Che occasione persa

Nel 2008 Barack Obama era l’uomo delle speranze, oggi il 44° presidente degli Stati Uniti lascia la Casa Bianca con un bilancio inferiore a quanto promesso

di Susanna Allegra Azzaro

Il secondo mandato di Barack Obama sta per concludersi e già mi vedo scorrere davanti tutti quei titoli e tributi che a lui, il cui merito principale è di essere stato il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti, verranno dedicati.
So di essere controcorrente, il mondo ama Obama e quella sua aria da bravo ragazzo americano che ci sa fare negli eventi ufficiali, vedi la recente cena alla Casa Bianca con Renzi e compagnia bella, così come in tv e sui social che, altro merito di cui bisogna dargli atto, maneggia con maestria. Dotato di un indubbio carisma, Obama raggiunge una popolarità planetaria enorme quando, ancora candidato per il partito democratico nelle elezioni presidenziali del 2008, lancia il famoso motto inneggiante al cambiamento “Yes, we can” e riaccende la speranza in un mondo provato dall’esperienza Bush.

Nel mio piccolo ebbi modo di testarlo quando il caso me lo fece incontrare a pochi mesi dall’elezione in una palestra del Kuwait, storia tanto assurda quanto vera, e incredibile fu l’entusiasmo da stadio con cui venne accolto il neo salvatore del pianeta Obama.

Ma cercando di non farci influenzare dal fisico atletico e la dentatura perfetta, proviamo a giudicare in maniera obiettiva l’operato di quello che per otto anni è stato l’uomo più potente del pianeta; saremo ancora entusiasti per il Nobel per la Pace assegnatogli, sulla fiducia, a pochi mesi dalla prima elezione o così affranti per lo scadere del suo mandato?
Una volta, complice l’assenza di internet, sarebbe stato più difficile confrontare gli obiettivi promessi in campagna elettorale e quelli effettivamente raggiunti, ma vivendo in un mondo dove a livello virtuale tutto rimane a portata di click, basta confrontare discorsi ed esternazioni pubbliche di Obama del 2008 con quello che è il mondo che si appresta a lasciare al suo successore per tirare due somme.
Non mi addentrerei nelle questioni di politica interna come la nota Obama Care o gli aiuti agli istituti di credito lasciando ai cittadini americani il compito di esprimersi a tale riguardo, ma in quanto abitante di questo pianeta credo di aver il diritto di giudicare la politica estera della presidenza Obama, viste anche le ripercussioni che questa ha avuto sulle nostre esistenze.
Durante la prima campagna elettorale molto rilievo fu dato al Medio Oriente e alla risoluzione dei conflitti che ne minavano la stabilità e sviluppo; da lì la decisione di Obama di recarsi nel luglio del 2008 in Afghanistan, Iraq, Israele e Kuwait, di farsi garante del tortuoso processo di pace e di discostarsi fortemente dal suo predecessore repubblicano Bush.

Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq e l’intensificazione della guerra ai terroristi in Afghanistan furono due punti di non poco conto nel programma elettorale dell’allora quarantasettenne Barack e, a poche settimane dal suo insediamento alla Casa Bianca in un toccante discorso al Cairo, egli affermava di voler vedere finalmente il mondo musulmano riappacificato e unito. In molti come me hanno sperato che il sogno si potesse avverare davvero, ma gli accadimenti del 2011 ci riportarono tutti, Obama compreso, con i piedi per terra.
Quello fu l’anno infatti in cui il presidente mantenne la sua promessa di ritirare le truppe americane dal suolo iracheno affermando di lasciare un Iraq “sovereign, stable and self-reliant”, a leggerlo oggi fa ancora più effetto, ma soprattutto dovette fare i conti con quell’evento straordinario ribattezzato “Primavera Araba” che neanche il miglior analista politico al mondo avrebbe potuto prevedere.

L’atteggiamento di Obama fu fin dall’inizio estremamente cauto e più volte ribadì l’intenzione di non voler mettere il naso in questioni di altri, salvo poi proclamarsi a favore della rivoluzione democratica quando ormai Mubarak, fedele alleato degli USA, veniva dato per spacciato.

Ma la questione più spinosa è parsa fin da subito la Siria dove, a differenza degli altri paesi investiti dall’ondata rivoluzionaria, le insurrezioni sfociarono in una sanguinosa guerra civile il cui epilogo sembra ancora lontano da una risoluzione pacifica.
Parte dell’elettorato americano si aspettava da Obama un intervento militare sul territorio siriano per far fronte alla preoccupante crisi umanitaria e sconfiggere il crudele dittatore mediorientale di turno, Assad nella fattispecie, ma per un presidente che in campagna elettorale aveva promesso una nuova era pacifica, questo sarebbe stato a dir poco inammissibile.
Grande era d’altronde il malcontento di gran parte degli americani per le ingenti spese militari in Medio Oriente e Obama sapeva che l’implicazione statunitense in un’altra guerra nella regione lo avrebbe esposto a pesanti critiche da parte degli stessi democratici. È così che si mette in moto la ricerca di una risoluzione consensuale del conflitto attraverso la diplomazia, ma non solo.
L’amministrazione Obama nella questione siriana fa molto di più e a far venire a galla la verità è un’incauta Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, che dal suo account personale di posta elettronica e non attraverso quello ufficiale e difficilmente attaccabile dagli hackers, invia una mail ultra riservata sul conflitto in Siria. Wikileaks pubblica online il contenuto del messaggio che esordisce così: “Il modo migliore per aiutare Israele a gestire il crescente potenziale nucleare dell’Iran è di aiutare la popolazione siriana a rovesciare il regime di Bashar Assad”.
Ci sono numerosissimi punti interessanti che meriterebbero di essere qui riportati, primo su tutti quello in cui la Clinton scrive: “Rifornire di armi i ribelli siriani e l’ utilizzo di forze aeree occidentali per impedire a elicotteri e aerei siriani di mettersi in volo, fanno parte di un approccio dai costi limitati e dal risultato notevole. Finché i leader politici a Washington rimarranno fermi sul non utilizzare truppe di terra americane, come in Libia e Kosovo,i costi per gli Stati Uniti rimarranno limitati”.

Insomma, imbarcarsi in un’altra guerra, visti i costi e le implicazioni elettorali, sarebbe troppo rischioso ma attraverso mezzucci low profile e quindi facilmente occultabili si potrebbero comunque raggiungere dei risultati soddisfacenti.

Altroché cambiamento alla “Yes, we can”; il Nobel per la Pace Obama, autoproclamatosi mediatore per la stabilità in Medio Oriente, ha seguito alla grande le orme del suo predecessore Bush e basta fare un rapido confronto delle spese militari per averne ulteriore conferma.
Con i due mandati Obama vengono spesi 4,121.2 miliardi di dollari contro i 3,304.5 dell’amministrazione Bush, sostanziosi sono stati i fondi per la lotta al cyber-terrorismo e i tanto discussi droni, ma soprattutto sul budget hanno inciso notevolmente la progettazione degli F-35, i Joint Strike Fighter, e di sottomarini nucleari.
Certo, qualcuno opinerà che Obama passerà alla storia per il famoso accordo sul nucleare con l’Iran e la svolta con Cuba, ma parliamoci chiaro, tutte le controparti in gioco hanno avuto il loro tornaconto, Stati Uniti in primis.
Il mondo si appresta a omaggiare il presidente uscente e mi chiedo se qualcuno più autorevole di me e con la mente non offuscata dal conflitto Clinton-Trump guarderà all’operato di Obama e dirà quello che in genere si dice dei film brutti ma che non si ha il coraggio di stroncare: che occasione persa.