La Giordania al voto

Tanti i nodi da sciogliere di questa tornata elettorale: dall’astensione ai problemi di rappresentanza

di Irene Negri da Amman

20 settembre 2016 – un martedì assolato come tanti, se non per un particolare: nelle polverose strade del Regno Hashemita di Giordania ieri erano aperti solo i ristoranti. Nessun bambino nelle scuole, nessuna impresa aperta. Questa la strategia di Re Abdullah II per spronare al voto in occasione delle elezioni nazionali per il 18esimo rinnovo della camera dei deputati del parlamento.

Ha funzionato? Secondo un sondaggio pre-elettorale condotto dal Centro per gli Studi Strategici dell’Università della Giordania, solo il 38% della popolazione aveva intenzione di recarsi alle urne, in netto contrasto con il 56% delle ultime elezioni nel gennaio 2013. Un dato confermato, anzi nemmeno raggiunto, dall’effettiva affluenza registrata: sono 1,492,400 gli elettori presentatisi tra le 7 e le 21 di ieri, il 36% dei 4 milioni aventi diritto, di cui oltre la metà è donna e i due terzi hanno meno di 30 anni.

Svariate le motivazioni degli astenuti. “È tutto inutile: l’abbiamo già visto e rivisto in passato. Il governo fa quello che vuole indipendentemente dalle scelte del popolo e gli eletti dimenticano in fretta le loro promesse”, commentano disillusi alcuni studenti universitari; “Non votare significa esprimere il proprio dissenso, mostrare il proprio scontento per un sistema che non funziona. La maggior parte dei candidati si occupa esclusivamente del proprio interesse, della sua famiglia e tribù… Di decenti ce n’erano sì e no cinque!”.

Vero è che chi invece vota tende a prediligere parenti o conoscenti dalle comuni origini tribali a prescindere dalle loro competenze, e che dei 1252 candidati a queste elezioni soltanto il 6% era effettivamente affiliato a un partito politico. L’idea, particolarmente diffusa nelle zone rurali, è che ci si può fidare più del legame di sangue, delle radici comunitarie e dell’identità culturale che di un programma politico che “finisce inevitabilmente per peggiorare la situazione” – ribatte una ragazza.

Novità di quest’anno sono state però le riforme elettorali introdotte proprio per contrastare il nepotismo e garantire maggiore trasparenza. Per la prima volta dal 1989, ieri si è votato secondo un sistema di rappresentazione proporzionale che concede ad ogni cittadino un numero di voti pari alla quantità di seggi parlamentari allocati al suo distretto.

Voti da utilizzarsi per scegliere una delle 226 liste in lizza e candidati all’interno della stessa, eliminando così -almeno in linea teorica- il rischio del voto personalizzato sparso che aveva contraddistinto le ultime sei tornate. La complessità della riforma potrebbe in realtà essere stata ulteriore complice dello scarso interesse dei giordani alla questione e, chissà, addirittura causa di numerose invalidazioni di schede mal compilate.

Gli oppositori, inoltre, lamentano i continuati limiti alla rappresentanza del 70% di giordani di origine palestinese. 15 su 130 i seggi assegnati alle quote rosa.

Da un lato, questa desertica monarchia parlamentare tenacemente impegnata nella lotta contro l’ISIS pare compiere passi significativi per assicurare elezioni sempre più libere, giuste e trasparenti e dimostrare un’apertura internazionale.

Fino a poche ore fa 108 fra parlamentari, diplomatici e osservatori a breve termine provenienti dai 28 paesi UE e da Norvegia, Svizzera e Canada stavano supervisionando le elezioni in ogni distretto del Paese alla guida di Jo Leinen, membro tedesco del parlamento europeo, al fine di garantire il corretto andamento di votazioni, conteggi e tabulazioni dei risultati (questi ultimi tuttora in corso). Giovedì uscirà il loro primo report; entro due mesi le osservazioni finali con tanto di raccomandazioni per le elezioni future.

Positiva anche la diversità dei candidati , uomini (1000) e donne (252) di affiliazione musulmana, cristiana e circassa; e francamente ammirevole la stabilità mantenuta dal Regno nonostante i devastanti conflitti dei vicini di casa Siria e Iraq, l’altissimo numero di rifugiati che ospita -il più alto al mondo in proporzione alla popolazione locale- e la crisi economica.

D’altro canto, l’Istituto Internazionale Repubblicano riporta che un impressionante 87% dei giordani maggiorenni pensa che negli ultimi tre anni il parlamento uscente non abbia prodotto nemmeno un cambiamento positivo; fonti più o meno ufficiali riferiscono di una disoccupazione tra il 14 e il 30%, la crescita cala di anno in anno, il carovita non perdona e nel frattempo vari politici e Primi Ministri stessi sono stati denunciati dal popolo infuriato per abuso d’ufficio e corruzione.

Il timore è che la rabbia spinga i cittadini nelle braccia dell’estremismo religioso, specialmente in vista della rinnovata partecipazione politica della Fratellanza Musulmana – nonostante il governo abbia già provveduto a fomentare divisioni interne al gruppo, confiscarne alcune proprietà e ordinare la defezione dei suoi membri più estremisti per condurre la Fratellanza su una linea quanto più possibile moderata.

Ma cosa vogliono i giordani? “Se fossi un politico io, mi occuperei innanzitutto del problema del traffico e dei trasporti pubblici ad Amman; adeguerei gli stipendi al costo della vita, migliorerei la qualità dell’istruzione pubblica e della sanità, ridurrei corruzione e nepotismo e affronterei il problema dell’emarginazione dei palestinesi”, risponde senza esitazioni Tareq, programmatore di 25 anni. È raro trovare qualcuno che sia in disaccordo con lui: al massimo c’è chi ha perso la speranza e non vuole più sentir parlare di politica, da nessuno, mai.

E poi ci sono coalizioni giovanili come Shaghaf, che in arabo significa “passione” ma è anche l’acronimo di Giovani per un Domani Attivo. Formatasi a giugno, in sole due settimane l’associazione ha visto i suoi 60 attivisti trasformarsi in 4800, tra cui quasi la metà donne e molti provenienti da cittadine relativamente povere fuori Amman, a rappresentanza di ogni angolo del Paese.

Lo scopo non è tanto dimostrare in piazza, quanto promuovere il sano dibattito politico, fare luce sui limiti delle istituzioni della democrazia giordana e tenere traccia delle promesse fatte dai candidati durante la campagna elettorale per poi verificarne l’operato tramite un database aperto al pubblico.
In attesa dei risultati ufficiali, non resta che augurare al popolo giordano che nel corso dei prossimi quattro anni i fortunati sotto esame sappiano meritarsi la promozione.