My place

Ci sono corpi che sono case, che sono strade, che sono danze e poi c’è un posto, il mio posto o meglio: MY PLACE.

testo di Gabriella Ballarini
foto di Michela Di Savino

A Milano, durante la rassegna teatrale Danae Festival (che si concluderà il 13 Novembre), un titolo tra gli altri ha attirato la mia attenzione: my place di Quieora residenza teatrale. Sulla locandina di presentazione dello spettacolo la foto di tre donne in mutande e reggiseno. Il corpo e la casa. Il contenuto e il contenitore.
Io, tu e lo spazio attorno.

Tre corpi-rifugio che risplendono di normalità, la musica che urla e urlano anche i corpi. Come fossimo spettatori di una collettiva allucinazione, di un impulso ad andare, correre, percorrere giorni interni di gioia e sofferenza.

In un’epoca che non ci vuole felici, ci vuole farciti di nulla e poi ci mette in batteria e i nostri corpi cambino forma come fossero proiettati, come fossimo involucri. Allungati e rimpiccioliti, in un andirivieni di danze ipnotiche e risate per battute sussurrate e corpi scavati nell’aria. Aria satura di pensieri e affanni, di congetture sulle vite degli altri.
Una delle attrici afferra il tempo presente, ad un certo punto, ci racconta dei tredicimila sfrattati di Milano, che lei è una di loro, lei e suo figlio piccolo.
Ci chiede, quasi il pubblico entrasse in scena improvvisamente o forse era in scena dall’inizio, ci chiede se a noi il mutuo ce l’hanno concesso e ci manda a fanculo quando le diciamo che sì, qualcuno ce l’ha fatta.

La casa che espelle i corpi, corpi appesantiti dagli anni, alleggeriti dalla bellezza del gesto delle mani e dei piedi e delle scarpe.

Entra in scena l’acqua, per ripulire l’affanno, per svegliarsi dall’anestesia di un mondo insostenibile. E poi l’acqua in bottiglia diventa rarefazione e tutto si allunga, anche i pensieri dello spettatore.
Alla fine, si fa buio, le danze scemano e arrivano le parole che riporto di seguito testualmente, da leggere ascoltando questa musica:

Abbiamo attraversato luoghi, incontrato persone, fatto interviste… Ci hanno raccontato che la casa è un microcosmo, con dentro conflitti, desideri, paure… e se la perdi quella casa lì… Perdi la possibilità di orientarti nel mondo. Poi ci hanno regalato degli appunti di architettura, estetica tecnica, scuola russa. Aleksandr Rjabušin scrive che nel 1960 la casa è concepita come un complesso oggettuale in grado di rendere felice l’uomo. Rjabušin sogna una casa capace di reagire fisicamente e psicologicamente ai mutamenti della routine quotidiana. Lui dice che una casa così sarà una casa illusione, una casa palcoscenico, lui la chiama casa teatro. In essa il complesso oggettuale può apparire e scomparire a seconda del bisogno. Che ne so ho fame, voglio mangiare… Compare un tavolo e quando ho finito scompare, così non devo sparecchiare… Ho voglia di leggere… Si innalza una libreria. Finisco di leggere e la libreria puf scompare e io non debbo fare la polvere… Rjabušin dice che in uno spazio abitativo così concepito la routine quotidiana sarà sostituita da atti creativi e l’uomo ne sarà l’artefice. E a me piace pensare che questo possa accadere anche fuori dalle mura domestiche… Che ne so se voglio posso andare a prendere mio figlio a scuola così, in mutande, e mi esprimo, oppure se voglio vado a fare la spesa in mutande e creo, se voglio faccio la fila in posta, in mutande… e mi libero. Rjabušin dice che una casa così è come se fosse un libro, a ogni pagina che sfoglio tutte le esperienze possibili e tutti i mezzi necessari al mio sostentamento, come nel detto latino “Omnia mea mecum porto”, tutte le mie cose le porto con me. Si capisce che in una casa così niente sarà definito in base all’uso, alla funzione, e tutto sarà determinato dall’ozio, dal piacere, dal tempo libero.

Le luci scendono, rimane nel corpo la sete dell’affanno, la tristezza di quell’ultimo video sparato sul muro, le tre donne e la piscina vuota.

Gigi Gherzi scriverà sulla sua bacheca di FB: “”My place” di Quieora Residenza Teatrale” visto ieri sera a Danae Festival, a Milano, è spettacolo bello e visionario. In scena i corpi di oggi, corpi senza più casa e senza più spazio, corpi costretti all’autosufficienza, a mostrarsi, performare. sbattersi, esibirsi. Gli stilemi della danza fatti amorosamente a pezzettini per restituire il frantumato del nostro essere corpi senza posti in cui abitare.”

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Lo smarrimento e quella temporanea perdita di equilibrio di un tempo presente che disarma lo sguardo e trasforma l’esistenza in nascondimento. Smascherato il corpo, My Place ci chiede di rallentare la corsa e bere acqua frizzante, fresca o forse no.
Ad ogni spettator, la sua pena.
Da vedere, a qualsiasi costo.