Caracas

Non è la parola di Caracas.
Non prendere il primo taxi che ti capita.
Non camminare da sola in centro.
Non uscire col buio.
Non usare la metropolitana.
Non fermarti al rosso ai semafori.

testo e foto di Alessandra Governa

Caracas è da un anno a questa parte una città negata, una città strappata ai suoi cittadini.

Arrivo di sera, sotto un acquazzone, inerpicandomi per una strada buia costellata di posti di blocco, di torrette di controllo, da qualche scritta pre-elettorale.

“Guarda lì.” Attacco gli occhi al finestrino, faccio slalom tra le gocce e, tra i cespugli a bordo strada, intravvedo le pettorine gialle dei militari.

“Sono lì per difenderci.” La risposta, sarcastica, anticipa una mia prevedibile domanda.

“Prima hanno reso insicura la città, poi la difendono”, chiosa Soliria, per gli amici Sol, la mia interlocutrice, nel caso non avessi capito il concetto e la sua posizione nei confronti del governo. Il bisnonno di Sol era partito qualche anno prima dell’unità d’Italia dalla provincia di Vicenza e lei non fa mistero di voler tornare alle origini. Ogni tanto mi chiede di parlarle italiano, la accontento anche se non sono sicura del risultato.

Ancora qualche curva e lo spettacolo si svela. Luci inerpicate sulle colline. Luci una sull’altra che fanno immaginare scale e viottoli pedonali più che strade asfaltate. Luci sovrapposte che sanno di case attaccate, poca intimità, arrivi recenti, povertà. Penso istintivamente a La Paz e al suo fascino decadente.

Il traffico del venerdì sera per essere quello di una capitale è contenuto. Alcune vie, pur centrali, sono deserte. Altre sono popolate da sacchetti della spazzatura e persone che stanno aggiustando il loro giaciglio per la notte. Non so se c’è una geografia della povertà: ognuno preserva di sera in sera il suo cantuccio oppure chi prima arriva, meglio alloggia? Non riesco a non pensare a Elena, alla sua ossessione per il meteo e per la pioggia che a Ventimiglia complica la vita ai migranti che dormono sotto il cavalcavia. Qui anche se siamo nella stagione delle piogge e a mille metri di altitudine, la temperatura raramente scende sotto i venti gradi. La fortuna di essere poveri ai tropici.

Fino all’anno scorso, queste scene non si vedevano o non erano così frequenti. Gli addetti alla nettezza urbana, mi raccontano, non raccolgono la spazzatura per lasciare il tempo a chi ne ha bisogno di cercare direttamente nei sacchetti. L’attività più frenetica è quella di chi si accalca vicino alle cucine dei ristoranti. Chi passa e guarda, non è contento. Si lamenta per la sporcizia, per i cani randagi, per la puzza di pipì, per il poco decoro.

Sbircio dentro ai locali, alcuni semi vuoti, altri pieni e sorridenti. Il taxi mi lascia nel parcheggio sotterraneo dell’albergo. Non è sicuro scendere per strada, seppur a qualche metro da un ingresso sorvegliato. Mi sento in trappola salendo all’undicesimo piano.

Sento le lacrime che scorrono guardando la città dai vetri. Ho davanti un acquario di cemento, per lo più grigio e con grate alle piccole finestre. Non la noto subito, la dimensione ridotta, me la spiegano il giorno dopo. Molti di questi parallelepipedi che non concedono nulla all’estetica, sono stati costruiti da architetti bielorussi e si sa, in Bielorussia fa più freddo che in Venezuela, quindi più che alla luce hanno pensato a come trattenere il caldo all’interno. Doppia beffa per gli inquilini, per lo più famiglie che dai barrios più poveri sono stati progressivamente spostati lì e che possono alloggiarvi a titolo gratuito senza però poterne mai riscattare la proprietà.

