una famiglia che scappa dalla sofferenza, ma anche per mantenere viva la memoria e tornarci sopra con una risata, riuscendo in questo modo ad arrivare al nucleo profondo del dolore.

Candido dice alla sorella che occorre parlare di più di ciò che è successo, perché: «La tragedia che ci ha segnati è collettiva, e quindi anche la liberazione da essa dev’esserlo». Lania non è d’accordo.
Sull’argomento c’è un continuo dibattito, perché il genocidio è qualcosa di collettivo, nel quale tu perdi la tua dimensione intima, sei un numero in mezzo ad altri. Questo per me è sempre stato difficile da accettare, per un bisogno umano di ricavarmi la mia storia. A Srebrenica i morti sono finiti nelle fosse comuni, che già nella definizione richiamano l’assenza, anche nella morte, di uno spazio per l’individualità. In mezzo a questa tragedia collettiva io volevo scavare e tirare fuori qualcosa di personale che identificasse la tragedia come mia. In questo la scrittura aiuta, perché ti consente di mettere in risalto una singola storia, di scattare una fotografia delle persone che non ci sono più – come mio padre e mio zio – cristallizzandole in maniera positiva.

Lei e la sua famiglia siete fuggiti da Srebrenica trovando prima rifugio clandestinamente in Croazia, poi in Italia grazie a un programma di accoglienza. Di suo padre e di suo zio non avete mai più avuto notizie. La scrittura per lei è anche un modo per esorcizzare e trovare un senso a ciò che è avvenuto?
Il primo libro che ho scritto mi è servito in effetti a tirare fuori le cose che avevo dentro. Ma in realtà scrivere non mi serve a esorcizzare, anche perché più scavo, più apro porte e trovo cose che mi hanno ferito. Attraverso questo libro volevo più che altro operare una sorta di risanamento. Non aver potuto dare sepoltura ai propri cari perché i corpi non sono mai stati trovati è una ferita aperta in molte famiglie bosniache, inclusa la mia. La morte diventa un tabù impossibile da superare in assenza di un corpo da seppellire. Allora ho voluto inventarmi una storia in cui una sepoltura fosse possibile: quella della nonna. È una vicenda inventata perché in realtà mia nonna è viva e non sa nemmeno che nel libro l’ho fatta morire, perché pur vivendo in Italia da decenni, non ha mai imparato la lingua! Ho creato una favola, nella quale ho inserito anche le figure immaginarie dello zio e del nonno, perché la maggior parte degli uomini di Srebrenica è stata uccisa e oggi gli unici maschi sono quelli che all’epoca erano bambini e che sono cresciuti senza figure maschili di riferimento. La gioia che i protagonisti provano in occasione dell’imminente funerale della nonna si comprende solo conoscendo il significato simbolico che la sepoltura ha per tutti loro.

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Di recente ho visto un cortometraggio del regista senegalese Aliou Sow, Terremere, che racconta il viaggio intrapreso da un giovane mauritano immigrato in Francia per seppellire il fratello nel Paese di origine. Nel libro Death is Hard Labour, non ancora tradotto in italiano, lo scrittore siriano Khaled Khalifa racconta di una famiglia che attraversa la Siria in guerra per portare la salma del padre nel villaggio natale, dove lui ha chiesto di essere sepolto. Nel suo romanzo, la nonna fa la stessa richiesta. È come se si trattasse un estremo atto di volontà da parte degli esuli: almeno da morti, ridateci la nostra identità.
Sì, è come se si volesse esercitare almeno sulla morte quel controllo che non è stato possibile avere sulla vita. Dopo il genocidio pochissime persone sono tornate a Srebrenica, perché la città è rimasta pietrificata nella sua tragedia. Quindi la richiesta della nonna equivale a dire: se non posso più vivere a casa mia, almeno fatemici tornare da morta. Tempo fa, nell’Aquila post-terremoto, ho partecipato a un convegno sullo spaesamento ed è pazzesco come ci ritrovassimo in tutto: puoi aver vissuto una guerra o un terremoto, ma le dinamiche psicologiche dello spaesamento sono le stesse. Le persone anziane, per esempio, che non abbandonerebbero mai la propria terra e lo fanno solo perché costrette dai figli, non prendono nemmeno in considerazione l’idea di sentirsi a casa in un nuovo luogo. Mia nonna, per esempio, non ha mai imparato l’italiano e parla di Srebrenica come dell’unico posto esistente. Per lei e altri come lei, l’esilio è una vacanza forzata, da vivere aspettando di poter tornare finalmente a casa: almeno da morti.

