La mia Ventimiglia

L’assurdità delle frontiere, vista con gli occhi di un giovane solidale

di M., 19 anni, solidale Progetto20K

Migranti sudanesi, etiopi, eritrei, somali lasciano il loro stato d’origine: lasciano la guerra permanente del Darfur, l’oppressione politica del governo di Khartum o di Addis Abeba, la condizione di costante pericolo per la propria vita, sono disertori dell’esercito etiope, ex comandanti che hanno rifiutato di sparare sui villaggi dell’etnia oromo, eritree che cercano da sole un futuro per i figli che portano in grembo. Attraversano l’Egitto o la Libia, spesso in questi paesi sono detenuti o torturati, attraversano il Mediterraneo. Sbarcano in Italia, intendono raggiungere il nord Europa: alcuni la Francia, ma per la maggior parte la Germania o il Regno Unito.

Al passo del Brennero l’Austria chiude la frontiera, cosí la Svizzera da Como a Chiasso e a Ventimiglia la Francia militarizza Menton. Se a Chiasso la Svizzera dichiara che valuterà le richieste d’asilo di chi intende stanziarsi mentre respingerà chi intende passare in Germania, promessa a cui contravverrà riportando indiscriminatamente in Italia gruppi di persone tenute in bunker sotterranei per giorni al fine di “compilare moduli per la richiesta d’asilo”, nel primo e nell’ultimo caso i profughi non possono in alcun caso transitare. L’Italia contribuisce a bloccare i migranti: a Ventimiglia, quelli che non riesce a stipare all’interno di un campo istituzionale della Croce Rossa, dove ricevono pasti insufficienti e assistenza sanitaria e legale carenti, sono deportati con autobus della Riviera Trasporti e voli di stato nei centri d’identificazione ed espulsione dislocati in sud Italia e in Sardegna.

I migranti non accettano questo trattamento: si insediano prima in una ex stalla divenuta scalo merci ferroviario, autogestiscono un rifugio con beni di prima necessità raccolti da solidali europei e si radunano in assemblee per trovare una soluzione. La polizia taglia l’acqua corrente del posto e impedisce il ritiro della spazzatura, poi sequestra la cucina, il cibo stipato, i medicinali e infine sgombera il campo, accusando i solidali italiani di invasione ed espellendo i forestieri dall’Italia.

Dopo qualche giorno trecento migranti decidono di protestare: uscire dal campo della Croce Rossa prima che i cancelli siano chiusi per la notte, marciare verso la frontiera bassa presidiata dagli alpini e dalla polizia. È impossibile passare, decidono di dormire in un parcheggio lì di fronte. Sopraggiungono solidali europei a portare del cibo per la colazione e soprattutto coperte e felpe, poiché fa freddo, piove e l’asfalto o le aiuole saranno il giaciglio.

Alle 7:00 del giorno seguente la celere, la digos e i carabinieri circondano il parcheggio. Nessuno può entrare o uscire, tranne i turisti o gli abitanti che devono transitare di lì, cui i migranti e i solidali aprono la strada senza opporsi. La polizia si rivolge ai migranti e dice: «Non ascoltate i noborders, vogliono il vostro male! Noi vi faremmo passare, avete ragione, ma è in Francia che vi bloccano». Per via di un’ordinanza del sindaco, nessuno che non sia della Croce Rossa è autorizzato a nutrire i migranti, perciò la giornata trascorre sotto il sole senza cibo né acqua. Solidali che provano a introdurre un pasto completo, cucinato da fuori, sono fermati dalle forze dell’ordine, denunciati per resistenza a pubblico ufficiale ed espulsi per tre anni da 16 comuni della provincia di Imperia.

Intorno alle 17:30 le forze dell’ordine notano due sacchetti di vestiti vicino a un gruppo di africani, accorrono e disperdono la folla poiché ritengono che contengano cibo. I migranti gridano gli slogan scritti su alcuni cartelli fabbricati con pennarelli e magliette bianche o cartoncini: “We want freedom to move, we need to pass, go France, no borders!”. I carabinieri caricano da dietro e manganellano gli africani, si accaniscono su un ragazzo diabetico che un medico solidale aveva preteso di nutrire per evitare che una crisi ipoglicemica degenerasse, poi anche da davanti la polizia rincorre i manifestanti, caccia i migranti, cattura i solidali europei. Li sbatte su camionette, li porta al commissariato di Ventimiglia e poi alla questura di Imperia. Li accusa di resistenza, violenza, oltraggio, invasione, promozione di assemblea non autorizzata e li espelle col foglio di via.

