Vila Autòdromo: la memoria che non si rimuove

Superata la saìda dell’aeroporto internazionale di Rio de Janeiro, l’aria del mattino è fresca, immobile, a differenza del traffico, già congestionato alle prime luci dell’alba, un mare impaziente di automobilisti che va incontro a una nuova giornata di lavoro.

Testo e foto di Jessica Cimino

Salta immediatamente agli occhi l’agglomerato di mattoni e fili elettrici a vista sospesi tra i tetti in lamiera di Marè, la prima favela in cui i viaggiatori s’imbattono nel percorso che va dall’aeroporto verso il cuore della città. É la più grande di Rio, per numero di abitanti. Una parte di essa è nascosta da una lunga muraglia semitrasparente, che ne oscura la vista.

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“Non vogliamo parlarne, non vogliamo che il tuo primo ricordo sia quest’ammasso confuso di catapecchie, passa avanti e aspetta di vedere le meraviglie che ti attendono a breve”: sembra essere questo il messaggio, per nulla sottile, che la città comunica ai suoi visitatori. Ma ottiene l’effetto contrario; quella barriera cattura l’attenzione più di quanto non farebbe se non fosse mai stata eretta. L’auspicio è che il muro riesca non solo a celare cosa succede al di là dei suoi confini, ma anche ad assorbire, silenziare, le proteste dei suoi residenti, costretti da un anno a questa parte ad abbandonare le proprie case e a vederle demolite per motivi di ordine pubblico, connessi alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi di Rio.

Stando a quanto reso noto dal dossier del Popular Committe on the World Cup and Olympics pubblicato quest’anno, sono 20mila le famiglie che tra il 2009 e il 2015 hanno subìto operazioni di forced eviction, o di rimozione forzata. Ovunque, dalle strade dei ricchi quartieri di Ipanema , Flamengo e Leblon così come sottoterra, lungo i muri della metropolitana, svetta con colori sgargianti il motto legato all’evento: “a new world”. Eppure, le forced eviction sono una forma di intervento statale che di nuovo ha ben poco; si riaffacciano prepotentemente passando dalla porta degli eventi passati. Già con i Pan American Games del 2007 e la Coppa del Mondo nel 2014, salgono a più di 77mila il numero di famiglie minacciate di rimozione forzata o direttamente rimosse dalle proprie abitazioni.

Gli sgomberi sono stati di volta in volta giustificati dalle autorità di Rio sulla base della realizzazione di grandi opere urbane, tutte considerate di “preminente interesse pubblico”.

Sono classificabili in cinque gruppi, quattro delle quali direttamente legate alle Olimpiadi: la costruzione della BTR TransOlìmpica, una complessa rete stradale che collega undici aree di Rio, voluta allo scopo di migliorare la circolazione del traffico durante l’evento sportivo ; i lavori di espansione dell’aeroporto internazionale Tom Jobim; l’installazione di nuove strutture sportive; il rinnovamento dell’area del porto.

Sebbene in apparenza lo scopo sia stato solo quello di rendere la città a misura di Olimpiadi- potenziando le infrastrutture e valorizzando alcune aree della città – una parte di queste opere ha coinvolto zone abitative che negli anni hanno aumentato il loro valore di mercato. Ciò ha risvegliato l’interesse delle società immobiliari, che hanno visto in quell’aumento un’opportunità di business, attraverso la costruzione di nuovi complessi residenziali. Questo si è tradotto in vere e proprie operazioni di “pulizia sociale” e di ricollocamento dei nuclei familiari presenti in loco, per la maggioranza a basso reddito, diversamente dalle famiglie che presto prenderanno il loro posto all’interno dei nuovi condomini.

