La distruzione della Jungle

Una settimana nel campo profughi di Calais durante il suo smantellamento

testo di Monica Cillerai
foto di Monica Cillerai e Stefano Lorusso

Le tende bruciano; scarpe abbandonate, pentole, vestiti in terra. Pacchi di cibo, scatolame, cipolle. Tutto brucia. Il fuoco esplode nella notte e non si ferma più. La cenere ricopre il terreno, l’odore della plastica irradia l’aria della giungla. La bidonville si consuma nelle fiamme: in cinque giorni, non resta quasi più niente.

La gente è scappata; molti se ne sono andati giorni fa, per non farsi registrare e per continuare a tentare la fortuna verso il mare. In migliaia sono saliti sui bus, nella speranza di arrivare a una soluzione migliore della vita in tenda tra freddo e attesa. La giungla, dicono, è finita.
Le casette, i ristoranti afgani; i piccoli shop che vendevano tutto e niente; le tende e le roulotte. Niente viene risparmiato alle fiamme e ai bulldozer che caricano sabbia e macerie di legno e lamiera sui container e li portano via.

 

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Solo i “bambino”, i minorenni, continuano a correre per le stradine di terra con delle bici scassate e scroccando sigarette. Entro la prima settimana di novembre, partiranno anche loro in direzione dei vari centri di accoglienza (CAO) sparsi in Francia. Tutto il resto, tace. Anche chi non voleva andarsene, è stato costretto a lasciare il campo. Anche chi fino alla notte prima ignorava le fiamme, la polizia e la chiamata ai bus, è partito. La giungla è lasciata alle ruspe e ai pompieri.

Il fuoco distrugge e purifica, dicono. Alcuni hanno dato alle fiamme la capanna, la tenda, la casetta di legno per non lasciarla abbattere da altri. Come Nerone, le hanno dato fuoco e hanno cantato nella notte. Il fuoco che purifica. Ma altre fiamme, sono esplode in modo strano, troppo sistematico.

Una serie di incendi che hanno illuminato la giungla per due giorni. Il fuoco che distrugge. Fiamme, forse comode a uno stato che non ha fatto passare i pompieri né è veramente intervenuto; comode a chi tanto quella giungla doveva distruggerla e che risparmia in camion e in tempo. Comode, a chi vuol far passare una certa idea di migranti e rifugiati.

Quasi diecimila persone vivevano nella giungla. Chi da anni, chi da qualche mese. Si era creato un mondo con delle regole tutte sue, appena fuori Calais. È crollato in pochi giorni. Tutti i suoi abitanti si sono dispersi tra centinaia di strutture CAO e tra campi informali a Parigi, Belgio, e Nord della Francia.

 

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Domenica sera – la notte prima dell’inizio.

Quais ha sedici anni. Lo incontriamo attorno al fuoco, mentre bruciano i resti di un paio di water chimiche. Anche oggi, si è rappresentato lo scontro, il conflitto insanabile tra migranti e stato. Due linee schierate, divise da una spianata di sabbia. Dietro, le reti metalliche, il filo spinato che impedisce l’accesso alla strada e ai camion merci; sotto i CRS, i poliziotti. Camionette, scudi e spara lacrimogeni.

Dall’altra parte, loro: i migranti.

Non si capisce mai perché comincia. Forse, semplicemente il motivo non c’è. Ma comincia. I migranti ribaltano un paio di WC chimiche, le danno fuoco. Gridano. Visi coperti, lanciano sassi contro la polizia, contro le reti. Sui giornalisti schierati a riprendere la scena, come se fosse un set di un’arena. E l’ambiente si presta: la rabbia, l’imminente sgombero. Le reti, il filo spinato. E la polizia si schiera. Lancia lacrimogeni, il vento ne disperde il gas. E i fuochi aumentano. Uno, due, tre. La polizia carica, disperde i manifestanti. I giornalisti riprendono. Uno spot, un film. Finisce lì.

 

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Quais ha sedici anni, è afgano. Era solo a prendere l’ultimo calore di quel fumo tossico nel gelo della notte. Non sa che farà. Non vuole andare in Inghilterra. Ma anche la giungla non fa più per lui. Andrà a sud, dice. Ha qualche amico lì. Riproverà a cominciare la sua vita una volta per tutte.

