Venezuela. Lungo il Rio Caura

Guardo la pagina bianca a poco più di una settimana dal ritorno in Italia e non so da che parte cominciare.

Testo e foto di Alessandra Governa

Non ho scritto nulla in viaggio, solo alcune parole qua e là. Nulla di organico o di profondo. Nessuna riflessione o analisi su ciò che ho ascoltato, su ciò che ho guardato dal finestrino nelle interminabili ore di viaggio su strade sconnesse, su ciò che veniva risposto alle mie domande.

Nessun appunto dal Venezuela. O meglio dai Venezuela. Quello indigeno e quello criollo. Quello urbano e quello rurale. Quello della classe media che diventa povera e di quella povera che diventa più povera. Quello del petrolio e di Chavez, del nazionalismo e del mercato nero.

Il rio Caura, nel Sud Est del venezuela, scorre placido davanti all’acampamiento, accogliente ma spartano, in cui ho convissuto con donne di tre comunità indigene diverse. Intorno la selva. Imparo a riconoscere la sarapia, una sorta di albero della cuccagna per i benefici nascosti nei suoi frutti, datteri secchi dal sapore di noce moscata vanigliata. E imparo che a colazione, pranzo, cena, l’alimento che non può mancare è l’arepa di mais, l’equivalente della tortilla di altri luoghi.  A pochi metri alcune case, uno spiazzo sterrato che funge da piazza principale, una scuola nel cui cortile è piazzata un’enorme parabola. La parte viva del villaggio è però il bar, una costruzione di legno con una tettoia. Se arriva gente, si alza una serranda, compaiono cassette di plastica e qualche sgabello per sistemare al meglio gli avventori e parte la  musica. Un po’ melensa, per la verità.

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Col buio, poi, inizia un intenso, metodico, automatico via vai di prodotti. Casse di olio, farina, zucchero, sapone, merce per lo più di importazione (brasiliana in questo caso) e introvabile in altre zone del paese o acquistabile, ma a prezzi proibitivi. L’invitato costante al bar è quindi il mercato nero, favorito dalla relativa vicinanza con la frontiera e dalle vie d’acqua. I portantini sono indigeni e lavorano in cambio di cibo (o almeno così mi raccontano).

Il rio Caura. Narra una leggenda Ye’kwana che per impedire il passaggio degli spagnoli predatori, gli dei abbiano trasformato le loro navi in scogli, visibili solo quando il fiume non è in piena. È stagione delle piogge ma il fiume non è ancora gonfio e arrabbiato. Un bene per le oltre 200 comunità che vivono lungo il suo corso e per le quali, il rio, è l’unica via di comunicazione.

Se lo si percorre tutto, fino al Salto Parà, ci vogliono 5 giorni. In periodi di scarsità di nafta o di prezzi stellari, gli spostamenti sono proibitivi. Come adesso. Proibitivi per le comunità, non per chi vive dell’attività mineraria, illegale e non.

Finché non vengo fermata da soldati armati di tutto punto ma con facce da bambini, non posso credere che esistano i posti di blocco anche su un fiume così. Eppure qui si controlla che tutte le imbarcazioni abbiano un regolare permesso di circolazione. Il governo, ancora quello di Chavez, invece di promulgare la legge che riconosceva la “proprietà” della terra alle comunità indigene, ha preferito vendere concessioni minerarie a cinesi e russi, tra gli altri. In tanti così, da queste parti, si sono riciclati minatori, o in proprio o alla mercé di qualcun altro. Una pepita. Il sogno della pepita ha preso spesso il posto del lavoro quotidiano nelle fincas. Soprattutto ha gonfiato prezzi e costo della vita e ha messo a repentaglio l’ecosistema della zona, ricchissimo in fatto di biodiversità. Chi ci guadagna davvero, mi dicono, è l’esercito.