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La lotta di Vila Autòdromo: la memoria che non si rimuove
Il paradosso delle rimozioni forzate è che tutto si svolge formalmente “under the bless of the law”, mi spiega Renata Oliveira, avvocato internazionalista e ricercatrice presso l’organizzazione no-profit Front Line Defenders. I gruppi rimossi vengono infatti avvisati della necessità di abbattere le loro case, viene offerto loro un indennizzo o in alternativa la possibilità di essere ricollocati in un altro domicilio. La violazione del diritto all’abitazione tuttavia non va ricercata nel mancato rispetto delle formalità previste dalla legge: emerge invece dalle modalità con cui le singole famiglie vengono spinte a scegliere per l’una o l’altra soluzione. Emerge quando le rimozioni vengono approvate senza una consultazione pubblica con la comunità che si intende rimuovere; quando le nuove abitazioni si trovano a decine di chilometri da quelle abbattute; o quando restano sconosciuti i motivi per cui le case vengono coattivamente demolite dai bulldozer. Insieme all’organizzazione, Renata ha lavorato a un documentario che raccoglie le testimonianze di cinque attivisti e delle minacce da questi subite, e del loro intensificarsi nel corso dei giochi olimpici. Si parla di uccisioni a opera della polizia di Rio, di scontri a fuoco aperto in una delle favelas più violente, quella di Complexo do Alemão, e dell’impatto che le olimpiadi hanno avuto sulla vita della popolazione carioca. Ma anche di forced eviction, e di una comunità in particolare, quella di Vila Autòdromo, la cui esistenza è stata a lungo osteggiata dal governo municipale, un braccio di ferro durato ventennio tra i suoi 3mila abitanti e le amministrazioni locali succedutesi negli anni, che ciclicamente hanno tentato di demolire le loro case, le scuole, i loro luoghi di lavoro.

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Dopo due decenni di battaglie, la scelta ricaduta su Rio de Janeiro come meta ospite dell’evento sportivo, ha messo un punto alla sopravvivenza di questa numerosa comunità, così com’era in origine: rasa al suolo, al suo posto ora sorge il Parco Olimpico, all’interno del quale si sono appena svolte nove competizioni paralimpiche , un parcheggio e un lussuoso complesso residenziale i cui appartamenti, a giochi olimpici conclusi, verranno messi in vendita.

Delle 600 famiglie che un tempo rappresentavano il simbolo e il cuore di Vila Autòdromo, solo venti di esse hanno avuto la forza di rimanere e opporsi fino all’ultimo alle rimozioni forzate. Resistere, non per ottenere dalle autorità competenti un indennizzo o un’abitazione migliore, ma per impedire che la speculazione immobiliare cancellasse la storia di una comunità nata più di cinquant’anni fa.

Secondo le stime dell’Institute of Economic Research Foundation, nel 2015 le proprietà immobilari a Rio de Janeiro non solo hanno raggiunto i costi per metro quadro più elevati del Paese; ma, se nello specifico si analizza l’incremento del valore degli immobili nella zona del Parco Olimpico, si vedrà che questo è aumentato del 237 per cento. Quasi il doppio rispetto ai vicini distretti di Barra da Tijuca e Recreio.

Per raggiungere Vila Autòdromo, bisogna lasciarsi alle spalle la cima del Pão de Açucar e andare verso ovest, a circa un’ora di macchina dal viale di mosaico che costeggia la celebre spiaggia di Copacabana. Arrivati a destinazione, i chioschi che riforniscono i turisti di acqua di cocco, i campi da beach volley e la lunga serie di catene alberghiere con affaccio sull’Atlantico, sembrano appartenere ad un’altra città e cedono il passo ad uno spettacolo contrastante. Da una parte, i moderni grattacieli del complesso residenziale, vicini al Parco Olimpico; dall’altra, come sopravvissuto a un bombardamento, giace ciò che resta di Vila Autòdromo: uno scheletro di tre abitazioni a due piani, circondate da cumuli di mattoni e calcinacci. Ogni giorno, chi ha deciso di restare qui, osserva questa scena dai dieci container allineati a pochi metri dall’ampio parcheggio dell’hotel confinante. Fino a poche settimane fa, questi cubi di appena venti metri quadrati erano il luogo che chiamavano casa.