Lo spaesamento, la mancanza di un senso di appartenenza, sono sentimenti spesso presenti negli esuli, a maggior ragione se provengono da uno stato che è stata cancellato dagli atlanti. Quali sono le ripercussioni emotive dell’appartenere a un’identità nazionale che non esiste più?
Il problema principale di chi viene dalla ex Jugoslavia è che prima ancora di espatriare ha perso il proprio luogo di appartenenza. Parliamo di un Paese in cui c’era stata una vera e propria costruzione dell’identità nazionale. In prima elementare noi bambini facevamo il giuramento e per i genitori era un momento importantissimo, perché diventavamo piccoli pionieri, cittadini ufficiali di un Paese che avremmo protetto. Parlavamo tutti la stessa lingua, il serbo-croato. Crescevamo pieni d’orgoglio per la nostra identità e per essere riusciti a difenderci durante la Seconda Guerra Mondiale: la retorica collettiva era vissuta molto intensamente anche a livello individuale. Poi, da un momento all’altro, non eravamo più jugoslavi e non avevamo più una lingua comune. Io ancora oggi quando dico che la mia lingua è il bosniaco ho l’impressione di togliermi qualcosa, di rimpicciolirmi. Allo stesso modo, quando mi chiedono di dove sono, non rispondo “bosniaca”, ma “della ex Jugoslavia”. In questo senso la burocrazia italiana mi viene incontro, perché il comune di Roma non ha ancora inserito nei propri registri le nuove entità nazionali, quindi sulla mia carta di identità io risulto nata “nella ex Jugoslavia”. Un’inefficienza che rivela un dato romantico ma anche di verità: perché io sono nata in quel Paese, anche se ora non c’è più. Il punto è che quando non sai rispondere alla domanda: “Dove sei nato?”, perché io sono nata in quella che oggi è la Serbia anche se sono bosniaca; quando vieni da un Paese amato ma non sai più orientarti nella tua appartenenza, perché durante una guerra civile sei stata costretta a sceglierne una e a guardare i tuoi compatrioti come nemici, il carico emotivo è pesante. Una delle cose che mi ha più ferito durante la nostra fuga da Srebrenica è stato dover passare la frontiera con la Croazia di notte, clandestinamente, quando fino a pochi mesi prima quella era la meta delle nostre vacanze al mare. All’improvviso mi sono resa conto che i confini entro i quali potevamo muoverci si erano ristretti. Per la generazione di mia madre, poi, a tutto questo si aggiunge la frustrazione del fallimento: perché loro avevano provato a costruire un Paese migliore, in cui diverse culture potessero convivere pacificamente, e lo hanno visto crollare barbaramente.

Zeligo comunica ai fratelli che intende fermarsi a vivere in Bosnia, Paese che praticamente non conosce perché è cresciuto in Italia. A Lania che gli chiede spiegazioni risponde: «Perché mi sento che giro e rigiro, ma non trovo una ragione e non sto bene. Non mi sento a casa in nessun luogo». Quando si è esuli, è possibile mai trovare una casa e un’identità?
Un’identità spezzata è comunque un’identità. Io mi sento ancora molto jugoslava, ma anche bosniaca e italiana. Una cosa non esclude l’altra. Per tanti anni ho pensato fosse necessario scegliere. Durante l’adolescenza credevo che per integrarmi in Italia dovessi abbandonare ciò che aveva a che fare con il mio Paese: in un’età in cui ti è insopportabile persino avere le scarpe diverse da quelle dei tuoi coetanei, essere bilingue ti sembra una punizione! La complessità ti appare come un handicap anche perché la società la fa apparire come un problema e non una ricchezza. Ma certamente puoi costruirti una tua identità se hai la fortuna, come l’ho avuta io, di incontrare persone che valorizzino ciò che tu sei: non una una tabula rasa su cui costruire l’italianità, ma una persona con un bagaglio identitario che può arricchirsi. Nel libro i tre fratelli compiono una migrazione al contrario perché c’è sempre un momento in cui si torna indietro per trovare il proprio posto in quel passato che è stato troncato prima che potesse diventare futuro. Tanti migranti, però, quando tornano a “casa” non trovano quello che cercano perché l’aspettativa verso ciò che si sono lasciati alle spalle è troppo grande. È un po’ così anche per Zeligo, che essendo andato via da bambino non ha ricordi della Bosnia: la sua è una nostalgia del non vissuto, quindi ancora più complicata da gestire perché totalmente immaginaria. È un abbaglio, ma anche il motivo per cui non si trova a casa da nessuna parte. Forse tornare è l’unico modo per chiudere il cerchio.