Mentre gli uomini cercano l’oro, le donne delle comunità indigene, intrecciano palma e fibre native per creare vasi e ceste. Oppure tessono perline per collane e bracciali da vendere ai turisti o a un mercato locale che piano piano sembra accorgersi di loro. Qui, come altrove, non è facile essere donna e indigena. Ma, per come la raccontano loro – occhi neri profondi e fieri, capelli lunghi lisci, piedi scalzi appena possibile – nemmeno così difficile. La sveglia è alle 4,00 per preparare la colazione a tutta la famiglia: prima gli uomini che devono occuparsi del campo e delle bestie, poi i figli che devono andare a scuola. Poi inizia la giornata di lavoro artigiano: c’è chi lavora nel taller di qualcun altro (oppure tesse a casa e viene pagato a pezzo) oppure c’è chi lavora in proprio e oltre che artigiana è anche un po’ imprenditrice. Non facile se anche lo spagnolo è, nel quotidiano, una lingua straniera. Trovare clienti è il cuore, trovare clienti per prodotti che hanno una storia da raccontare. Una storia che passa, qui come altrove, dal sentirsi tutt’uno con la Madre Terra, con la naturaleza. Dal rivendicare le proprie origini e la propria appartenenza alla comunità. In più, dopo o inframmezzato al lavoro artigiano c’è la cura della casa, della famiglia, la preparazione del cibo, le difficoltà logistiche ed economiche. Perché qui, fuori da ogni retorica, i soldi del petrolio non sono mai arrivati a giudicare dalla condizione delle case e delle strade o dall’assenza ad esempio di presidi medici.

Sono arrivati i sussidi, certo, o i prezzi calmierati, che però alla lunga più che sostenere e sviluppare hanno creato una sorta di abitudine e di propensione all’assistenzialismo.

Faccio fatica a sperimentare sulla mia pelle cosa davvero voglia dire questo senso di comunità, questa comunione. Questa eterna lotta tra l’identità e la modernità, tra l’essere e l’avere, tra il conservare e il rivoluzionare. Questa contraddizione in termini tra la narrazione antica e gli effetti delle miniere, della crisi del prezzo del petrolio, della violenza che sta crescendo anche se non ai livelli dei contesti urbani, di politiche a volte populiste che contribuiscono alla scomparsa di alcune coltivazioni, sostituite da prodotti confezionati, dei saperi tradizionali, dei rimedi naturali o anche solo dell’abitudine alla  stagionalità.

L’isolamento dei giorni passati sulle rive del Rio Caura produce strani effetti per chi è abituato a viversi costantemente in movimento e connesso con mondi impalpabili e lontani, per chi – come me – ha un lavoro spesso fatto di parole e non di pratica, per chi si concepisce fuori dal mondo se come confini ha proprio il mondo fisico. Seduta con i piedi in acqua, controllo che non vi siano piccoli pirana (spero che la traduzione dallo spagnolo sia in senso ampio, pirana come pesce e non pirana come specie particolare di pesce) nei dintorni, guardo le donne wayu, warao e ya’kwana fare il bagno vestite e ascolto chi mi racconta la sua felicità nell’aver appreso come si fanno le borse a telaio. Io penso alla via di fuga da un contesto sempre uguale a se stesso, chi racconta pensa alla bellezza di una novità, all’importanza del recuperare una tradizione. Chi mi parla non ha un cellulare, una mail, un profilo facebook e per venire lì, sul greto del fiume con me, ha preso un aereo per la prima volta e vorrebbe che io tornassi, che io andassi a conoscere il suo villaggio, su su, al confine con la Colombia. Chi mi parla ha ventotto anni, è vestita con un vestito rosso ricamato e stretto in vita, lungo e con lo scollo tondo che lascia scoperte solo in parte le spalle e non ha un fidanzato. Lo vorrebbe, così, una volta sposata potrebbe avere una casa sua. Fino ad allora è giusto che rimanga in famiglia ad aiutare.

Chi mi parla, guarda il fiume cambiare colore al tramonto, quei minuti di eternità silenziosa prima dell’arrivo dei mosquitos e del buio spesso totale per via dei tagli di corrente. Siamo lontane dai nomi della politica, dalla fame e dalla paura. Siamo vicine. Siamo tanto vicine.

 

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