La guerra criminale di Duterte

Nelle Filippine è in corso una war on drugs che ha fatto migliaia di morti in pochi mesi, mentre la comunità internazionale resta inerte difronte alle gravi violazioni dei diritti umani e al susseguirsi di omicidi extragiudiziali. Intanto il neoeletto presidente fa la voce grossa e sembra intenzionato a ridisegnare gli equilibri strategici nel Sudest Asiatico

Di Maria Tavernini

In appena 100 giorni, la controversa guerra al narcotraffico iniziata dal presidente filippino Rodrigo Duterte ha già ucciso oltre 3600 persone (di cui solo un terzo per mano della polizia). Il bilancio per le strade continua a salire, mentre la sua battaglia si ritorce contro gli anelli più deboli del traffico. Consumatori abituali e piccoli spacciatori di shabu, nome con cui in Asia è conosciuto il crystal meth, sono diventati il target principale degli squadroni della morte del presidente “Rody”, che ha dato carta bianca a polizia, sicari e vigilantes.

I primi di agosto, quando i morti erano già centinaia per le strade, Duterte ha stilato una lista di 159 persone tra giudici, ufficiali della polizia e funzionari che, a suo dire, erano coinvolti nello spaccio di droga. Ha poi incitato i cittadini a sconfiggere il narcotraffico, uccidendo a sangue freddo chiunque sia anche solo sospettato di farne parte.

E mentre lo stato di diritto collassa sotto i colpi della violenza squadrista, il capo di stato garantisce l’impunità giustificando una mattanza come necessaria per la salvaguardia dei valori del paese.

Alcuni report individuano le Filippine come produttore di meth su scala industriale, altri circoscrivono la produzione locale a piccoli laboratori in garage e appartamenti. Ci sono poi le triadi e i signori della droga cinesi, gli stessi che importano i precursori chimici. Dal rapporto 2015 dell’ufficio ONU contro droga e criminalità (UNODC), emerge anche il coinvolgimento del Cartello di Sinaloa e di organizzazioni transnazionali nel narcotraffico nell’arcipelago. Ma quali sono i numeri della dipendenza nelle Filippine?

Anche se l’uso di metanfetamine nell’arcipelago è aumentato vertiginosamente negli ultimi dieci anni – oggi è il paese con più consumatori in Asia Orientale -, non si sa per certo quale sia l’estensione del problema. «Un recente rapporto parla di 1,3 milioni di filippini dipendenti da droghe illegali: il presidente e i suoi hanno ingigantito di proposito i numeri della dipendenza», spiega Gloria Lai, dell’Ong International Drug Policy Consortium (IDPC).

Il “castigatore”, come la rivista TIME definì Duterte già dai tempi in cui era sindaco della città di Davao e aveva stretto la morsa su droga e criminalità, ha di recente affermato che sono almeno tre milioni i filippini dipendenti da droghe, principalmente meth. E ha aggiunto che «sarebbe felice di ucciderli tutti, come ha fatto Hitler con gli ebrei», un riferimento che ha chiaramente suscitato scalpore internazionale.

Dai dati dell’UNODC, però, non emerge un quadro così allarmante: il 2,3 percento della popolazione fa uso di shabu. Non si può davvero parlare di “pandemia”.

Piuttosto, di un presidente che ha abilmente saputo sfruttare una situazione, politicizzandola e aumentando i finanziamenti alla polizia a discapito di sanità e istruzione, assicurandosi così il sostegno delle forze armate.

«Chiunque abbia in un modo o nell’altro a che fare con la droga è diventato il capro espiatorio per il fallimento delle autorità nel garantire la sicurezza delle comunità», conferma Gloria Lai.

In una lettera firmata da oltre 300 Ong, l’IDPC ha esortato ONU e UNODC a intervenire contro il massacro. Le critiche non hanno smosso Duterte che, anzi, ha minacciato di ritirare il paese dalle Nazioni Unite, imporre la legge marziale e reintrodurre la pena di morte. Agli appelli indiretti del presidente americano Obama, ha risposto con coloriti insulti che hanno riscosso clamore.

Intanto, a fine agosto, il senato ha aperto un’inchiesta sugli omicidi extragiudiziali (36 al giorno in media) perpetrati in nome della lotta al narcotraffico da polizia e death squads. La senatrice dell’opposizione Leila de Lima, presidentessa della Commissione sui diritti umani, ha interrogato oltre 20 testimoni ex-membri degli squadroni della morte incaricati da Duterte degli omicidi. Ma è stata prontamente accusata di proteggere i signori della droga e di altre accuse infondate.

Dalle testimonianze come quella di Edgar Mota, ex-squadrista quando Duterte era sindaco di Davao, sono emersi dettagli inquietanti sul legame tra le esecuzioni sommarie, il presidente e gli squadroni della morte. Duterte ha però negato che gli ordini di esecuzione venissero dall’alto, così come il capo della polizia Ronald Dela Rosa, braccio destro del presidente castigatore già dai tempi di Davao.

I target delle operazioni di polizia sono identificati attraverso liste compilate dalle amministrazioni locali, spesso in modo arbitrario e impreciso.

I sospettati possono consegnarsi alle autorità e arrendersi, oppure essere raggiunti dai colpi dei killer al soldo del presidente. Finora, oltre 700 mila persone si sono volontariamente consegnate alla polizia, andando a ingolfare i pochi centri di riabilitazione del paese e le già sovraffollate prigioni, dove i detenuti versano in condizioni inumane.

Nex Bergson, ricercatore nel Drug Policy programme dell’Ong Akei con base a Manila, spiega i dettagli della strategia usata dalla polizia, conosciuta come Oplan Tokhang: si tratta di una campagna porta a porta, in cui i sospettati, individuati dalla polizia, possono sottoporsi a un drug-test. Nel caso sia negativo, un adesivo certifica che quella è una casa “drug-free” sennò, vengono arrestati e se reagiscono vengono uccisi.

Ma la vera guerra, quella senza regole e senza testimoni, è per le strade e negli slum.

«In alcuni quartieri di Metro Manila, come Quezon City, i residenti delle esclusive gated communities che di recente sono state incluse nei raid, mal sopportano le incursioni della polizia nella loro privacy», spiega ancora Bergson. «Il presidente è una figura molto polarizzante, eppure riscuote un enorme successo tra i filippini». Da un sondaggio emerge che oltre il 76 per cento della popolazione si dice fiduciosa nel suo operato. In molti vedono di buon occhio la sua politica per rendere autonome le Filippine dalle briglie della lunga alleanza con gli americani.

Duterte ha infatti annunciato che le prossime esercitazioni anti-terrorismo a Mindanao (isola al sud teatro di insorgenza islamica e comunista) condotte insieme agli USA saranno le ultime del suo mandato. E intanto, superate le controversie nel Mar cinese, corteggia la Cina e programma visite a Pechino per stabilire nuovi e più stretti legami commerciali, che contribuiranno a incrinare il ruolo di “pivot in Asia” perseguito da Washington e a ridisegnare gli equilibri strategici nel Sudest Asiatico.

Nelle sue più recenti, deliranti uscite, Duterte ha accusato la CIA di avere piani per ucciderlo. Al presidente americano ha detto che “può andare all’inferno”. E quando interrogato sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese, Duterte ha risposto con nonchalance «[I tossici] sono esseri umani? Qual è la vostra definizione di essere umano