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Tra i container, si aggira un uomo dalla pelle olivastra e lo sguardo fiero: il suo nome è Luiz Claudio da Silva e di questa lotta coraggiosa e appassionata contro la distruzione di quella che considera la sua famiglia -più che una semplice comunità- è forse il suo più acceso sostenitore. Insieme alla moglie, Maria De Penha, ha fondato il movimento di resistenza “Viva a Vila Autòdromo” in rappresentanza di tutti gli abitanti della zona, ponendosi come intermediario tra le istanze di questi ultimi e di quelle del governo municipale. Deve rispondere a più di una domanda dei giornalisti che di tanto in tanto si affacciano dall’hotel limitrofo, ma anche a quelle di semplici curiosi, attirati dall’imponente massa di detriti, tubi e bottiglie di plastica ammonticchiati in pile. Sembrerebbero oggetti dimenticati e invece si tratta di un vero e proprio museo a cielo aperto. “Lo abbiamo creato come segno di protesta per aver perso le nostre case, la nostra identità” mi spiega Luiz, che poi aggiunge “la vedi la scritta che sormonta i detriti? Memoria não se remove: vuol dire, la memoria non può essere cancellata”.

Il Parco Olimpico in cambio di una comunità. Una comunità in cambio del Parco Olimpico

Il fatto che Vila Autòdromo sia ancora viva nelle mente e nei ricordi di chi si batte per la sua sopravvivenza trova subito conferma nelle parole della moglie di Luiz, conosciuta da tutti come “Dona Penha”. Mentre Luiz prepara un thermos di cafezinho per tutti, lei ripercorre con voce energica la triste vicenda legata alla sua comunidade; preferisce chiamarla così, sebbene la stampa l’abbia più volte catalogata, a torto, come favela. Vila Autòdromo nasce da un gruppo di pescatori che negli anni Sessanta si erano stabiliti nei pressi del lago di Jacarepaguà, da cui il suo distretto prende il nome. Come molti, inizialmente risultavano sprovvisti di un titolo legale sui terreni occupati, fino a quando un provvedimento di legge dello stato di Rio dichiarò questa e altre zone delle città come aree di particolare interesse sociale, concedendo ai residenti il cosiddetto right to use, ossia un diritto di occupazione e di utilizzo.

Ben presto tuttavia, Dona Penha e gli altri abitanti di Vila Autòdromo si resero conto di come quel riconoscimento formale non fornisse alcuna garanzia a fronte dei primi tentativi di rimozione forzata, iniziati nel 1992 in occasione dell’Earth Summit delle Nazioni Unite. Allora, spiega Penha, “ci venne detto che la comunità doveva essere ricollocata altrove, poiché le nostre abitazioni costituivano sia un danno ambientale, vista la vicinanza al lago, che estetico, se comparate alle altre residenze circostanti”.

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Vent’anni dopo, con le Olimpiadi e le Paralimpiadi di quest’anno, le rimozioni sono state motivate dal sindaco di Rio Eduardo Paes sulla base di nuove esigenze, stavolta di sicurezza pubblica, date dalla prossimità di Vila Autòdromo al neo Parco Olimpico. Come a voler lasciare intendere che i residenti avrebbero potuto costituire una minaccia per gli atleti ospitati nel complesso residenziale. Questo timore è stato poi smentito dal fatto che gli appartamenti sono stati costruiti sulle ceneri delle case demolite. “In prima battuta – racconta Dona Pehna- Paes aveva garantito che la rimozioni avrebbero interessato solo l’area immediatamente adiacente al lago. Nel 2013 invece, ci disse che le case demolite sarebbero state 140, ben oltre il limite inizialmente concordato”.

Altra promessa non mantenuta è stata la mancata approvazione del progetto di re-urbanizzazione realizzato dalla comunità in collaborazione con ben tre università. Nonostante conciliasse il desiderio dei residenti di non veder cancellata Vila Autòdromo con le esigenze di pubblica sicurezza espresse dall’amministrazione carioca, e premiato persino a livello internazionale, il progetto non è stato nemmeno esaminato dalle autorità competenti.

Tutto ciò anzi, ha inasprito le tensioni tra le due parti, portando il sindaco a un cambio di strategia: convincere la maggioranza delle 700 famiglie o ad accettare una compensazione in denaro, oppure aderire al programma governativo di collocamento “Minha Casa, Minha Vida”, presso nuove abitazioni. Per chi, come Luiz e Maria de Penha, ha rifiutato entrambe le soluzioni decidendo piuttosto di lottare per rimanere nelle proprie case, la conseguenza è stata lo scontro diretto con le forze di polizia. A dispetto dei tentativi di discussione pacifica da parte della comunità, sette persone sono rimaste ferite, tra cui anche Dona Penha, colpita al naso e all’occhio sinistro. La sua casa, è stata infine demolita a marzo del 2016.

