Cattiva scuola, pessima musica

Perché in Italia si fa così fatica a trasmettere una cultura musicale?

di Alessandro Macchia

Ci credevamo assuefatti a ogni forma di dissacrazione artistica, fino al momento in cui non abbiamo visto volteggiare fuori della finestra di una scuola un misero flauto a becco in plastica. In quel momento la bellezza del volteggio ci è parsa simile all’osso roteante nel cielo di 2001: Odissea nello spazio.
L’autore del getto, reo di una deplorevole infrazione delle regole, ha incassato l’ordinaria annotazione disciplinare; l’insegnante di musica lo ha torchiato per conoscere le ragioni dell’happening; lo scolaro non ha saputo rispondere. L’esito dell’inquisizione era scontato. La sola lecita domanda sarebbe stata attorno al perché del perché. E forse la risposta sarebbe venuta proprio da quel brutto flauto (stavamo per scrivere “fallo”) in plastica o dall’altrettanto odiosa melodica, altrimenti detta diamonica o clavietta, in adozione nelle scuole per le ore di educazione musicale. L’oggetto è tutto. E non serve coltivare la filosofia zen per sentire quando la materia è “viva”. Lo strumento in plastica, al pari dello spazzolino da denti, contempla insieme l’opportunità dell’uso e del getto. Non escludiamo tuttavia l’eventualità del vintage.

Esiste pure un buon numero di insegnanti che ne declina l’impiego. Si tratta dei praticoni del canto. Ma dal modello plastica transitiamo al modello zecchino d’oro. I cori scolastici esemplificano ancor meglio l’inadeguatezza del sistema educativo di base.

Il confronto con la tradizione delle voci bianche del mondo anglosassone racconta distanze implacabili. Soprassediamo naturalmente all’alibi della mancanza di una tradizione come quella d’oltremanica. Le tradizioni, quando non ci sono, si costruiscono. In questi ultimi anni i malcostumi vocali hanno trovato altresì sbocco (col beneplacito e col supporto morale di presunti pedagogisti d’accademia) nella realizzazione scolastica del repertorio operistico. Non intendiamo dire dei nobili marinaretti del Golden Vanity britteniano o delle tante meravigliose pagine per ragazzi del compianto Maxwell Davies: parliamo precisamente della rudimentale messinscena dei repertori sette-ottocenteschi, dal Barbiere di Siviglia al Flauto magico, dal Nabucco al Don Giovanni, con improbabili voci da caffè della Peppina.

Qui l’elemento didattico viene dribblato da una spettacolarizzazione da parrocchia, che aspira, in modo neanche troppo celato, alle maniere televisive di “Ti lascio una canzone”.

A lato dell’avviamento da avventurieri alla viva esecuzione musicale esiste l’argomento non meno delicato dell’ascolto. In considerazione della sempre più precaria capacità di attenzione dei bambini e degli adolescenti, la musica, per via delle sue stesse modalità espressive, sarebbe il mezzo ideale per sviluppare le attitudini alla concentrazione.

I cahiers sono pieni di doléances circa le manifestazioni di insofferenza degli alunni; ma l’insegnante di musica dovrebbe maturare la consapevolezza che l’ascolto va “insegnato”, “guidato”, con pazienza e gradualità. Il piccolo ascoltatore, insomma, non va lasciato solo. Altre obiezioni parlano della refrattarietà degli adolescenti alla musica d’arte: quest’altra lagnanza attiene nondimeno al pregiudizio dei docenti stessi, ed è facilmente confutabile. È un dato statisticamente evidente che la trascurata educazione all’ascolto nella scuola chiude una volta per tutte la via alla conoscenza del canone musicale.
È tristissimo scoprire che ragazzi di tredici o quattordici anni sono del tutto ignari perfino del nome di Chopin (non diciamo della musica che ha scritto!). Preso atto del disinteresse dei vari riformatori ministeriali all’inserimento della musica nelle scuole superiori (e qui si tralascia di dire della ridicola operazione dei licei coreutico-musicali), il triennio delle secondarie di primo grado rappresenta l’ultima occasione per avvicinare i giovanissimi ai grandi compositori. Per altro verso, l’educazione musicale potrebbe finanche configurarsi come uno strumento prioritario di educazione al silenzio, ovvero alla percezione dei suoni di natura, all’apprezzamento dei piani e dei mezzipiani: una sorta di low food dello spirito in controtendenza agli amplificatori degli spettacolini negli atri o nei cortili delle scuole.

Si tratta in definitiva del punto in cui l’educazione alla musica interseca l’educazione ambientale e quella al civismo. Ma il sentiero è arido e l’insegnamento non è per tutti passione.

Se il sapere è un’avventura, la musica nella scuola italiana è un’avventura mai veramente iniziata. Il flauto di Gigi non si è tramutato nell’astronave kubrickiana, ma è ricaduto fra le erbacce della scuola. È lì ormai da due anni. Io lo incontro spesso Gigi. Ha ancora sedici anni e già mi dice: «Quanto mi sarebbe piaciuto conoscere la musica!»