In un bar di Zagabria i tre fratelli vengono scambiati per turisti e Lania riflette: «Era liberatorio fare finta di essere stranieri e non capire nulla di quel luogo e di quella gente. Non appartenere, anzi, vincere la voglia e soprattutto il bisogno di appartenere». Sembra quasi il bisogno di una tregua dalla richiesta continua di dimostrare un’identità.
Proprio così. Anche perché quando torni nella ex Jugoslavia ti confronti sempre con una certa diffidenza: le persone cercano di capire chi sei, qual è la tua religione. Allora è liberatorio poter far finta di non conoscere nulla della complessità del posto. E anche fingere di non essere di Srebrenica, perché quando riveli la tua provenienza le reazioni sono sempre pietrificate: c’è chi si sente in colpa per non aver fatto niente; chi magari segretamente condivide quanto è successo; persino chi non crede che il genocidio sia avvenuto, perché sulla questione c’è un certo revisionismo. E allora è liberatorio per una volta potersi dire: ho l’accento italiano, sembro straniera, non voglio entrare in queste dinamiche, mi prendo una pausa.

Quando un Paese si disgrega ci si può anche trovare in situazioni surreali per colpa della burocrazia. Per esempio, Lania e sua madre diventano “comunitarie” mentre Zeligo e Candido no. E alla stazione di Trieste i tre fratelli incontrano un uomo che, avendo come unico documento un passaporto jugoslavo, non può andare da nessuna parte e vive sulla frontiera.
Sono molto interessata alle questioni burocratiche. Quando la Jugoslavia si è disgregata, il primo problema che ho avuto è stato quello di reperire il mio certificato di nascita. Sono nata per caso a 20 km da Srebrenica perché a mia madre si ruppero le acque prima di arrivare a casa. Poi quel luogo è diventato Serbia e per me, bosniaca e musulmana, recuperare il certificato necessario per ottenere il passaporto non è stato facile durante la guerra. È stato il mio primo contatto con la burocrazia. Poi c’è stato il periodo di clandestinità in Croazia, l’ottenimento del permesso di soggiorno in Italia, la cittadinanza conseguita all’inizio solo da me e mia madre e non dai miei fratelli. Insomma, a partire dalla guerra mi sono resa conto che un documento è un pezzo di carta che ti può salvare la vita ed è più importante di qualsiasi altra cosa: la burocrazia ha molto a che fare con le nostre vite, anche se non ci sembra.

Il titolo del romanzo fa riferimento a una storia che la nonna (quella del romanzo, ma anche la sua) amava raccontare e che l’aveva vista protagonista da bambina, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ha anche un significato politico?
No, affatto. Avevo scritto il racconto sulla storia delle prugne ai fascisti prima di inserirlo nel libro e l’avevo fatto come reazione a una serie di convegni sulla memoria a cui venivo invitata nel ruolo di testimone. Il modo in cui si parlava della memoria era sempre retorico, intellettualistico, noioso. Mi sembrava inoltre che le persone fossero interessate solo a conoscere gli aspetti pratici della guerra: quante persone erano morte e come. Quando mia nonna ricordava questa sua piccola storia, invece, non voleva essere interrotta con domande su chi erano i fascisti, quanti erano, quante persone erano morte in guerra. A lei tutto questo non interessava affatto: il suo era solo il racconto di come da bambina, portando delle prugne ai soldati italiani di stanza vicino al suo villaggio, avesse imparato a contare fino a dieci nella loro lingua. Dentro la Storia ci sono tante sfumature e storie più piccole, che bisogna avere la leggerezza di ascoltare.

Tra il soldato italiano e la bambina bosniaca avviene un scambio di parole: pensando al suo precedente libro La lingua di Ana (storia di una ragazza moldava che al suo arrivo in Italia reagisce alla sovrapposizione tra lingua madre e adottiva perdendo momentaneamente la capacità di esprimersi, ndr) non mi stupisce che anche qui lei abbia inserito una riflessione sulla lingua…
In questo romanzo ho mescolato l’italiano con parole bosniache e con turcismi che mia nonna usa e di cui a noi spesso sfugge il significato. Mi piace giocare con le parole migranti, che dalla Turchia sono arrivate in Bosnia e poi sono state portate in Italia dalla nonna. Mi piace l’idea che le parole camminino e siano difficili da fermare. In Serbia hanno provato a ripulire la lingua dai turcismi, poi si sono accorti che non avrebbero saputo come chiamare i Balcani, perché la parola deriva dal turco e vuol dire montagna; non avrebbero potuto più bere il tè, perché anche la parola chai arriva dalla Turchia. La cosa bella della lingua è questa: che una volta migrata non te ne puoi più liberare, perché altrimenti non sapresti nemmeno come bere un tè! Dovresti inventare una nuova parola, ma quella esistente è ormai così piena di significato e di vita che non puoi farne a meno. Al contrario delle persone, che quando sono troppo meticce suscitano diffidenza, il meticciato della lingua piace, tanto che ci divertiamo a studiarne l’etimologia. Quella delle parole è una migrazione felice.