Ventimiglia è ora completamente militarizzata, ogni forma di solidarietà è repressa e perseguita, ogni migrante fuori dal campo della Croce Rossa, destinato a chiudere o a divenire un CIE, è deportato verso il sud e la Sardegna.

È il 2016, l’Italia ha celebrato, l’anno precedente, l’EXPO, segno di amicizia tra i popoli nelle parole del dirigente e neoeletto sindaco di Milano Giuseppe Sala.

Questa estate ero a Ventimiglia, sono stato anche a Como, per qualche ora in quella stazione di San Giovanni, in cui non posso fare a meno di pensare che la notte faccia ancora piú freddo che al mare.

Ora sono a Corfú, in vacanza, su una spiaggia sabbiosa tra le dune dorate e il mare turchese, le pagine di Amitav Gosh mi perseguitano con la loro storia e i miei ricordi mi perseguitano nella loro vitalità e il pensiero di vivere in un paese occidentale, sviluppato, liberaldemocratico, integrato nell’Unione Europea perché fra popoli confinanti vigano la pace e la libertà non mi rassicura. Perché a casa mi aspetta un foglio di via che mi accusa di quattro reati per aver dormito e vissuto in un parcheggio per meno di ventiquattro ore ma, come si riporta in testa al documento, unito al “gruppo antagonista dei cd. noborders”. E penso che questo non è un dettaglio, che quelle denunce mi vengono soprattutto dal fatto di essere contrario alle frontiere e ai confini e che non sono indagato per aver commesso ciò di cui mi si accusa in particolare, ma perché la resistenza passiva che ho esercitato era ispirata a un pensiero in sé: la mia era una unione a una visione collettiva senza un programma scritto, ma con l’idea che l’umanità trascenda questi tracciati territoriali e queste burocrazie statali, e ciò, senza accompagnarsi a reati commessi effettivamente, fa di me piú di ogni altra cosa un potenziale criminale, un eversivo, un pericolo per l’ordine pubblico.

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giorno 1

Partiamo da Milano carichi delle raccolte di beni di prima necessità effettuate nei giorni precedenti. Prima della partenza, apprendiamo che la polizia ha sequestrato la bombola del gas che permetteva ai migranti al campo informale di cucinare in autonomia il cibo che portavamo loro. La polizia ha sequestrato anche quello, svuotando i mobiletti della pasta, dei legumi, dei sughi, delle verdure appena comprate. I bergamaschi rimediano un’altra bombola, l’automobile straripa di casse, sacchetti e zaini ben oltre il consentito: dei tre sedili posteriori, uno è reclinato per lasciare altro spazio al materiale impilato fino al soffitto della macchina. Quattro comode ore di viaggio per quattro passeggeri.

Arriviamo a casa alle 2:00 di notte, uno di quei comuni medievali sulle montagne liguri al confine con la Francia: le rocce bianche e grigiastre delle case sul fianco del monte rifrangono la luce lunare, è tutto cosí idilliaco qui. In casa c’è una prima riunione, la mattina la sveglia sarà alle 6:30 per portare la colazione ai migranti, la situazione è tesa da quando la polizia ha staccato l’acqua corrente, impedisce di raccogliere la spazzatura e ha sequestrato il cibo. I migranti chiedono di passare il confine, al campo c’è un infopoint che spiega come funziona la richiesta d’asilo in Italia e in Francia, delle mappe della zona, alcune informazioni legali in arabo.

La sveglia è dura, ma si sopporta. Dopo una prima colazione a casa, ci si raduna al freespot di Camporosso e si raccolgono latte, tè, biscotti per la colazione; si fa una veloce spesa per aumentare le dosi e ci si reca al campo informale. Attraversiamo la lunga Ventimiglia, i suoi semafori e il suo traffico già attivi alle 8:00, imbocchiamo il cavalcavia che penetra nell’entroterra e usciamo a Roverino, poi svoltiamo a sinistra sul ponte che sovrasta il fiume Roja. In fondo al ponte si trova già una pattuglia della polizia, cosí non entriamo direttamente nello scalo merci che ospita il campo e percorriamo la strada che lo costeggia: la recinzione, in prossimità del campo informale, è stata spezzata dai migranti di modo che possiamo passare loro i rifornimenti ed avere accesso al luogo. Subito ci vengono incontro i ragazzi, prendono tutto quello che scarichiamo, ci salutano, ci aiutano a scavalcare il muretto.

