Un uomo solo al comando

Donald Trump è il 45° presidente degli Stati Uniti. Vince su Hillary Clinton e, soprattutto, sull’establishment del suo partito

di Antonio Marafioti

Quota 270 è stata toccata e superata alle 7.40, ora italiana, con la vittoria in Pennsylvania e Alaska. Donald Trump è diventato il 45mo presidente degli Stati Uniti d’America al termine di una notte elettorale combattuta stato per stato. Il Tycoon prende tutto a parte il voto popolare che l’avversaria Hillary Clinton si aggiudica per soli 230mila voi conquistando il 47.7%, contro il 47.5% di Trump, dei 142 milioni elettori registrati. Per il resto è una débacle democratica sopraggiunta dopo un iniziale e quasi rassicurante vantaggio.

Il candidato del Gop parte male, così tanto da far twittare ai membri del suo staff che “ci vorrebbe un miracolo per vincere”.

Poi si riprende e comincia a inanellare una serie di vittorie strategiche che ribaltano le carte in tavola nel giro di poche ore. Conquista tutti gli swing states (posta in palio 122 grandi elettori) a eccezione del Nevada e del New Hampshire, stato in cui è ancora in corso la conta dei voti. Trump s’impone in Arizona (49,4%), Iowa (51,8%), Michigan(48,4%), Georgia (51,4%), North Carolina (50,6) e, soprattutto, Florida (49,4%), Ohio (52,1%). La prima viene espugnata alle 4.54, ora italiana, al termine di un serrato testa a testa; l’Ohio, lo stato industriale senza il quale nessun candidato ha mai conquistato la presidenza, viene vinto poco dopo con oltre il 52 percento dei voti.

Trump ottiene anche la maggioranza alla Camera (239 rappresentanti a 193) e mantiene, pur perdendo due senatori rispetto all’ultima legislatura, quella fondamentale al Senato (51 a 48) che gli eviterà di iniziare il suo mandato come una “lame duck” (un’anatra zoppa) incapace di far votare le riforme.

L’effetto Trump, nelle prime ore, si misura tutto nell’andamento del mercato azionario: l’indice Nikkei perde 5,3 punti, mentre in Europa le borse di Francoforte, Parigi e Milano aprono con una flessione media del 2%.

Dettagli, per ora. Trump si è presentato commosso sul suo palco di New York pronunciando le prime parole da presidente eletto: «Ho appena ricevuto una telefonata dal Segretario Hillary Clinton che ha espresso le sue congratulazioni nei nostri confronti». Con un’inusuale eleganza il tycoon ha poi continuato: «Anche io mi sono congratulato con lei per una campagna condotta con grande efficacia. Hillary ha lavorato assiduamente per tanto tempo. Ora è giunto il momento di ritornare a essere uniti come un solo popolo. Vi prometto che sarò il presidente di tutti gli americani. A coloro che hanno scelto di non sostenermi vorrei porgere una mano e vi chiedo un aiuto per unificare il paese. La nostra campagna è stato un movimento incredibile costituito da grandi lavoratori americani che vogliono un futuro più roseo per se stessi. Io presterò servizio a questo popolo e insieme rinnoveremo il sogno americano. Tutti godranno dell’opportunità di sprigionare il proprio potenziale, nessuno rimarrà indietro. Costruiremo infrastrutture e ritorneremo i numeri uno. Infine ci prenderemo cura dei nostri reduci di guerra. Non c’è sfida che non possa essere raccolta. I nostri interessi verranno per primi, ma cercheremo collaborazione con tutti i popoli», ha concluso Trump.

«Questa è una notte storica, il popolo americano si è espresso e ha eletto il suo nuovo campione. Gli Stati Uniti hanno eletto il 45mo presidente della loro storia e per me è difficile esprimere l’onore che proviamo io e la mia famiglia», ha aggiunto dal palco di New York il vicepresidente eletto, Mike Pence. Hillary Clinton manda sul palco dei democratici il presidente della sua campagna elettorale, John Podesta, che rivolto gli elettori ha dichiarato (prima che la candidata ammettesse la sconfitta): «Dobbiamo aspettare, i voti sono in afflusso e ogni voto conta. Dovreste andare a casa, dormire un po’, domani vi sapremo dire qualcosa in più. Siamo fieri di voi».

La vittoria di Trump si annuncia come una di quelle dalla portata storica per diversi motivi. Il Tycoon s’impone sull’establishment del suo partito – contrario fin dalle primarie alla sua candidatura – superandolo a destra su tutta la linea: dall’economia alla politica estera, dalle riforme in tema di immigrazione a quelle in materia ambientale. Teorie, proclami, attacchi, sempre espressi contro tutti i suoi avversari in totale sprezzo delle regole del fair play politico.

È stato, ed è ancora, il paradosso di una campagna elettorale vincente che però passa alla storia come una delle peggiori alle quali si sia mai assistito.

Trump non ha risparmiato offese (raccolte sapientemente in due pagine del Nyt) a niente e nessuno dall’inizio alla fine della sua corsa. L’obiettivo, raggiunto, era quello di apparire come l’uomo forte in grado di colmare un vuoto di rappresentatività sfruttando l’onda lunga del malcontento popolare. Gli elettori lo hanno seguito e inviato alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni. “Make America Great Again” è l’espressione di una rabbia trasversale covata in seno dalla metà del Paese, una rabbia che otto anni fa il Tea Party ha intercettato, ma non tradotto in voti. Trump sembra avere studiato quell’esperienza fin nei minimi dettagli e, aggiustando il tiro, si è posto nei confronti dell’America come il grande risolutore dei suoi problemi, il padre nobile, ma severo di un popolo insoddisfatto. Da lì una rincorsa alla legittimazione politica e tre soggetti da sconfiggere per iniziare a massimizzare il profitto alle urne e compiere la scalata dall’interno: un partito spaccato, il Gop, fin dalle primarie in ben sette candidature; un presidente uscente che cercava una naturale prosecuzione della sua politica in una nuova amministrazione democratica; la stessa Clinton, giudicata l’espressione diretta di una classe politica vecchia da liquidare in fretta. Il piano si è compiuto stanotte.

A favore di Trump hanno giocato due fattori su tutti gli altri: un paese diviso come non mai in cui è stata l’anima arrabbiata a prendere il sopravvento sull’altra; la regola non scritta di alternanza fra amministrazioni democratiche e repubblicane che dura fin dai tempi del primo mandato di Bill Clinton, 1993, e a cui gli americani sembrano non voler proprio rinunciare. A un presidente democratico che esce, eccone uno repubblicano che viene eletto. E viceversa.
Ora bisognerà aspettare le prime mosse del nuovo capo dell’esecutivo per capire se la scelta di proseguire sulla strada della consuetudine non sia stato il più grave errore del popolo americano.