Mourn. Resist. Organize. Onwards.

Mercoledì 9 novembre. Fedele al più consunto dei cliché letterari apro gli occhi e il primo flusso di pensiero, rigurgito istintivo, non razionale, si presenta come lo strascico di un brutto sogno. Ma non lo è stato.

 

Testo e foto di Luca Andrea Musso
schermata-2016-11-20-alle-00-34-16E’ successo. Donald Trump sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.
President-elect. Un’espressione che suona quasi incongrua riferita al personaggio.
Indicibile. Ieri sera al Row House, seduti in tanti ai tavolini circondati da tre maxischermi, seguivamo la diretta. I primi risultati, i seggi della west-coast ancora aperti, e su ogni tavolo una cartina in cui colorare gli Stati di rosso o di blu. Applausi o boo, a seconda dei definitivi di ogni Stato. L’atmosfera a poco a poco si è fatta pesante, nessuno aveva più voglia di scherzare. Quando usciamo dal locale non c’è ancora nulla di definitivo, ma lo sconforto si fa strada. Poi a casa la diretta su MSNBC, l’impossibile diventa possibile e intorno alle 2.30 Clinton fa la telefonata con cui riconosce la sconfitta. E’ successo.

Non che l’altro possibile esito, quello che tutti si aspettavano, fosse esaltante. Come mi ha detto uno che ha votato Trump, uno lucido, informato e per nulla stupido, “it’s a lose-lose”.

Si perde in ogni caso. E si è spinto oltre: “if he wins he’ll get assassinated, if she wins she’ll get impeached”. Se vince lui lo fanno fuori, se vince lei va in galera. Scenari forti, probabilmente non del tutto equilibrati, ma danno l’idea dell’aria che si è respirata da queste parti. In un paese che, forse per la prima volta, si vergogna della situazione in cui si trova. Per lo meno in città, a New York, che come si sa non è l’America (i voti per Clinton a manhattan sono stati 515mila, per Trump 59mila!). Qui Cathy, che ha votato Trump, lo ha fatto perché “between a criminal and a crazy I choose the crazy”. Nelle pianure degli Stati centrali la pancia dell’America lo avrà votato con ben altro trasporto. Ma quel che conta alla fine è che ha vinto. President-elect.

schermata-2016-11-20-alle-00-34-37Mi alzo, una colazione deliziosamente malsana e poi fuori per le strade di Harlem fino alla prima stazione del metro. Il tempo mi consegna il secondo cliché della giornata, una metafora: chissà perché proprio stamattina, dopo giorni e giorni di tiepida Indian summer, vento freddo e pioggia annunciano l’autunno vero. Oggi niente foto, niente domande, nessun punto caldo della città in cui andare ad annusare l’aria. Oggi è il Whitney Museum, quello nuovo, quello di Renzo Piano. Devo farlo perché chi mi accompagna è stufa di foto e domande. Ma dopo un po’ mi convinco che in realtà va bene così. Uno stacco andava fatto. Oggi è l’arte. La bellezza. Consolatoria e nutriente.
Dopo qualche ora passata tra le geometrie colorate di Carmen Herrera e le installazioni tecno-visive di Dreamlands: immersive cinema and art, me ne vado con The subway negli occhi. È un quadro bellissimo del 1950 di George Tooker che a me, in questo momento, sembra esprimere tutta l’inquietudine sospesa di questa città per ciò che è appena successo. E per un futuro parecchio cupo che sembra avanzare, non solo per gli americani. Ieri, davanti a un seggio sulla Frederick Douglass, vedendoci far
domande a chi usciva dal seggio, un turista spagnolo ha detto: “Il presidente degli Stati Uniti dovremmo votarlo tutti”. Nella sua pacata assurdità credo abbia detto il giusto, se non altro perché ha sintetizzato in poche parole l’ansia procurata da un (dis)ordine mondiale che non si fa decifrare facilmente.+

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Al Whitney Museum ci arrivi anche passeggiando sulla High Line, uno splendido percorso sopraelevato ricavato da una vecchia linea ferroviaria. Sotto un ponte poco prima del museo ci si imbatte, da qualche settimana, in un’enorme pagina battuta a macchina; è una riflessione-sfogo-manifesto (*) del 1992 che Zoe Leonard, artista newyorkese, aveva scritto in occasione delle elezioni in cui Clinton (marito) sfidava Bush (padre). La loro attualità dopo quasi venticinque anni e la tensione di impegno civile che trasmettono mi lascia di sasso.
La sera, The Nation anticipa via mail la sua prossima copertina: Mourn. Resist. Organize. Onwards. Piangi (il pianto del dolore, del lutto, ndr). Resisti. Organizza. E si va avanti. Su fondo nero (che richiama alla mia mente quella del The New Yorker, tragicamente splendida, disegnata da Art Spiegelmann all’indomani delle torri: tre tonalità di nero e null’altro, un capolavoro di grafica) lancia le parole d’ordine alla sinistra americana.