Le reazioni all’accaduto, sono state due. Da un lato, l’episodio ha letteralmente spaccato l’armonia e l’unità che aveva da sempre contraddistinto l’azione dei residenti. Dopo l’intervento della polizia, più di un centinaio di famiglie infatti erano pronte a sottoscrivere l’accordo, complici anche le altre forme di pressione psicologica messe in atto dal governo carioca. Tra queste, la demolizione degli esercizi commerciali dove acquistare i beni di prima necessità, dei luoghi di culto religioso, di ogni punto di riferimento insomma che consentisse l’interazione sociale.

D’altra parte però, scegliere il ricorso alla violenza ha portato all’attenzione di tutti quanto stava avvenendo a un passo da una delle sue maggiori strutture sportive. “L’attenzione dei media ci aveva fatto capire che, anche se ormai pochi di noi avevano scelto di restare e lottare, potevamo ancora fare la differenza e che là fuori c’era qualcuno disposto ad ascoltarci”, raccontano le famiglie rimaste a Vila Autòdromo.

L’eredità delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi di Rio

La speranza e la resilienza di un gruppo di venti famiglie ha realizzato quello che sembrava essere l’impossibile: dopo mesi di trattative, la città olimpica ha consegnato, emblematicamente con l’avvio della manifestazione, le chiavi delle nuove abitazioni. Stavolta non container, ma pareti fatte di mattoni e di cemento. La modestia delle dimensioni e delle rifiniture crea ancora quel fastidioso contrasto con il moderno complesso residenziale che gli sta di fronte, ma è tale da spazzare via i dubbi di chi ha visto nelle intenzioni dei proprietari un tentativo di rinunciare al vecchio per ottenere lusso dal nuovo.

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Il significato e il simbolo di questa battaglia però vanno ben oltre l’aspetto di una casa. La vittoria di Vila Autòdromo è l’eccezione che conferma la regola. È Davide che batte Golia. Il suo destino, nel bene e nel male, è stato inestricabilmente legato a queste olimpiadi. Senza di esse, Eduardo Paes non avrebbe avuto un pretesto così efficace per velocizzare le rimozioni; ma è anche vero che senza i riflettori del mondo puntati sulla conduzione dei giochi olimpici, la causa perorata da Vila Autòdromo non avrebbe avuto la stessa risonanza a livello internazionale, e forse a nessuno sarebbe stato riconosciuto il diritto di restare.

Non avrebbe potuto costituire un prezioso precedente per il resto della popolazione carioca, che si sta ancora battendo per impedire che alcune realtà vengano sacrificate in nome degli interessi delle società di real estate. È di questi giorni la protesta che si sta levando tra gli abitanti di Horto, favela storica sorta ai piedi del Cristo Redentore e fondata dai lavoratori del Giardino Botanico, uno dei luoghi simbolo di Rio. I suoi residenti , minacciati di rimozione entro i prossimi 90 giorni, vantano un titolo su quelle terre risalente a 200 anni fa, riconosciutogli dallo stesso governo carioca. Il caso, nonostante presenti molti punti in comune con quello di Vila Autòdromo, rischia -con la chiusura delle olimpiadi- di passare inosservato e di avere una conclusione tutt’altro che felice.

Le Paralimpiadi segnano la fine di un capitolo, quello che ha visto la cidade maravilhosa alla guida di tre mega eventi sportivi nel giro di dieci anni. Purtroppo però il suo lascito, agli occhi dei destinatari delle forced eviction, è solo l’ulteriore emarginazione dei più vulnerabili. “Se c’è una cosa che può essere d’esempio per i Paesi che in futuro gestiranno le Olimpiadi- afferma Dona Penha- è impedire innanzitutto che siano solo questi ultimi, e non anche il comitato olimpico, a rispondere per le violazioni dei diritti umani commesse nei confronti della popolazione locale”. È sempre lei inoltre a ricordare come i cittadini nel corso degli anni non siano mai stati interpellati circa l’opportunità di ospitare o meno questi grandi eventi. “Un evento come le Olimpiadi dovrebbe essere sinonimo di inclusione: solo così potremo parlare di giochi olimpici per tutti, e non solo per l’élite”.