Davanti ho un ampio spazio in cui una cinquantina di africani giocano a pallone, a fianco di un carroponte giallo sotto il quale è stata radunata la spazzatura che non può essere ritirata. A destra c’è una struttura metamorfica: da stalla a scalo merci a rifugio per migranti. Adatta a tutte queste funzioni, è lunga, coperta da un tetto e sopraelevata dal terreno, il pavimento è bucato da fori o strisce che favoriscono l’areazione e che quantomeno impediscono l’accumularsi di sporcizia, il luogo sarebbe piuttosto salubre se sotto il pavimento non si intravedesse che un po’ d’acqua ristagna. La lunghezza dell’edificio è ripartita in zone separate da una parete, ogni zona è chiusa su tre lati e dà su un corridoio porticato che percorre tutto il rifugio. Rifugio: su un cartello è scritto in inglese e arabo: this is only a shelter, not a camp. Sotto il portico corre un canale di cemento non in funzione di scolo e che dunque sarebbe meglio evitare di riempire con alcunché, dato che sarebbe destinato a marcirvi come i torsoli di mela gettati lì da chissà quanto. Prima del canale si trova una doccia artigianale, tuttavia non piú funzionante da quando è stata staccata l’acqua. Oltre il canale iniziano i binari delle ferrovie che riempiono tutta l’area del parco e sono cosparsi di vagoni isolati, lo scalo è funzionante anche se nei due giorni di mia permanenza non ho visto alcuno di essi muoversi. Tra un binario e l’altro vi sono alcune cataste di legno che i ragazzi usano solitamente per coprirsi quando devono fare i bisogni.

Al mio arrivo molti sono già in piedi ma circa la metà è ancora dormiente, assisto alla sveglia dei migranti e dei solidali che si radunano in fila davanti allo scomparto del cibo per ricevere la colazione. I guardiani del cibo distribuiscono con metodo un bicchiere di latte o tè e qualche biscotto, in modo che tutti possano riceverne equamente. Comincio ad accostarmi ad alcuni solidali che parlano ai migranti. Sto accanto a Evelina che si rivolge ai sudanesi nella loro lingua: «Parli arabo?», le chiedo. Risponde con un’espressione divertita, quasi di scherno e dice: «Quel pochissimo che basta per intendersi». Questa è la risposta che danno tutti quelli che senti parlare con gli scebab ininterrottamente, senza difficoltà, ogni giorno. Molti degli europei, almeno quelli che operano sui confini da tempo, parlano arabo e questo è di certo uno dei motivi per cui riusciamo a costruire relazioni piú forti coi ragazzi.

Perché questi africani parlano arabo? Lo parlano perché vengono dal Sudan, uno stato arabo-africano appena a sud dell’Egitto in cui, come scoprirò da Wikipedia dopo il ritorno a casa, dopo la diffusione del cristianesimo dei primi secoli dopo Cristo, si innestò assai rapidamente anche l’islam fin dal ‘600. Dai racconti di Erminia, ragazza che era stata presente anche a Calais, scopro che in Sudan esistono molti gruppi linguistici tuttavia repressi dal governo: nelle scuole si può insegnare e parlare solo l’arabo, tanto è vero che molti migranti, per ribellione politica, rifiutano di parlarlo e comunicano in inglese, mentre altri che si identificano nel gruppo dominante rivendicano lingua e cultura araba.

Decidiamo di fare una distribuzione di vestiti, qui tutti chiedono scarpe di numero 42 ma ne abbiamo pochissime. Dei compagni recuperano dal freespot un po’ del materiale raccolto, quindi una squadra di sudanesi si prepara a scaricarli dalla macchina e a spartirli in uno scomparto del campo. Decidiamo di fornire a ogni migrante interessato alla distribuzione un biglietto, con cui possa chiedere quello che vuole ma che, una volta utilizzato, non sia piú rinnovabile, cosí da evitare che qualcuno acceda a troppo ed altri a nulla. La consegna del biglietto è disordinata, sono lasciato da solo insieme ad Alì e una solidale, uno di noi ritaglia la carta, un altro numera il biglietto e il terzo lo passa ai migranti. Alla fine della raccolta siamo al 242° biglietto.

