Se tu cammini il ponte dell’amistad, ecco che scopri che il confine è nella testa. Scopri la Bolivia e poi il Brasile. E continuando il viaggio scopri i fiumi coperti di polvere.
di Gabriella Ballarini
foto di Francesca Scanavini
Arriviamo alla cittadina di Cobija con un piccolo aereo che si ferma a Cochabamba e sul quale ci offrono dei micro panini al sapore di formaggio e un caffè nero e se vuoi altro da bere, quello che vuoi.
All’arrivo un cartello grande, con tutti i nostri nomi e un benvenuto. Ci parlano in spagnolo, ma con lentezza, se mai qualcuna di noi non capisse.
Cobija e il fiume Acre, che quando arrivi ti dicono che è proprio una perla, Cobija: la perla dell’Acre. Una perla di viuzze e semafori con il conto alla rovescia, una perla di svendite di schermi piatti e gelati da pochi bolivianos.
Noi che camminiamo la notte per cercare qualcosa da mangiare, gli odori che non si capisce da dove vengono e la piazza a rosicchiare le patatine Doritos, che poi sono le migliori.
Cobija, se passi un ponte, diventa Brasileia e si parla portoghese e metà della cittadina è crollata due anni fa e ora gli alberi crescono dentro ai negozi abbandonati franati nel fiume, crescono i fiori negli spazi del cemento immobile, il silenzio impeccabile di Brasileia al tramonto sul ponte dell’amistad.
I ragazzi che si fanno fotografare mente saltano con lo skate e tu che ti siedi e ascolti quell’andare di ruote e la sorpresa di una lingua nuova, una terza lingua sul confine.
Il confine, in questa porzione di universo, è solo un cambiar di bandiere, la moneta che ribalta il punto di vista, due Paesi aderenti uno all’altro, separati da una striscia di acqua melmosa dove si pescano pesci del color della sabbia. Il Brasile e la Bolivia che non si assomigliano e si mischiano in tutti quei frammenti di confine, i due lati di un’amazzonia spettinata, dimenticata: ma tutti i posti di cui nessuno parla mai esistono veramente?
Mi siedo al confine e ascolto la gente che mi sussurra le opinioni di chi non sa di poter avere un’opinione. Sento che poco distanti da noi ci sono i campesinos che stanno protestando, il bloqueo, le strade bloccate, non passa nessuno, perché?
Perché il governo ha stabilito multe esorbitanti per chi ha bruciato i terreni per prepararli alla semina. Ma noi lo abbiamo sempre fatto! Ma ora la legge dice di no. E noi allora blocchiamo la strada e non paghiamo e protestiamo e voi non passate.
E poi arriva il sabato e anche il bloqueo si prende un giorno di riposo e il bus può passare. Ci mettiamo in viaggio per allontanarci dal confine e saliamo sulla flota (bus). I posti sono numerati e a me capita una splendida ragazza di fianco. Una donna silenziosa che tiene stretta la sua borsa, io dormo e a volte le cado addosso. Dodici ore di strada sterrata e fiumi. Caldo, salire e scendere dal bus per salire e scendere dalle chiatte che traghettano da una sponda all’altra e poi terra e polvere e si colora tutto e le foglie da spolverare e ogni cosa diventa una cosa sola e il vento sposta i capelli del ragazzo che si sporge per riprendere a respirare. Il caldo è avvolgente e fa diventare rovente il ferro della chiatta e uccide l’ombra dei pochi alberi sopravvissuti ai disboscamenti selvaggi, alla perdita dei contorni e le nuvole che fanno i riccioli e i disegni. Addormentarsi scivolando sui sedili verdi e arancioni della compagnia di trasporti Vaca Diez che lo zaino all’arrivo, te lo rende come fosse un grumo di terra, ma ti ci batte un po’ sopra la mano, per riconoscerne il colore, per dire: sì, è mio.
E proprio prima di arrivare a Riberalta leggo le ultime righe della pagina 36 di un libro che si intitola “Da questa parte del mare” e dice: sono polvere nell’ingranaggio, sono rovescio che non ha medaglia, sono l’ago trovato col piede in un mucchio di paglia.
Scendo a Riberalta, città che mi vede tornare, che mi guarda passare, città che mi mette di fianco una signora che mi racconta un paio di storie. Mi dice che durante la stagione della raccolta, uomini e donne e anche i bambini, salgono sulle chiatte di metallo e viaggiano anche per giorni sulle acque del Beni e del Madre de Dios. A volte, succede, che si faccia da mangiare sulle chiatte e che poi per un caso o per il destino qualcosa prenda fuoco, e poi prende fuoco tutto e la gente che viaggia sulla chiatta per andare a lavorare muoia soffocata, annegata, ustionata, che scompaia risucchiata dal fiume o mangiata dai piragna e che non se ne sappia più nulla. Capita che nessuno poi risponderà mai di quel che è accaduto, perché si viaggia per andare, perché si lavora per esistere, per permanere. E quindi capita che, precipitandosi nella vita, si inciampi, si cada e ci si rompa.
Poi c’è un’altra storia. Una storia di ragazzi giovani che lo scorso anno, pare annoiati, se ne andavano in giro ad uccidere a colpi di machete i cani che trovavano sul loro cammino. Quest’anno hanno deciso di uccidere uomini e donne.
Quindi pare siano andati in piazza e abbiamo impugnato il loro machete togliendo la vita ad un paio di persone e ferendone gravemente altre. Così. Perché fanno parte di una banda (pandilla). Così.
Stasera c’era una luce stupenda sul fiume, una luce tra il rosa e l’indaco, che se esiste una luce così, ti vien da dire, niente potrà farci del male. Ti vien da dire.