Sciamanìnn!

Il racconto di esordio di Giuseppe De Pinto è la storia di un Mezzogiorno alle prese con la deindustrializzazione, le difficoltà del lavoro che viene a mancare. Senza mai piegare la testa.

Di Giuseppe Daconto

Sembra l’urlo di battaglia lanciato da un capo Cheyenne* in qualche film western, nella realtà non siamo nel Wyoming negli USA, nel deserto dove attecchisce, purtroppo, Trump, ma siamo in Puglia, alle prese con altri tipi di desertificazione. Precisamente nel Barese, sulla costa a Nord. In una cittadina che si chiama Giovinazzo.

“Sciamanìnn” nel dialetto locale significa “andiamo!” ed è il titolo del racconto di Giuseppe De Pinto, al suo esordio narrativo, edito da Feltrinelli per la collana ebook Zoom Wide.

Siamo a metà degli anni Ottanta, in una famiglia semplice alle prese con le difficoltà e gli sviluppi del proprio tempo.

Nino, il protagonista, adolescente, si confronta con un padre, e una madre, dai forti valori, figli della cultura contadina, che significa lavoro, fatica, adattamento che si imparano, da queste parti, sotto gli alberi di ulivo ai tempi della raccolta.
La modernità è rappresentata da una macchina nuova: la 127, la vecchia macchina del contadino operaio, funziona ma non è di moda. Le esigenze della generazione che avanza, quella dei figli, sono motivo di dialettica.

Non sempre ciò che nuovo è bene.

La sorella Emma è la voce saggia, un po’ secchiona, e lo è con il piglio di chi, in maniera delicata, si relaziona per fluidificare i conflitti in famiglia come in amore.

Tutto attorno, c’è un paese che cambia nel suo tessuto economico e sociale. Il lavoro ne è il perno.

Il padre dopo anni come operaio nella grande fabbrica di paese, le Acciaierie e Ferriere Pugliesi, alla sua chiusura si trova senza lavoro, anzi senza il lavoro di una vita. Quindi si barcamena per mantenere la famiglia, gli studi dei figli e, sostanzialmente, accesa la vita. Come oltre mille lavoratori di questa piccola città.

Questo grande impianto siderurgico, ancora visibile oggi nel suo scheletro da archeologia industriale, ha rappresentato molto per Giovinazzo, e non solo. Lavoro che in alcuni picchi ha interessato oltre mille e cinquecento operai, le case costruite a ridosso della fabbrica per gli operai, una villa antica adibita a Parco per le famiglie degli operai, di recente restituita alla collettività, con annesso campo per gli allenamenti della squadra di hockey su pista sponsorizzata e dal nome AFP (nota come “la Juventus del Sud”), squadra che ha prodotto campioni nazionali e mondiali e che era, ed è, l’orgoglio della città.

Ma quella fabbrica è stata anche fucina di classe operaia, sindacale e politica, per dire, la Fiom aveva una sua sede a Giovinazzo. Lo stesso sciopero ma anche i temi della salute e della sicurezza sul lavoro sono stati una conquista.

Senza dimenticare, quello che gli economisti definiscono come “esternalità”, ossia i problemi annessi alla sostenibilità ambientale, non ancora del tutto risolti oggi.
Insomma, tutto quello che si definisce fordismo, ossia impresa capitalistica ad alto contenuto di capitale e lavoro con sfumature sociali di stampo paternalistico.
Il mercato e scelte politiche e imprenditoriali non del tutto giuste e lungimiranti ne hanno determinato la fine.

Una fine contrastata da una città in lotta e per giunta da un vescovo illuminato, Don Tonino Bello, che non si risparmiava al megafono delle manifestazioni.
Attraverso la dialettica tra Nino e il padre si scoprono nel racconto i riflessi più intimi di questa vicenda, che evidentemente, come tutte le perdite di lavoro, non rappresenta solo una perdita di reddito.

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La città prova a rimboccarsi le maniche ma la prima reazione è partire per il Nord dove l’industrialismo, anche quello siderurgico, aveva ancora bisogno di forza lavoro. Come fecero in tanti e come fa Nino, in maniera determinata e buona compagnia di compaesani.

Perché il lavoro è innanzitutto dignità.

I critici letterari potrebbero etichettare “Sciamanìnn” come romanzo di formazione. A tratti lo è anche di informazione. L’informazione sta nel raccontare, anche utilizzando alle volte le espressioni colorite del dialetto, ciò che dalla metà degli anni Ottanta forse non si è ancora del tutto arrestato.
Ossia la fine dell’industrialismo pesante come paradigma di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia inizia a quei tempi, a seguire si è scoperto invece che il paradigma poteva essere “piccolo è bello”, poi è stato il momento dei distretti e via con altri paradigmi fino ai giorni nostri. Un’unica costante, oltrettutto accentuata negli ultimi tempi : l’emigrazione, a malincuore, verso altrove, il Nord come l’estero, con la nostalgia di dialetti, sapori, odori delle proprie radici.

Senza sviluppo non c’è lavoro, se non si lavora si vive a malapena.

Anche l’autore è un ingegnere emigrato per lavoro. Ci siamo incontrati quando era a Bruxelles proprio nelle vicinanze dei palazzi della Commissione Europea, da dove sono partiti, e partono, spesso regolamenti e direttive influenti, anche in maniera negativa, sullo sviluppo dei paesi e i territori dell’Unione Europea.

Ora è tornato in Italia, ci incontriamo in piazza durante le vacanze estive.
Come molti emigrati del Mezzogiorno d’Italia.

“Sciamanìnn”, ad esempio, lo diciamo quando tocca andare da qualche parte, anche semplicemente rincasare.
Insomma sì, suona come un urlo di battaglia. Di chi, in tutti i Sud, a testa alta, lotta, seriamente, con coraggio e lealtà ma si rialza sempre.

 

* Termine con il quale, tra l’altro, a Bari si indicano soggetti, dalla forte cadenza dialettale, soliti andare allo stadio abbronzatissimi con capelli a doppio taglio e Peroni (più d’una) sotto braccio.