Lunedì sera, 26 ottobre – 1° giorno dello sgombero

“A me piace la giungla. Non voglio andarmene”. Ahmed ha 21 anni. È afgano. È qui da dieci mesi; si è creato il suo negozio, vende un po’ di tutto, dalle sigarette ai telefoni trafugati. “Alla giungla è come essere in Afghanistan. Non è che si stia bene, ma non stiamo male”, dice. Non ha mai provato ad andare in Inghilterra. Non ha mai provato a scavalcare le reti per raggiungere i camion. Ha chiuso il suo negozio oggi pomeriggio, non riaprirà più. La giungla, è finita. Si legge la tristezza nei suoi occhi. Forse perché perderà il suo piccolo commercio; o forse perché vivere sparsi sul territorio francese senza una comunità cui appoggiarsi sembra un po’ spaventarlo. Gli chiedo che farà, dove andrà. Non vuol andare in Inghilterra, non gli dispiace la Francia; andrà ai bus domani o dopodomani. E vedrà.

Al calar del buio i giornalisti scompaiono; le strade si ripopolano. La Giungla torna a vivere, nei ristorantini afgani, nei campanelli di gente che si creano attorno al fuoco, sulle dune ad osservare le reti e i poliziotti.

Sembra che nulla sia diverso; ma alla fine, la domanda è sempre la stessa: “Che farai? Tu Sali sui bus?”. In molti ancora non sanno.

Ogni tanto scoppiano incendi. C’è un’equipe di volontari internazionali vestiti da pompieri è accampato sulla duna e osserva il campo per individuarli il prima possibile.

 

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All’Infopoint, struttura sempre gestita dai volontari indipendenti (che restano nella giungla anche senza autorizzazione) si danno medicinali e si fa primo soccorso. Sono volontari non autorizzati. Se li trovano dentro la “bidonville”, finiscono in prefettura e gli internazionali rischiano l’espulsione dal paese. Eppure restano; alcuni di loro sono qui da settimane, mesi. Altri sono stati qui in passato e vogliono essere presenti allo sgombero per assicurare il servizio di primo soccorso fino alla fine. La notte è tranquilla, ma fredda. Si congela nella struttura di legno dove abbiamo buttato i sacchi a pelo. Dormo un paio d’ore in tutto; mi chiedo come facciano quando inizia a fare davvero freddo. E soprattutto, come faranno tra qualche giorno se non esisteranno nemmeno più i rifugi della giungla.

Martedì mattina

I giornalisti restano i protagonisti delle prime luci della giornata. Gruppetti di fotografi carichi di attrezzatura, cameramen e quant’altro girano e scattano in continuazione. A molta gente non piace, si copre, chiede di non essere ripreso. Si arrabbia, minaccia. “No photo”. Li capisco; sembra essere in uno zoo.
Il Presidente della Repubblica Hollande aveva promesso che “la jungle” sarebbe stata completamente evacuata entro la fine di ottobre, dopo che Sarkozy aveva annunciato la stessa cosa per l’estate prossima. E il presidente, già in campagna elettorale, sembra voler dimostrare al mondo che rispetterà il patto. Con le buone o con le cattive maniere.

Perché non tutti vogliono andarsene dalla giungla. E soprattutto, non tutti vogliono restare in Francia. E poi non è chiaro cosa succederà a chi si è imbarcato su quei bus. A ogni migrante che ha scelto di salire sui bus è stato ha assegnato un braccialetto con il nome della regione cui era destinato.

Il governo ha promesso che non si sarebbero fatti controlli amministrativi per salire sugli autobus: ma a destinazione, dopo che i controlli verranno fatti, non si sa bene cosa accadrà a chi ha già lasciato le impronte digitali in un altro stato europeo, o a chi è sottoposto a un decreto di espulsione. Verranno rimpatriati? Finiranno in un centro di detenzione ed espulsione? Rimandati nel primo paese d’arrivo in Europa?

