I limiti della legge contro il caporalato

Intervista ad Antonello Mangano di TerreLibere sui limiti della legge di recente approvazione contro il caporalato

di Matteo De Cecchi, tratto da MeltingPot

 

Il 19 ottobre, a larga maggioranza, la Camera dei Deputati ha finalmente dato il via libera definitivo al disegno di legge (Ddl Martina-Orlando) sul caporalato e lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, una piaga che, come documentato dai vari reportage di Meltingpot, colpisce, nel solo Mezzogiorno d’Italia, tra le 300 e le 500 mila persone.

La nuova legge, da alcuni vista come la panacea di tutti i mali da altri invece criticata su più punti, modifica un articolo già esistente, il 603bis del Codice penale, e apporta una serie di novità interessanti anche se sembra più figlia di una cultura emergenziale, leitmotiv italiano, anziché di una strategia ragionata e consapevole.

Secondo Antonello Mangano di Terrelibere.orgLa legge in questione introduce la corresponsabilità tra caporali e aziende, notizia positiva, limitando però il tutto ad un’azione puramente repressiva in un fenomeno, quello dello sfruttamento, che si sta sempre più amplificando”. Di fatto, il caporale e il datore di lavoro rischiano “sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno” da uno a sei anni di reclusione e una multa che può arrivare fino a 1000 euro; in caso di violenze o minacce (all’ordine del giorno nei periodi di raccolta) la reclusione può arrivare fino ad otto anni.

Sempre secondo Mangano “Più che una legge contro il caporalato, servirebbe un lavoro dal basso per far sì che la Grande Distribuzione Organizzata applichi una filiera trasparente in modo che il consumatore sappia, ancor prima di comperare il prodotto, il prezzo alla fonte e quanti lavoratori hanno contribuito a portare quel determinato alimento sopra le nostre tavole”.

La legge introduce anche “l’indice di sfruttamento” in pratica una serie di elementi che possono segnalare il reato stesso: retribuzione troppo bassa, violazione di orari di lavoro, ferie e norme di sicurezza e, infine, condizioni alloggiative degradanti (sic!).

Sullo sfondo, infatti, resistono oramai da decenni una serie interminabile di ghetti, le Jungle del Sud Italia, che confinano i braccianti, per lo più di origine africana, in bidonville invisibili dove le condizioni igienico sanitarie, nella migliore delle ipotesi, sono pessime.

Il problema di fondo” continua Mangano “è che si continua a colpire i “cattivi”, i caporali, dimenticandosi che questi ultimi sono solo uno degli anelli della catena, e neppure il più importante, visto che la piaga dello sfruttamento si alimenta anche senza il fenomeno del caporalato ”.
L’attenzione mediatica sul problema gira intorno ad una soluzione repressiva, e la legge è lo specchio della società, paragonando così il caporale allo scafista che porta i migranti verso le coste siciliane “dimenticando” che questi ultimi hanno percorso migliaia di chilometri, in condizioni disumane e pagando cifre enormi, prima di vedere il mare.

Una volta arrestato, il fenomeno del caporalato verrebbe sostituito da agenzie interinali legali solo sulla carta e la ruota ricomincerebbe a girare.

L’assenza di una visione globale delle condizioni di sfruttamento lavorativo e una mancata presa di posizione intorno alla questione della Grande Distribuzione, ad esempio obbligando le grandi catene ad applicare l’etichetta narrante, rende la legge “zoppa” e di difficile applicazione in un quadro repressivo che, alla lunga, risulterà inefficace e deleterio.