La rivincita

pesci-rossi
Qui non smette di nevicare. Ne scende tantissima e attacca subito. Domani sera, dopo cena, ritorno a casa: mi sa che questa volta le catene devo proprio usarle.

Un racconto
di Gaia Grassi

Per il momento faccio un giro con Ollie, che non vuole saperne di fare la pipì. Non fa freddo. La neve scricchiola sotto le suole e intorno è tutto giallo. Un po’ per le luci, un po’ per i riflessi.

Ho dimenticato a casa un guanto: ne indosso solo uno. E, a guardare una mano vestita e l’altra nuda, mi è venuto in mente un ricordo. Di millemila anni fa.

Avrò avuto cinque anni, non di più. E avevo dei guanti bellissimi, di lana. Quelli con solo il pollice separato. Mi pare si chiamino moffole. Boh. Erano a forma di bambina. Nel senso che sul dorso c’era la faccia di una bambina e la parte che conteneva le dita era un cappello. E dal cappello scendevano due trecce gialle che pendevano di lato. Erano magnifici: i guanti che ogni bambina avrebbe voluto.

Un pomeriggio stavo passeggiando con mio nonno a Foppolo: camminavamo nella neve altissima verso il monte Toro e ci siamo fermati su un ponticello di legno a guardare il ruscello che passava sotto – e ci passa ancora, solo che ora il ponticello è un vero e proprio ponte, in acciaio – e che credo poi diventi il fiume Brembo (o comunque un suo affluente. Un giorno lo chiedo al mio portinaio che sa tutto). C’erano un sacco di ramoscelli e di pigne che passavano sotto i miei piedi dondolando sulla superficie dell’acqua e, nell’indicare al nonno un sasso bellissimo che avrei tanto voluto raccogliere, mi è caduto un guanto. Tragedia. Ricordo che mi è mancato il fiato. Non riuscivo nemmeno a piangere: non avevo voce. Ricordo anche che ho guardato il nonno con occhi imploranti, ma il guanto era già scivolato via. Mi sono alzata di scatto e sporta dall’altra parte del ponticello: il guanto era lì, che scivolava nell’acqua sotto una sottile lastra di ghiaccio. Lo vedevo allontanarsi e mi sembrava persino che la bambina di lana mi chiedesse aiuto: è stato straziante. E lo è tuttora il ricordo. Che ogni tanto torna a galla, come quando ascolto “Un guanto” di De Gregori .

Mio nonno allora mi ha preso per mano per portarmi a casa e per tutto il sentiero, trascinandomi, cercava di consolarmi raccontandomi che il mio guanto sarebbe diventato una comoda casetta per i pesci.

Io intanto guardavo l’altro guanto e pensavo al dolore che sicuramente stava provando. Ho sempre avuto un po’ il senso del tragico. Fin da piccola. La mia bisnonna mi chiamava Eleonora Duse.

Una ventina di anni dopo, è successo di nuovo. A Parigi, questa volta.

Nevicava anche quel giorno e uscendo dal Louvre mi sono accorta di avere un solo guanto; a distanza di tanti anni, ho provato lo stesso tuffo al cuore. Il pomeriggio dopo, nonostante si cercasse di dissuadermi perché “è impossibile ritrovarlo, perdiamo solo tempo”, sono tornata al museo e ho chiesto all’ufficio informazioni se avessero trovato un guanto in camoscio con l’interno in pelo. Un signore di 300 anni ha preso un registro gigante con una spessissima copertina in pelle marrone e si è messo a sfogliarlo. Leccava le dita con dissimulata attenzione – solo la punta dei polpastrelli, né più né meno – per girare quei paginoni a righe vergati in un’elegante scrittura che riportava l’elenco di tutti gli oggetti ritrovati di giorno in giorno. E sì, risultava avessero trovato proprio un guanto in camoscio con l’interno in pelo, ma doveva vedere l’altro, il superstite, per ridarmelo.

Ovviamente non lo avevo con me e la mattina successiva sarei ripartita. Il vecchietto però era irremovibile. All’improvviso mi è venuto in mente un dettaglio: all’altezza del polso, verso l’interno, c’era una bruciatura di sigaretta. Ce l’avevo fatta: il signore si è convinto, è entrato in una stanza dietro di lui e dopo 10 lunghissimi minuti è tornato con il mio guanto.

Li ho baciati entrambi: il mio guanto e il vecchietto che, sebbene sfoggiasse un enorme sorriso di soddisfazione, ha voluto comunque la fotocopia di un mio documento. Poi mi ha fatto firmare il registro con una splendida stilografica a inchiostro nero. E così me ne sono tornata a casa nel Marais, con la mano destra sporca di inchiostro e la sinistra nel guanto. Al suo posto.

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