 

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Hussen ha 28 anni, afgano di Kabul. Si avvicina mentre fisso una bancarella che vende una strana polvere per il thé. Sorride; tutti amano l’Italia qui, moltissimi parlano o capiscano un po’ d’italiano. Gli afgani più di tutti. Cosa farà quando arriveranno gli autobus, adesso che la giungla verrà sgomberata? “Non so”, risponde sollevando le spalle, “Non so”.

La sua famiglia è a Manchester. Sua moglie e i suoi figli. Non vuole dire quanti sono, si vergogna dice. Poi me lo sussurra all’orecchio. “Sei”. Erano tutti insieme, a Manchester, qualche mese fa.

Andava tutto bene. Aveva trovato un lavoro, in un piccolo negozio. È lì che la polizia l’ha trovato. E l’ha preso. I documenti non erano in regola. Si è fatto due mesi di centro di detenzione, prima di essere espulso.

L’Inghilterra l’ha rimandato in Belgio, dove gli avevano preso le impronti digitali. Dove lui aveva dovuto chiedere l’asilo, e dove per cui, secondo il Trattato di Dublino, avrebbe dovuto stare. Non aveva alcun diritto, in Belgio. Dormiva a volte in un parco, altre volte in case di fortuna. Trascorre cosi un paio di mesi. Poi, riparte. Deve tornare dalla sua famiglia. Non conta più le volte in cui ha provato a salire su quei camion che passano di fianco alla giungla, diretti nel Regno Unito. Ma non ce l’ha fatta. E Calais, è finita per ora. Almeno per un po’. Non sa che fare, né dove andare. Il suo obiettivo è il Regno Unito. Sul come arrivarci, nessuna risposta. 28 anni, sei figli, una moglie, e un mare a dividerli. E un’Europa che non accetta il ricongiungimento familiare. Ha chiesto di stare con la sua famiglia. Gli hanno risposto di portarla in Belgio.

 

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I bazar e i ristoranti cominciano a chiudere nella giungla. Già si fatica a trovare sigarette e tabacco. Pian piano la giungla si svuota. Il flusso di persone inizia di buon mattino. Nel pomeriggio si ripopola un po’; si accendono fuochi nelle stradine interne, si bruciano assi di legno, sedie. Alcuni cantano e ballano. Altri preparano le valigie per l’indomani. Altri ancora, svolgono la loro vita come se niente fosse e fanno passare il tempo come ogni altra giornata nella giungla di Calais.

La “pulizia” della giungla inizia quel pomeriggio, verso le 15.

Un cordone di polizia tiene i giornalisti abbastanza vicino da poter filmare e fotografare il mini bulldozer che molto lentamente abbatte un paio di baracche di legno. Tutta la stampa internazionale riprende gli addetti ai lavori che caricano le macerie su un container. In tre ore, hanno tolto due baracche. Se i lavori proseguissero a questo ritmo, non basterebbero due mesi ad abbattere la giungla di Calais. Ma l’inizio della “pulizia” ripreso dai media non è altro che una mossa mediatica per mostrare la falsa umanità di questo sgombero. Vero le 19, la messa in scena finisce. I giornalisti, i poliziotti e gli addetti ai lavori se ne vanno. La giungla torna a vivere.

Martedì notte – la giungla in fiamme

Tutto brucia: i fuochi iniziano così, all’improvviso. Eravamo a celebrare l’ultima serata nella giungla con una cinquantina di sudanesi, somali ed eritrei intorno al fuoco, cantando e ballando. Un botto, e il fuoco esplode a poche decine di metri da noi; una grossa struttura comunitaria brucia. Subito alcuni abbattano le porte e tirano fuori delle bombole a gas, altri cercano di evitare che le fiamme si propaghino. Arrivano i volontari-pompieri e il fuoco viene domato. Pochi attimi dopo, un’altra colonna di fumo si alza. È l’inizio della nottata di fiamme. Noi stiamo coi volontari internazionali, molti dei quali chiamati “No Borders”, che girano armati di materiale medico e di primo soccorso.

L’atmosfera si fa surreale: le capanne e le tende in fiamme, e un canto arabo che vibra nell’aria.