“Era così bella Caracas”. La voce di Sol alterna nostalgia e rassegnazione. Del gusto italiano arrivato a ondate con gli immigrati (da fine ‘800 il Venezuela è stata una delle mete di veneti, piemontesi, liguri) e dello stile “rubato” a Parigi da un architetto innamorato dello charme francese confesso che è rimasto ben poco e non solo perché le viviendas solidarias sono nate un po’ come funghi e senza un costrutto urbanistico.

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Sento le lacrime che scorrono, sono di rabbia e di tristezza. Per chi, anche stasera dormirà all’aperto. Per i tre venditori di accendini e caramelle che mi hanno chiesto, al ristorante, di poter finire la porzione di riso e pollo che avevo avanzato. “Quando sarò grande sposerò uno che mi piace e lavorerò come infermiera” è la risposta che uno dei tre, una ragazzina che avrà avuto si è no tredici anni, dà al cameriere che mentre li accompagna alla porta raccomanda loro di studiare. Non c’è cattiveria nelle sue parole, non c’è fastidio nei suoi occhi e nei gesti. C’è la gentilezza di chi sa che potrebbe capitare anche a lui e la mitezza nel chiedermi Scusa, prima non era così.

Prima non era così. Ancora il non. Se penso alla condizione delle strade e delle case delle comunità indigene che ho visitato solo fino al giorno prima, faccio fatica a credere che prima non fosse così. Forse è solo una questione di numerica. Prima non era così evidente. Forse è solo una questione che quando capita a uno che potresti essere tu, ti sembra più grande, più grave, più senza ritorno.

Cerco in questa città impregnata di Ugo Chavez (le scritte e le immagini non sono del Presidente attuale, il cui appeal iconografico non sfiora nemmeno quello del suo predecessore) le “prove” di quanto ascolto. Cerco negli sguardi delle persone in fila davanti ai negozi, l’inflazione alle stelle (100 dollari mi vengono cambiati con 63,500 bolivar), la pena per non trovare medicinali salvavita, l’umiliazione per la carta di debito non accettata (spesso per problemi al sistema elettronico di pagamento più che per l’effettiva assenza di denaro sul conto).

“Non è che non c’è da mangiare. È che non c’è più quello a cui eravamo abituati.” Ana è una contabile in pensione, ma arrotonda aiutando il fratello. È pacata e lucida nell’elencarmi le tappe del giro dell’oca che settimanalmente percorre per recuperare le pastiglie per la pressione per la suocera o gli ingredienti per la cena.

“In campagna ancora ancora se hai delle bestie o una finca, te la cavi, ma in città no. Se prima eri abituato al preparato per fare le arepas con farina di grano, ora bisogna procurarsi la farina di mais e la preparazione della cena si allunga di due ore.”

Meno petrolio, vuol dire meno liquidità. Meno liquidità vuol dire meno importazioni (al netto del mercato nero) sia di prodotti finiti sia di materie prime e quindi meno produzione interna. Più inflazione vuole dire meno capacità di spesa (il salario minimo per il lavoratore urbano è di 22.500 bolivar) e meno esportazioni.

Il Venezuela ha fame perché il suo governo è incompetente, corrotto, troppo presuntuoso per ascoltare i consigli anche di governi amici oppure il Venezuela ha fame perché il prezzo del petrolio è stato abbassato ad arte?

È domenica e sui marciapiedi i cartoni e le coperte della notte hanno lasciato spazio a mercatini improvvisati. Chi ha qualcosa, lo vende. Chi ha due soldi, compra. Non mi pare diverso da tante altre città del sud del mondo che ho attraversato negli anni.

Non è che lo scontento delle persone che ascolto è ingigantito dalla loro opinione politica, dalla loro avversità a Maduro?

“Non ci rimane che il referendum come via legale e pacifica per il cambiamento.” Il cambiamento desiderato, va verso destra, verso il liberismo, verso tutte quegli -ismi di cui ho imparato a vedere gli effetti negativi a tutte le latitudini. Il referendum porterebbe a nuove elezioni solo se avvenisse prima della fine dell’anno. Altrimenti l’unico risultato sarebbe la destituzione del Presidente a favore del suo Vice.