A metà dell’opera siamo tuttavia interrotti: un gruppo di persone urlanti si avvicina dal campo della Croce Rossa e raccoglie a sé altre persone in agitazione. «La polizia – gridano – la polizia ha preso un sudanese!». C’è molta confusione, tutti gridano, chi parla arabo cerca di seguire: un teser, la polizia ha teserato il sudanese, era a terra, come morto, immobile! Nuclei di scebab si radunano e siedono in assemblea. Alì riporta che un sudanese ha provato a fare la doccia al campo istituzionale senza avere la tessera identificativa, cosa per altro consentita su pressioni del Comitato civico articolo 2, che ha provato a cooperare con la Croce Rossa. Il personale della struttura, nonostante ciò, allerta la polizia: il ragazzo, visti gli agenti, si spaventa e tenta la fuga. È inseguito finché non è catturato e cade a terra. In quel momento passa un’ambulanza, che ferma alla Croce Rossa e presto riparte. Non si chiarisce se siano stati effettivamente usati teser, è piú probabile che il ragazzo abbia perso i sensi nello scontro coi poliziotti e che i sudanesi, poiché nei CIE vedono persone teserate svenire, abbiano attribuito a quest’arma lo svenimento del migrante. Una cosa è certa: il ragazzo sarà arrestato dopo il ricovero.

Il resto della giornata passa a contattare avvocati che possano seguire il processo per direttissima, se ne occupa Evelina: chiama Alessandra Ballerini, esperta civilista e nota per aver seguito, tra le altre, i ricorsi dei giovani stranieri torturati dalla polizia a Genova nel 2001 e poi espulsi dall’Italia. Alessandra non può; lascia altri contatti ma ciascuno ha un motivo per scaricarci.

Quando finalmente, alle 18:30, arriva il riso cucinato al freespot, i guardiani del cibo si rendono operativi e prendono piatti e posate di plastica, che tuttavia non sono evidentemente sufficienti per le 300 persone presenti. Alì, sudanese che dopo l’estate scorsa ha deciso di chiedere asilo in Italia e darsi all’attivismo per aiutare gli altri migranti, si rivolge a noi europei: «Mancano piatti e posate». Subito Minerva, con piglio a metà tra il propositivo, il polemico e lo scocciato risponde: «Non c’è problema Alì, si mettono in fila, prendono da mangiare e, quando i primi hanno finito, passano il piatto a quelli che non ne hanno ancora preso». Mi infastidisce molto questa scarsa considerazione delle esigenze igieniche. Questo quadretto, che dall’esterno apparirebbe in qualche modo razzista, come a dire che gli africani possono accontentarsi di un registro sanitario inferiore, è invece, per chi abbia frequentato qualche centro sociale, solo l’espressione di una mancata coscienza che l’igiene non è un motivo borghese ma una legittima richiesta di dignità e sicurezza, in un contesto in cui le malattie infettive, come la varicella o la scabbia che qualche decina di ragazzi hanno contratto, possono piú facilmente diffondersi. Anche questo voglio dire in assemblea, appena vi sarà occasione. Il giorno seguente ho voluto pagare personalmente la spesa di piatti e bicchieri in piú necessari.

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Identificati

Salah mostra quel lembo cicatrizzato di pelle sulla caviglia e spiega che gli hanno sparato, che in Darfur la guerra è continua, non c’è sicurezza, no security, la vita è a rischio in ogni momento. Perché hai lasciato il Sudan, perché? È la domanda stessa ad assumere un nuovo aspetto ogni volta che la formuli: è sempre meno un racconto come testimonianza e sempre piú una vita pulsante che racconta se stessa con immediatezza. Non stai piú davanti, ma dentro.

Siamo al campo informale, dietro a quello istituzionale della Croce Rossa e della Prefettura, allestito per 180 persone e abitato per quasi la metà della capienza. Entri in carcerosso, come lo chiamano alcuni, attraversando un cancello (chiuso dalle 22:00 alle 8:00) presidiato da una o due camionette di polizia o carabinieri, esibendo un tesserino identificativo che reca una foto e un codice. Dentro ricevi tre pasti al giorno, per quanto scarsi, servizi igienici, assistenza sanitaria. Eppure abbiamo casi di polmonite diagnosticata al pronto soccorso, dove noi dobbiamo accompagnare i migranti dopo che il medico della Croce Rossa prova a curarli col paracetamolo. Lo raccontano i migranti e lo raccontano i medici solidali che vengono a farci visita quando riescono, che hanno accesso anche al carcerosso.

I ragazzi vogliono farsi visitare, si mettono in coda, aspettano tutti il loro turno piú o meno pazientemente: il giudizio dei medici, volontari indipendenti di Genova, è che cerchino una carezza, vogliono qualcuno che si prendi cura di loro con affetto. Molti presentano una semplice disidratazione ma per loro basta applicare qualche cremina per la pelle, altri hanno delle piccole ferite procurate giocando a calcio – ma ci sono anche altre ferite: quelle di chi ha le gambe fasciate perché ha provato a scappare dalla polizia francese sui dislivelli montani lungo il confine ed è caduto male.