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Più tardi l’Apollo Theater. Naturalmente ci respiri la storia del jazz. Stasera però come tutti i mercoledì c’è l’Amateur Night, una specie di talent-show dove i concorrenti si esibiscono uno dopo l’altro applauditi o fischiati dal pubblico.
L’energia del conduttore esorta con una risata trascinante a votare senza timidezza il talento preferito, perché qui “il voto conta qualcosa”. Boato del pubblico. Due giorni dopo sono in giro in bicicletta. Lungo l’Hudson un signore di Dallas dal volto simpatico, capelli grigi a formare una coda elegante e giacca di velluto chiara, manifesta pacatamente il suo disappunto e la sua preoccupazione per il risultato elettorale.

Più avanti, un gruppetto di tardoadolescenti- quasi-ragazzi locali, biondi, super-vitaminizzati e strafottenti mi apostrofa inneggiando a Trump. Son già sfilati via quando capisco il perché: sul telaio della bicicletta che mi ha prestato Elise sono appiccicati gli adesivi della campagna di Bernie Sanders.

Sabato 12 decido di andare a vedere cosa succede davanti a casa di Trump. E’ tutto blindatissimo, lo spazio aereo sopra la Trump Tower dichiarato area chiusa per la sicurezza nazionale. Davanti all’entrata i poliziotti anche in assetto di guerra, auto dei servizi ferme coi lampeggianti.

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Da questo punto di vista l’America non delude mai: da quando sei bambino la vedi nei film e quando ci vai scopri che è proprio così. Non una virgola in meno.
Una signora afroamericana manifesta da sola con un bambino e un cartello alzato. I turisti e i passanti sfilano davanti all’edificio ormai totalmente “selfizzato”, tenuti a distanza dalle transenne.
Penso che se deve succedere qualcosa di serio succede più giù, mi infilo in metrò per Union Square, e dalla 14ma comincio a vedere persone che sfilano e cartelli. Mourn. Resist. Organize. Allungo il passo e mi tuffo nella protesta.
Sono ordinati, ma si capisce che sono in tanti. Quanti davvero lo capisco solo quando svoltiamo nella 5th Avenue: è un fiume che scorre deciso e inarrestabile, cartelli alzati e slogan all’ unisono. #notmypresident. Quando la strada si alza un poco la vista è impressionante e capisci che questa volta si sono toccate delle corde importanti.

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Non lo vogliono Trump e queste persone, generalmente così attente al rispetto formale delle regole, anche quando ti danno contro, questa volta si ribellano: elezioni regolari, sì, ma non lo vogliamo lo stesso. Si arriva davanti alla Trump Tower e il lì il fiume diventa un groppo di protesta fermo e compatto. Il New York Times, il giorno dopo, titola: “I manifestanti portano il messaggio anti-Trump sulla sua porta di casa” e la definisce come una delle più grandi manifestazioni dal giorno delle elezioni. Da qui al 20 gennaio la strada è lunga. A me sembra impossibile azzardare qualsiasi previsione. Mourn Resist. Organize.
Onwards.

 

(*) Voglio una lesbica come presidente. Voglio uno con l’aids come presidente e voglio un frocio

come vice-presidente e voglio qualcuno senza assicurazione per le malattie e voglio qualcuno

cresciuto in un posto dove la terra è così zeppa di rifiuti tossici che non ha avuto scampo dalla

leucemia. Voglio un presidente che abbia abortito a sedici anni e voglio un candidato che non sia il

minore tra due mali e voglio un presidente a cui l’aids ha portato via l’ultimo amore e che rivede

ancora tutto questo ogni volta che si stende a riposare, che abbia tenuto il suo amore tra le braccia

sapendo che stava morendo. Voglio un presidente senza aria condizionata, un presidente che

abbia fatto la fila in clinica, alla motorizzazione, all’assistenza sociale, e che sia stato disoccupato

e licenziato e molestato sessualmente e attaccato perché gay ed espulso. Voglio qualcuno che ha

passato una notte tra le tombe e a cui abbiano bruciato una croce in giardino e che sia

sopravvissuto a uno stupro. Voglio qualcuno che è stato innamorato e poi ferito, che rispetta i

sessi, che abbia fatto errori e ne abbia tratto una lezione. Voglio una donna Nera come presidente.

Voglio qualcuno che ha i denti guasti e se la tira, qualcuno che ha mangiato quello schifo di cibo

all’ospedale, qualcuno che si traveste e si è drogato ed è stato in terapia. Voglio qualcuno che ha

disobbedito. E voglio sapere perché tutto questo non è possibile. Voglio sapere perché a un certo

punto abbiamo cominciato a credere che un presidente è sempre un buffone: sempre il cliente e

mai la puttana. Sempre capo e mai lavoratore, sempre bugiardo, sempre ladro e mai beccato.

 

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