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“Sai cosa fa stare tranquilla la gente? Il mercato nero e i pacchi dei famigliari che vivono all’estero. Loro lo sanno e lo tollerano. Se non avessi mio figlio a Miami che mi manda zucchero, farina e prodotti per l’igiene personale, sarei davvero in difficoltà.”

Le parole di Sol rimangono in testa, nette e inequivocabili. La strada, però, mi restituisce un quadro più complesso di quello dipinto dalle teorie del bianco o del nero, del complotto americano o dell’incapacità del governo. La strada mi restituisce contraddizioni che sono proprie della vita micro, quotidiana, dell’arte di arrangiarsi e della necessità di sopravvivenza.

Accanto alle case colorate dei barrios più periferici e all’iconografia del somos un pueblo valiente (che è il corrispettivo del venceremos cubano) ci sono ville, haciendas, suv e centri commerciali luminosi. Ci sono banche straniere, ristoranti pieni in cui si entra solo suonando il campanello e ragazzi che studiano in università americane. Cinesi e medio orientali sono tra le comunità straniere più visibili e con affari ben avviate. La movida, in alcuni angoli della città non si ferma anche se in effetti, di turisti in giro non ne vedo.

“Nei quartieri poveri la rapina per strada è all’ordine del giorno, mentre nei quartieri ricchi va più il sequestro express. Spesso poi, è la stessa polizia che è coinvolta. A me hanno rubato due auto, a mio figlio, per prendergliela hanno spaccato letteralmente la testa.”

Istintivamente, tiro giù la sicura della portiera e controllo che il finestrino sia alzato. Le strade ricominciano ad essere paesaggi muti anche se in movimento.

“Funziona così. Passano con un furgoncino e rapiscono anche 4, 5 persone alla volta. Se le trovano in certe strade, presumono che abitino lì e quindi che siano ricche. Poi col cellulare chiamano la famiglia e chiedono un riscatto. Se pagano sono libere, il più delle volte.”

Non è mai stata una città sicura con i suoi oltre 2000 omicidi l’anno. La paura mi destabilizza. La paura si propaga come un’elettricità negativa. Faccio mia la crescente insicurezza di Soliria, di Ana, di Eduard, di Alejandro. Faccio mia la precarietà che ormai ha contagiato ogni gesto della loro vita quotidiana.

“Una volta, c’era un cinema all’aperto. Ci andavo con le mie amiche con il cesto del pic nic, il vino e i bicchieri. Ci divertivamo un mondo e perdevamo regolarmente l’inizio del film da quanto ridevamo. Non avevo paura, anche se era lontano da casa.”

“Mi do tempo fino al referendum. Se non passa, me ne vengo in Italia.”

Ana, Soliria, Eduard, Alejandro. Mi hanno raccontato la loro Caracas, mi hanno prestato i loro occhi. Sono uomini e donne che hanno studiato e viaggiato, che hanno un bel lavoro nel sociale, che appartenevano alla classe media. Che alla prima tornata hanno votato Chavez, non però alla seconda. Che ora contano gli anni del chavismo e del post chavismo come una condanna, come una gabbia. Che ce l’hanno coi cubani a cui è riservato, negli affari, un trattamento di favore. Quei cubani che sono stati accolti e aiutati quando avevano bisogno e che ora sostengono il governo nella retorica del todo bien, incuranti delle conseguenze sulla gente comune. Che non credono più nel sussidio agli acquisti, ai dottori di quartiere, agli slogan e alla retorica patriottica. Ana, Soliria, Eduard, Alejandro non guardano più al loro paese come un posto in cui vivere.

Prima del decollo, guardo fuori. Piove.

Penso di essere fortunata ad essere solo di passaggio. Perché l’assenza di speranza, oggi, uccide più della fame.

 

 

 

 

 

 

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