Oggi abbiamo riconosciuto due casi di scabbia ma mancano le pomate, da qualche parte ne abbiamo due ma non riusciamo a trovarle. Ero convinto di averne lasciata una in un sacchetto, assieme a vesti e coperte pulite da sostituire con quelle infette, in una delle nostre macchine: mi avvio da solo a cercarla verso l’unico parcheggio il cui accesso non sia sorvegliato dalla polizia, distante dal campo una decina di minuti a piedi. Mentre cammino, mi sorpassa la guardia di finanza. Arrivo alla macchina, il sacchetto della pomata e dei vestiti non c’è: deve essere stato caoticamente sollevato e buttato assieme agli altri vestiti della distribuzione che abbiamo svolto ieri.

Mi arrabbio, cazzo: un medicinale cosí prezioso non può perdersi con questa leggerezza. Anche al campo informale ci sono dei problemi, penso che devo porre all’attenzione dell’assemblea che siamo ancora disorganizzati per alcuni aspetti e che dobbiamo curare molto di piú la questione igienica: raccogliere quelle bottiglie di plastica che si sono accumulate intorno al campo, fornire buste o sacchetti in cui i migranti possano mettere i loro vestiti puliti, gli spazzolini, i rasoi, non buttare sul pavimento della struttura occupata tutto il materiale che portiamo, provare a fare pulizia, fare in modo che i malati di scabbia dormano quantomeno non attaccati a tutti gli altri, come molti hanno suggerito senza che in effetti si realizzasse.

Chiudo il bagagliaio e scorgo la guardia di finanza tornare verso di me, rallentare, fermarsi. «Buon giorno, documenti? Che fa qua? Dove alloggia? Con chi? In hotel o in casa? La macchina è sua? Sa che è parcheggiata su terreno pubblico? Peccato non avere il codice della strada, altrimenti una bella sanzione. perché la macchina era parcheggiata qua anche ieri? Ci fa controllare dentro? Aspetti un attimo, sembra che l’auto abbia un fermo amministrativo. Come? Ah certo, è fortunato che per questi fermi non c’è il sequestro, altrimenti doveva tornare a casa a piedi».

Buongiorno, certo, ecco qua, sono in vacanza, siamo tra amici, sono un volontario, sto al campo, fuori dalla Croce Rossa, venivo a cercare un farmaco, non è mia, non lo so.

«Un volontario o un nobborder? Lei non è un nobborder vero? Eh come, un conto è un volontario un altro sono i nobborder».

Sono un volontario, in nessuna associazione, singolo, vengo qua nel tempo libero. Soffoco il grido che, anche senza militare in un collettivo No Borders, essere contrario alle frontiere è un mio diritto, è un mio diritto democratico, è libertà di opinione, anche per me che sono sempre stato contro le opinioni.

«Aspetti, aspetti che chiamiamo il dottore, venga qua, intanto, sotto il ponte, al fresco, non stia al sole».

Eh sí, fa proprio caldo. «Eh sí, dovreste andare al mare infatti!»

Arrivano la polizia e un agente della digos, il dottore. La polizia controlla nuovamente il veicolo, anch’io butto un occhio sui sedili posteriori e, per terra, leggo la firma di un volantino che per fortuna, non so come, passa inosservata: presidio permanente No Borders. Il digotto mi sta accanto e dice: «Dovete mandarli alla Croce Rossa! Pensate di fargli un favore ma fate solo il loro male, stanno lì nella loro merda, non hanno un letto… alla Croce Rossa ci sono i medici, hanno da mangiare!». Valutare se in queste parole ci sia del vero di cui rimpiangere, sospettare che la promessa di migliori condizioni igieniche in cambio della libertà di gestirsi abbia comunque una fondatezza… e poi rifiutare questa proposta, questo inganno, questa falsità: io so che non è vero, che da noi può esserci sporco, ma non stanno in nessuna merda, che questa frase reca un’infamia razzista, io vedo i ragazzi ogni mattina e prima dei pasti lavarsi dal gomito in giù, io so che i ragazzi per lo meno con noi si sentono amici, perché noi ci parliamo, in inglese o arabo, e non lo facciamo per chiedere loro le generalità ma per chiedere di raccontare una storia o per spiegare come meglio possano avere un futuro. So che i medici della Croce Rossa prescrivono a tutti tachipirina, anche agli scabbiosi, e solo perché io cercavo di rimediare un vero Skab Plus ero identificato dalle forze dell’ordine e la macchina di un amico subiva un processo. So che i pasti della Croce Rossa sono un pomodoro, una minuscola pagnotta, una scatoletta di tonno e mezzo litro d’acqua, e che per questa merce presa all’ingrosso l’associazione ottiene un rimborso di 2,50€. Io so tutto questo ma taccio, taccio perché la verità possa vivere nelle azioni dei solidali. Alla fine ce la caviamo solo con una multa di 740€ per una tassa che non era stata pagata e io e il proprietario, unica persona che mi fosse stato permesso di chiamare per la formulazione della multa, possiamo tornare al campo.