I fuochi si susseguono, esplodono ovunque. L’atmosfera sembra tesa; dopo molto tempo si vedono alcuni pompieri che arrivano. Ma ormai, gli incendi non si domano e continuano. Ci ritiriamo nella scuola del Darfur, dove un gruppo di sudanesi ci aveva accolto e dato ospitalità. Passiamo svegli la notte fino alle prime luci dell’alba.

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Mercoledì – I fuochi non si spengono.

Per tutto il giorno si levano colonne di fumo nero. I bus continuano a partire, la gente è spinta a uscire dalla giungla. Nel mezzo della polizia e dei pompieri, una roulotte prende fuoco. Nessuno intorno; quell’area del campo è svuotata dai migranti e dai rifugiati. Pochi minuti dopo si incendia un’altra struttura di legno, a qualche decina di metri. Il come, nessuna spiegazione. L’affermazione del Prefetto su come sia una tradizione afgana quella di dar fuoco alla casa prima di lasciarla, si evidenzia come una sciocchezza irreale.

Qualcuno, fuoco lo stava dando. Ma lì non si vedevano migranti. Solo polizia e pompieri intorno. E gli incendi, continuavano.

Quel giorno, una settantina di minori che non erano riusciti a registrarsi sono rimasti per ore in speranza di un bus che non è mai arrivato. La polizia i ha spinti via, lontano dalla strada d’accesso alla giungla; li avrebbe fatti dormire per strada. In città, i CRS e i gendarmi fermavano tutti coloro che sembravano migranti; la stazione era sotto controllo dalle volanti, così come le strade. F. dell’Auberge des Migrants: “hanno arrestato dei minori perché senza braccialetto […] Lo Stato qui agisce con modalità praticamente permanenti nell’illegalità”. “Non è facile da provare. Stiamo cercando di far condannare lo stato per ciò che fa.”

 

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Giovedì- Non tutti sono partiti.

Un buon numero resta nella giungla, ad aspettare. Ma poco a poco chi non se n’è andato di usa spontanea volontà è stato portato via sui bus. Circa 150 persone invece restano bloccate fuori dal campo e fuori dal sistema bus-braccialetti. Non sanno che fare. La maggior parte sono minori. Restiamo per ore fuori dall’ingresso della giungla. Alla fine le associazioni arrivano a un patto e gli viene concesso di passare la notte all’Ecole des dunes, nella giungla. Ci ritroviamo a dormire tutti alla ex-scuola.

La sera siamo tutti tesi. Girano voci che ci siano i fascisti appostati fuori dal campo, ci sono tre macchine ferme appena al di là della strada, piene di ragazzi e uomini vestiti di nero, dicono.

Avvisata la polizia, si attende il mattino. Non si sa se aver paura dei fascisti o dell’arresto da parte delle forze dell’ordine.

Venerdì Li portano via nel primo pomeriggio.

Imbarcati sui bus, destinazione i CAO. Nessuno sa con certezza cosa li succederà. Se verranno ammessi nella procedura d’asilo per l’Inghilterra, se resteranno in Francia. Nessuno sa che accadrà ai maggiorenni.

 

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Sabato – La scuola dove avevamo dormito la notte prima non c’è più. Anche la Belgium Kitchen è andata a fuoco. Così come l’Infopoint, e tutto il resto. I bulldozer abbattono, le ruspe “puliscono”. La giungla muore.

Solo i ragazzini continuano ad attraversarla correndo in bicicletta. Nei container, aspettano la risposta per andarsene in Inghilterra o no. Intanto, giocano a calcio.

La chiesa ortodossa è l’unica cosa che è rimasta in piedi. L’unica cosa che resiste. Sembra che sia addirittura intervenuto il vescovo per impedirne la distruzione. Tutto il resto è andato.

Lunedì 1 novembre, i lavori sono finiti. Per ora, la Giungla è over.

L’attenzione internazionale si sposta sulle tendopoli che da mesi si sono installate nel cuore di Parigi, dove più di duemila migranti si sono ammassati nei pressi di Place de Stalingrad. Una nuova giungla che cresce.

 

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