Prima della guerra

Reportage dal campo profughi di Rekhanye, Libano, dove vivono 1300 siriani scappati dal conflitto. Che rischiano di dover scappare ancora

di Sabrina Duarte, dal campo profughi Rekhanye, Libano

Akkar. Siamo a 30km a nord di Tripoli, un gruppo di persone si è riunito nel ghiaioso spiazzale di un campo profughi, di fronte a circa 300 tende per festeggiare. Ballano, seguono il ritmo del battito delle loro mani, mentre i bambini giocano e cantano intorno a loro.

Sono i siriani di Rekhanye, felici perché lo sgombero dell’area è stato rinviato di una settimana. Non c’è granché da festeggiare dal nostro punto di vista, ma a loro sembra sufficiente soprattutto perché, almeno per ora, possono allontanare dalle loro menti la paura di dover trascorrere la notte all’aperto, chissà dove.

E allora quella danza, quel battito di mani diventano catartici, i muscoli si sciolgono, le tensioni si allentano. Lo stomaco di Haadiya si rilassa e il bruciore diminuisce: «Mi succede sempre così quando ho paura» racconta. «I dolori sono cominciati in Siria. Quando sentivo lo scoppio delle bombe sopra la mia testa, sempre più vicine, sempre più di frequente il mio corpo si piegava perché lo stomaco si infiammava e non riuscivo a respirare».
Haadiya ora sorride, mi invita nella sua tenda e mi presenta suo marito. In Siria era un avvocato, ora lavora nei campi: “Ma ha la schiena a pezzi, non aveva mai preso una zappa in mano prima” Altre persone si presentano «Cosa faremo e dove andremo se dovesse succedere?» si interrogano con uno sguardo scoraggiato.

Nel campo profughi di Rekhanye vivono circa 1300 siriani, di cui l’80% sono donne e bambini.

Il 10 novembre, una persona che si è dichiarata essere portavoce dell’esercito libanese ha fatto sapere alle famiglie di avere circa 15 giorni di tempo per andare via o sarebbero intervenuti personalmente. Nessuna motivazione ufficiale, nessun piano di ricollocamento. Il dramma dei siriani continua. Fuggiti dalla guerra, dopo anni sono riusciti a ricostruirsi una vita che sfiora appena il livello della sopravvivenza, in condizioni precarie difficili, ed ora si ritrovano a fronteggiare il rischio di perdere anche quel poco che hanno.

La maggior parte delle famiglie presenti nel campo non ha un’entrata economica fissa e il numero degli orfani e delle vedove è molto alto.

Haifa, che si è offerta di ospitarci nella sua tenda per la notte, non ha più notizie del marito da oltre 4 anni; da quel giorno in cui fu arrestato senza motivo ad un posto di blocco e rinchiuso in carcere. Ha perso anche il figlio maggiore, ucciso dai bombardamenti. Una rievocazione drammatica e dolorosa la sua; è impossibile per lei trattenere le lacrime mentre ci mostra la foto dei suoi cari che non ci sono più.

Ma quello di Rekhanye è solo l’ultimo di molti campi che l’esercito sta tentando di sgomberare.

Nelle ultime due settimane l’ordine ha raggiunto altri 14 campi profughi informali nella zona di Minieh; 1840 persone hanno abbandonato volontariamente le loro tende per paura di dover affrontare la minaccia diretta dell’esercito ed essere arrestati, e si sono autonomamente ricollocati in altri campi o in rifugi di fortuna. Rabbia e domande che restano senza risposte ufficiali: Perché lo stanno facendo? Per i volontari presenti sul posto dell’associazione italiana Operazione Colomba l’esercito vuole ridimensionare i campi profughi. L’ingresso di quasi 2milioni di siriani ha reso il Libano il paese con il più alto numero di rifugiati al mondo rispetto alla sua popolazione, e questo dato si trasforma quotidianamente in tensioni e agitazioni fra le due comunità. Ma dietro la questione si nasconde un’altra verità che pesa molto di più.

In Libano se dici “campo” pensi ai palestinesi, a quei profughi che dal 1948 e a più riprese sono giunti dalla Palestina, dalla Giordania, dal Kuwait e dall’Iraq. Se dici “campo” per i Libanesi, semplici cittadini o politici pensi ai problemi, a quegli affollati agglomerati che sorgono ai margini delle principali città.

Un’immagine che oggi torna a riproporsi davanti ai loro occhi. L’idea che i siriani possano passare da una condizione “temporanea” ad una condizione “definitiva” pesa come un macigno.
Le soluzioni proposte dal governo per risolvere la situazione non si sono rivelate efficienti. Il documento noto con il nome di October Policy introdotto nel 2014 con l’obiettivo di limitare l’entrata nel paese dei siriani o spingerli ad andarsene è stato un fallimento. L’azione dell’esercito che sta tentando lo sgombero dei campi, determina solo il riversamento dei profughi per le strade delle città. Altri disagi, altri problemi. Politiche aggressive, limitazioni o sbarramenti non possono fermare la disperazione di famiglie che fuggono da una guerra, che hanno paura e vogliono un futuro per i propri figli.
È notte al campo di Rekhanye. Nella tenda di Fadi si continua a chiacchierare. Lui, seduto accanto a me, mi mostra le foto che ha sul cellulare: Le sue figlie, che sono riuscite ad arrivare in Italia o in Canada, i suoi nipoti. E poi la foto di un uomo, il volto pieno e sorridente, lo sguardo sereno: è difficile credergli mentre mi dice: «Sono io prima della guerra».