Oggi il pasto arriva alle quattro, è una pasta col tonno, facciamo la coda sotto il carroponte, la polizia appostata fuori dalla breccia nella recinzione inizia a scattare foto a tutti noi che aspettiamo di mangiare, questo veramente fatico a capirlo. Molti si arrabbiano perché il cibo è servito da un migrante che riempie i piatti di pasta e un altro che aggiunge il condimento a mani nude: non il massimo dell’igiene, lamentano e provano ad allontanarlo. Ma egli preferisce proseguire imperterrito in quel servizio non particolarmente gradito alla comunità. Cerco di evitare il pesce nella pasta e un ragazzo mi racconta che anche suo fratello è vegetariano, lui invece non mangia carne di maiale, mangia ciò che è halal, lecito. Quando ho finito il piatto e non c’è piú coda, mi avvicino al banco per chiedere un po’ della pasta avanzata. Subito, in modo quasi servizievole, sono soddisfatto e mi chiedo se cosí avverrebbe se anche altri sudanesi chiedessero il bis.

Qui si vive senza orari, ma il sonno è comunque pesante. Intorno a mezzanotte torniamo a casa, cuciniamo, parliamo, poi, di solito, io sono il primo a crollare. Ho però deciso che, con tutta la stanchezza, devo lavarmi lo stesso ogni sera, perché non ci si può crogiolare nel disagio. È la stessa dignità che pretendono gli scebab del campo, con la sostanziale differenza che io ho una casa cui tornare ogni notte, con una doccia dotata di acqua corrente e un letto con un materasso e coperte pulite. La scorsa notte, per cena, eravamo in casa solo io e Antonio, aspettavamo il ritorno di Cornelio e Chiara. Dopo una giornata passata al campo, mi sono addormentato prima del loro arrivo. Di mattina presto mi giro nel letto e, aprendo leggermente le palpebre, vedo un africano passare in salotto: evidentemente, è stato portato qui a dormire. Piú tardi sento la vescica cosí piena da non riuscire piú a dormire. Mi alzo e vado verso il bagno, e in cucina trovo il ragazzo che prega, spero di non disturbarlo, gli passo di fianco nello stretto spazio a disposizione. Scoprirò solo in seguito che avrebbe testimoniato al processo subito per direttissima dal sudanese arrestato perché voleva fare la doccia senza il tesserino.

Sono ancora nel dormiveglia quando Romilda dice: «Hanno sgomberato il campo informale. Tutti gli scebab saranno portati alla Croce Rossa, mentre i cinque solidali che hanno dormito lì sono stati portati in commissariato». Il peso di queste parole si fa subito addosso, ma ancor piú lo si vivrà nei giorni seguenti senza campo.

Il campo informale è temuto perché l’informale è ancora inaccettabile per le istituzioni ed è ancora rischioso per i rivoluzionari. L’informale è tessuto di complessità. Al posto dell’assistenzialismo la collaborazione, al posto del sedentarismo temporaneo un nomadismo continuo, al posto della legalità la giustizia. Ma anche: al posto di un letto al chiuso una coperta sul pavimento all’aperto, al posto di servizi igienico-sanitari l’intimità che si può trovare dietro una catasta di legno. Tutto sommato, le condizioni materiali risultavano spesso migliori al campo informale, considerato che quando la polizia ha costretto tutti a entrare alla Croce Rossa l’insufficienza di posti ha costretto a sistemare sotto un ponte le brandine che non rientravano nei moduli e, soprattutto, l’eccessivo utilizzo dei bagni chimici ha rotto le tubature e sporcato di feci tutta la zona circostante, anch’essa cosparsa di brandine su cui dormire. Almeno da noi le cure mediche erano, per quanto limitate, reali, chi ne avesse bisogno era trasportato al pronto soccorso e, nei casi di polmonite diagnosticata, ci assicuravamo che continuassero la cura; i pasti erano meno frequenti ma piú completi, chi chiedeva asilo era accompagnato in commissariato a convalidare la richiesta e non rimbalzato tra la Croce Rossa e la polizia, e gli spazi erano adeguati al gioco. Ma da noi tutto era precario e minacciato da una volante o da una camionetta che, se posizionate davanti all’ingresso del campo, non lasciavano passare nessuno e gli aiuti non potevano raggiungere gli interessati.

