Favola, realtà e mito

Questo Kratos non è sulle elezioni statunitensi in senso stretto.  Il momento è sicuramente uno snodo molto importante. Ma questo rapporto di forza parla di noi. Ecco perché.

 

di Angelo Miotto
@angelomiotto

Da stanotte saremo incollati allo schermo, alle radio, al web, per sapere come andrà a finire. Fra una dinastia e il populismo becero che però ben rappresenta ormai una parte degli Stati Uniti e non solo.

Questo nostro rapporto di forza, però, è sulla favola che la propaganda vende, quella del mito statunitense, il Paese delle opportunità che in realtà viene raccontato pochissimo, se non nei suoi stereotipi. Ricordo le tendopoli ai tempi della crisi dei subprime e pochi giornali a mostrarle, ricordiamo le sensibilità del BelPaese, fra campanili e vesti talari e l’alleato fedele americano. C’è tutta una classe di lettori e di direttori, di giornalisti che cresce con il mito americano, di cui non si può certo nascondere storia e importanza, ci mancherebbe, ma che appartiene a una scala valoriale e di notiziabilità davvero particolare, due elementi che hanno a che vedere con quello che si vuole oggetto della nostra attenzione. L’agenda Usa ci deve comunque interessare. A tal punto da raccontarci tutti i passaggi elettorali.

Siamo disposti ad ammettere che l’India, la Cina, la Russia possano avere delle ripercussioni simili o più ampie rispetto a una campagna elettorale statunitense? Non credo. La superpotenza, che non è più tale da tempo, rimane una regina dell’imporre il proprio mito nella sfera occidentale, grazie a interventi studiati, ma anche a una cultura che ha saputo tramandare, dal dopoguerra a oggi, un’immagine della cavalleria da ‘arrivano i nostri’, quando erano i nativi i buoni, la propaganda cinematografica, con John Wayne eroe buono per migliaia di bimbi catturati dai film di guerra, il servilismo nelle politiche di alleanza, di carattere economico, le mode, il mercato dell’intrattenimento che fa parte anche della cultura di chi scrive, con Happy Days, Arnold, tutti i telefilm più trash, le serie sdolcinate, le tradizione mai vissute di zucche e dolcetti che certo dall’Irlanda son partite, ma dagli Usa abbiamo importato. Sì poi ci sono i miti buoni, quelli politicamente corretti, o quelli che si sono dovuti difendere dal razzismo, dalla mancanza di diritti. È vero anche questo.

Immagino che siano parole che a molti suonino come bestemmia, come non voler capire l’ovvietà e cioè che si tratta di un’elezione cruciale.

E infatti lo è, così come non si finirà mai di chiedersi come sia possibile che in queste ore un cittadino di un paese tanto importante nel mondo si debba trovare a scegliere fra due candidati come la dynasty clintoniana e il populista che parla al ventre molle del grande paese che doveva essere per noi un esempio.

Qui non si tratta di analizzare – questo sì è interessante – le dinamiche sociali di quella confederazione di stati, né di andare a scoprire – lo dice Assange in una intervista a Pilger – le simpatie economicamente da capogiro di Hillary Clinton per l’Arabia Saudita e nemmeno ci si vuole avventurare nelle polveriere del Medio Oriente o della nuova Guerra Fredda.

Qui c’è da capire quanto e perché il fatto che accadrà questa notte venga riconosciuto, da noi, come un pezzo delle nostre vite, mentre non riconosciamo come tali altri momenti cruciali, che dovrebbero riguardarci ben più da vicino, come se l’inevitabile onda lunga della politica Usa debba per forza, forzatamente, come un destino ineludibile, essere una valanga che ci debba colpire senza possibilità di fuga.

Eppure in questa orribile globalizzazione che è cresciuta in seno al capitalismo dell’accaparramento e dello sfruttamento di uomini e natura, non ci sono solo gli Usa. Eppure a volte ci dimentichiamo di quanto siamo importanti noi, rispetto alle elezioni che ci vengono servite a colazione, pranzo e cena, spesso con stereotipi o l’ultimo scandalo, ma senza vere analisi o reportage di racconto, se non in pochi rari casi, su suolo italiano (poi il web ci può salvare, ma solo se avete voglia e sapete cercare e se avete voglia di leggere!).

Insomma, evviva il mito che si celebra questa notte e che terrà svegli molti cittadini nel mondo, ma nello stesso tempo c’è la consapevolezza di una delega continua a una narrazione deforme, prepotente e deviante, perché i rapporti di forza non sono così come li rappresentano i cantori della superpotenza o degli ordini mondiali. Non si prendono decisioni, in questo contesto dove i rapporti di forza li fanno le diplomazie e quindi le politiche e quindi le bombe che cascano o meno da un aereo sui civili, troppo spesso.

I rapporti di forza potremmo farli noi, se solo ci svegliassimo dal torpore, o da questo sonno senza sogni.

Non si agisce perché oddìo arriva Trump e sarà guerra nucleare, o perché chissà cosa nasconde la moglie di Bill nelle sue mail, e impegnati a leggere avidamente le notizie ci fissiamo su un gioco che – pur avendo divorato in milioni House Of Cards – continuiamo a guardare come se fosse una vera competizione elettorale. Siamo addirittura arrivati a pensare, vox populi, che il presidente Obama fosse un miracolo naif, un agnellino capace di mettere sotto scacco i lupi delle armi e delle guerre, con tanto di Nobel della pace stampigliato su un’apparenza che nasconde quello che non si può sperare o esigere che non sia dal Potere.

Ecco, alla fine la questione è qui: il Potere celebra il suo scontro finale, noi che siamo ben più potenti nelle nostre pratiche, decisioni di vita quotidiane, ci emozioneremo per una risata, una lacrima, una battuta, una percentuale.

Senza saper ristabilire una lucida scala di giudizio su eventi che non celebrano più la bellezza delle democrazie come ci hanno insegnato a scuola, ma semplicemente la raffigurazione finta di verità impossibili condite a suon di finanziamenti miliardari di gruppi di interesse e avallate dal cosidetto voto democratico.

La realtà uccide il mito, la realtà è nemica della favola. E però di quella, ogni giorno, vivete, in quella ogni giorno viviamo. Più su un Ryanair, che su Air Force One.