Cosí è bastata un’operazione di polizia per sgomberare l’area e sequestrare, insieme alle pentole, ai medicinali, al rifugio, tutto il lavoro costruito in una settimana, che avremmo dovuto riprendere quasi dal nulla.

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Impressioni: il cibo, la lingua, i giacigli

Mi è stato offerto un biscotto con del latte il mio primo giorno al campo, mentre i guardiani del cibo distribuivano la colazione. Giovedì degli etiopi mi hanno offerto un succo di frutta che una signora francese aveva appena lasciato loro. Prima di mangiare il biscotto ho pensato che non avevo lavato le mani e che tantomeno non le aveva lavate la persona che viveva al campo informale; prima di bere il succo, penso che tutti i ragazzi raccolti sotto il cavalcavia avevano bevuto a canna direttamente dal cartone. Ma subito accetti perché la convivenza prevale sulla diffidenza, non puoi né vuoi rifiutare, anzi è cosí piacevole e conviviale condividere il cibo, soprattutto quando è scarso!

Il secondo pomeriggio al parco Roja Ahmed, su mia proposta, mi faceva scrivere sul quadernino che avevo portato una carrellata di espressioni in arabo. Ciao, salam aliqu, marhab, come stai? kei pha hala?, tutto bene, tamam, non proprio, schwei schwei, certo che sí! mia mia, io, anà, tu, hanta, please, orgjù, e poi questa parola, importantissima, müškəla, problema: ogni volta che sento parlare un sudanese, la sento dire, gridare. Qualche verbo, vedere: johùr: io vedo: anà ahùr, venire, tahàr, come with me, tahàr mai. Gli etiopi mi hanno scritto invece i numeri da uno a dieci in amarico, lingua con proprio alfabeto, e in afar, scritto a caratteri latini. Sono stati affettuosissimi.

Fino a quando guardavo le coperte scolorite, ieri stese a terra, nel lento scorrere del giorno e nello scavallare le montagne del sole, vedevo gruppetti di ragazzi giocare a dama, due squadre giocare a pallone, i solidali chiacchierare tra loro, poi, stanco di stare in piedi senza nulla di particolare da fare, mi sdraiavo su uno dei giacigli facendo tacere il timore di prendere la scabbia. Capisco adesso che quella posizione sdraiata, dovuta non alla spossatezza dell’attività brulicante ma alla vertigine del precariato incessante, non solo del non sapere se domani si potrà mangiare ma piuttosto del dove si sarà e se si sarà ancora clandestini senza diritti, in balia dell’interventismo della polizia, quella posizione è l’esistenza di questi africani.

Senza campo

È il quarto giorno senza campo informale. Nei giorni scorsi abbiamo girato Ventimiglia per cercare i gruppi di scebab fuori dalla Croce Rossa, ma ne abbiamo trovati pochi. Abbiamo scoperto che all’interno del campo c’è grande disagio, molti vorrebbero uscire, ma i pochi che rischiano, se incontrano la polizia, sono con ogni probabilità rastrellati e deportati coi bus che tutte le mattine partono dalla frontiera alta. Alcuni dormono lungo il Roja, riparati dalla fitta vegetazione che crea veri e propri boschetti sull’ampia sponda del fiume. Ieri io e Ludmilla, medico, abbiamo incontrato qualche senegalese e, mentre io mi inoltravo tra gli alberi perché avevo notato un altro gruppo, lei sedeva sulla riva con un somalo che le propose di essere pagato per del sesso e, in seguito a un suo primo rifiuto, del sano e semplice sesso gratuito. Quelli nel boschetto avevano una piccola tenda e delle pentole, evidentemente donate loro da qualcuno, con cui riuscivano a cucinare. Li vedevamo lavarle al fiume sfregandole con olio e sabbia. In un altro punto una coppia di uomini faceva il bagno nelle acque fresche, nella speranza che il Roja non fosse troppo contaminato.

Oggi decidiamo di portare il cibo. Abbiamo già intervistato alcuni dei ragazzi sotto il cavalcavia delle Gianchette, ci hanno parlato della fame e della trascuratezza subite alla Croce Rossa e un po’ del loro viaggio, di come sono tutti rinchiusi nei CIE del sud, costretti a forza a fornire le impronte digitali e poi lasciati allo sbando. Chi tra loro è determinato a lasciare il paese raggiunge il nord in treno, se evita le stazioni controllate dalla polizia. Uno di loro si avvicina salutandoci, lo avevamo già incontrato: racconta di aver subito una deportazione particolare: sceso dal mezzo delle forze dell’ordine che lo trasportava, si era trovato di fronte alla scritta TRENTO. Mostra un biglietto del treno Trento-Ventimiglia, dice che ci ha messo cinque giorni per tornare qui, e che in questo tempo non ha mangiato nulla.

Oggi decidiamo che non si può non assecondare la loro richiesta di cibo, carichiamo la macchina di zainetti riforniti delle provviste raccolte a Milano e Bergamo. Prima di partire, due compagne del freespot ci bloccano: «Fate quello che volete, ma fermi un attimo: questo è assistenzialismo». Facciamo notare che il cibo è stato raccolto apposta per essere dato ai migranti, non tenuto chiuso al quartier generale, e che inoltre stiamo costruendo relazioni politiche con i fruitori della distribuzione. «Nono, liberissimi di agire come ritenete, anzi provate, vediamo che cosa succede. È solo per avvisarvi che noi non lo abbiamo mai fatto».

Arriviamo al cavalcavia, troviamo le persone, iniziamo a scaricare poco alla volta la macchina. Passiamo la giornata con questo gruppetto, attenti a nasconderci dietro il muretto quando per la strada passano le pattuglie della polizia: qui a Ventimiglia una circolare della prefettura vieta la distribuzione di cibo se non si è accreditati in Croce Rossa, circolare che sarà in qualche settimana convertita in ordinanza dal sindaco Iuculano, del Partito Democratico. Nel tardo pomeriggio siamo ormai una quarantina di persone, poi salutiamo i ragazzi e ripartiamo per un’assemblea. Qualcuno mormora che i sudanesi siano stanchi della Croce Rossa, che vogliamo marciare verso la frontiera. Alcuni migranti e alcuni solidali non sono contenti della cosa, se ciò comportasse una risposta repressiva molto brusca potrebbe rendere la situazione inagibile.

I balzi rossi

A gruppi di 60, gli scebab sono usciti dai boschi sul fiume e si sono incamminati lungo la ferrovia. Alcuni solidali li hanno seguiti. Noi torniamo al freespot, poi ripartiamo e ci uniamo a loro quando sappiamo che la destinazione è stata raggiunta: i balzi rossi, la località al confine sui cui scogli erano arroccati lo scorso anno. Trepidiamo e tremiamo.

Dormo nell’aiuola, sotto una palmetta.

Il giorno dopo, quando non parliamo tra noi o non cerchiamo di risolvere la tensione tra la polizia e i solidali che cercano di entrare, o tra i mediatori ufficiali, il sindaco, l’assessore e i migranti, che non sono intenzionati a tornare al carcerosso dove vorrebbero rispedirli senza che fiatino, mi metto al sole e guardo il mare azzurro, a tratti c’è un bel vento e questa situazione mi sembra particolarmente assurda. Riconosco un sudanese con cui avevo già parlato al campo.

Amico mio, come stai? Bene grazie, bene, tu? Tutto bene. Che cosa facciamo ora? Vedremo che cosa ci lasceranno fare. Per quanto tempo starai ancora qui? Per poco, devo tornare a casa, la mia famiglia mi vuole indietro, sono molto preoccupati. Oh sí amico, la famiglia è importante. Sei già stato qui abbastanza, ricordo che eri al campo, eri con noi. Ricordiamo bene, hai già fatto tanto. Ti ringraziamo, ricordiamo la solidarietà. Grazie. Lo abbraccio mentre i miei occhi si riempiono di lacrime.

Non è vero, non sono stato tanto e non ho fatto tanto, ora vedo quanto di piú avrei dovuto rompere le scatole, impegnarmi, non distrarmi. Ma sentire anche quanto queste persone, che hanno rischiato la morte cosí spesso, in Africa, in Libia, dove molti di loro sono stati rinchiusi e torturati, e ora qui, in Unione Europea, si ritrovano chiusi in questo stupido parcheggio davanti a questa stupida frontiera che quel presidente socialista, François Hollande, Dio mio, quanto avevo rimpianto che in Italia non potesse esserci un Hollande che guidasse la sinistra alla vittoria, quanto non avrei creduto allora… lui che ha chiuso questo muro…! Ma non importa! Queste persone sono lo stesso cosí grate per il lavoro che facciamo con loro, che uno mi chiede di lasciarli per tornare alla tranquillità della mia famiglia. Questo abbraccio confuso, questa stretta di mano non le scioglierà la questura d’Imperia.