È il 5 dicembre

Il No ha raccolto molti, molti più voti del Sì. Cosa succede adesso? Ho un appuntamento dal meccanico.

di Angelo Miotto
@angelomiotto

Alle 8.30 di stamattina ho un appuntamento dal meccanico, perché devo cambiare le gomme, con quelle da neve. È obbligatorio in certe regioni, anche se hai le catene a bordo, ma le catene a bordo non ce le ho più da diverso tempo. Credo. Perché io, e sicuramente sono minoranza nel Paese, non ho una gran cura di quello che c’è nel mio bagagliaio.

Dopo devo scapicollarmi in ufficio e saltare su tre linee metropolitane, qui a Milano, che a quell’ora saranno scatole da sardine e sudori assicurati, botte di zaini che si muovono pericolosi, vapori che si disperdono solo quando sbufano le porte per fare faticosamente uscire, per fare faticosamente entrare. Le figlie sono a casa, perché ieri si è votato il referendum, quindi le scuole erano seggi, quindi oggi devono smontare.

La strada che dal meccanico porta alla fermata della metropolitana tre sarà come ogni lunedì, come ogni giorno, la stessa lingua di grigio asfalto costellata da macchine parcheggiate sul marcipaiedi, qualche cartaccia a zonzo, mentre gli alberi sono quasi pelati ormai e le foglie in terra ad aspettare quegli uomini con gli enormi tubi che rumorosamente spostano le foglie soffiando aria verso punti di raccolta in attesa della nettezza urbana e speriamo che non piova. Ho due riunioni e tre lavori in consegna perché il natale si avvicina e poi c’è la grande amnesia, fino alla prima settimana di gennaio, quando si torna fra i banchi di ufficio. Ho dieci pensieri che mi corrono veloci in testa, tutti e dieci contemporaneamente, perché devo ricordarmi cosa pagare, cosa prenotare, cosa prelvare, come organizzare le attività ricreative e quando andare alle feste scolastiche e a conoscere i nuovi professori delle medie.

È il 5 dicembre e ieri ha stravinto il NO, Renzi annuncia dimissioni. Ma gli appuntamenti di oggi, 5 dicembre, non cambiano. Meccanico, lavoro, famiglia, magari un cinema.

Questo rapporto di forza, questo Kratos, è su di un aspetto che colpisce, in tutta questa vicenda che da mesi, da troppi mesi, tiene banco e rallenta la vita quotidiana non di noi che andiamo dal meccanico a cambiare le gomme ma di un Paese: la partecipazione al voto. Che va a braccetto con la mia, la vostra, la nostra quotidianità.

Una partecipazione così alta, 67.7%, non è ascrivibile a ordini di partito. E io l’ho visto nel mio microcosmo di seggio, quando inaspettatamente ho salutato persone che non vedevo votare da un po’ e che ritrovavo lì a votare su un quesito ‘astuto’ nella formulazione, ben più complesso nella sua sostanza e nella sua comprensione per chi non mastica termini e regole costituzionali. Poi, per carità, si semplifica tutto, ma fino a che punto ce lo dice gran parte della campagna elettorale, del Sì e del NO, che non hanno fatto certo una bella figura. Anzi (e l’unico distinguo sta nel dire che una era campagna assecondata dal Governo, quindi con qualche responsabilità in più; pare ovvio ricordarlo). Insomma son tutti andati spinti dall’amore per la Costituzione?

Una partecipazione così forte, e un voto così netto; il discorso del presidente del consiglio Matteo Renzi ieri, con le dimissioni annunciate, visto fra uno streaming sul web e un orecchio alla radio (con il delay era difficile, ma non impossibile). Bel discorso, un po’ di retorica sui successi, ma si concede a chi ammette la sconfitta e trae le conseguenze, l’accenno familiare, il groppo in gola che si sente, ma non esplode, l’augurio a chi verrà (mah, io devo dire che ho ancora stampata negli occhi la faccia di Enrico Letta al passaggio della campanella, #staisereno, accoltellato alle spalle da questo uomo che a mezzanotte e passa pare un agnellino sacrificale e quasi commuove anche il più feroce dei suoi detrattori. Ho detto quasi.). Bel discorso, umano, ma che fatica dimenticare oggi, 5 dicembre, i mesi che sono passati con un pelbiscito che è stato indetto da Renzi stesso quando ancora non ce ne era bisogno, aumentando a dismisura la posta in gioco, personalizzando la faccenda, insomma vestendosi da il nuovo che avanza contro il populismo alle porte.

Il rapporto di forza oggi si gioca lì, fra i miei e i vostri impegni e la Costituzione formale che rimane, per ora, com’è. Fino a una prossima possibile riforma, che è sempre possibile, si badi.

Anche se ci hanno spiegato, alla fine, che non si votava su quello. Adesso si apre la fase del Quirinale, degli incarichi, delle delegazioni e dei passi della diplomazia delle Aule. E qui saremo esattamente nella stessa palude che si diceva si volesse evitare con questo referendum, ma che, se anche avessero prevalso i Sì, sarebbe rimasta tranquillamente al suo posto.

Non siamo ingenui, qui si è giocato uno scontro sul potere. Uno scontro forte, quasi un azzardo. Visibile, ma spesso reso più attrattivo dalla comprensibile voglia di molti milioni di italiani, che hanno detto di Sì, di abbracciare la via del famoso ‘scatto’ in avanti. Dove la comprensibile ansia di abbattere l’immobilismo che colpisce spesso questo Paese premiava una riforma come quella prospettata, che a rigor di logica prometteva, non assicurava, quel tipo di scatto. Un simbolo, insomma. Lo iato fra le dichiarazioni dei potenti, i valori che vengono enunciati e la quotidianità che viviamo nei paesini, nelle periferie e nelle città divarica senza sosta. I grandi giornali ci faranno sentire tutto l’essere umano e la sua sconfitta, poi la fredda ridda di ipotesi su personalità, maggioranze, scenari e retroscena.

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fonte: repubblica.it

Ma alla fine resta una domanda fra queste regole che non sono cambiate e le persone che se ne vanno, per senso di responsabilità.
Siamo così sicuri che fossero le regole a non funzionare, solo le regole?
Perché caricare sulle spalle del cittadino un voto che ha assunto, alla fine e la partecipazione ci dice che può essere plausibile, il significato di un voto politico, ma non sull’arco parlamentare da scegliere, quanto sul candidato alla premiership? Perché caricare su questo voto le sorti del Paese dei prossimi trent’anni? Perché indicare nelle regole, e non nelle persone, il problema?

Sulla metropolitana la gente gioca con il suo smartphone, hanno quasi tutti le cuffie all orecchie e si alzano come pistoni dalle panchine del vagone al momento di uscire, fermata dopo fermata, mentre un fiume entra e si dispone con qualche microurto. Saremo quanti su questo vagone? Sul treno sotterraneo? Qualche centinaia? Siamo la massa che va in università e dal gommista, in ospedale e a ritirare la pensione, in banca e dal fruttivendolo, in ufficio e in caserma, in carcere e al mercato del lunedì.

È il 5 dicembre e tutto pare andare come ieri, anzi no, i mercati vediamo come reagiscono i mercati, che a ben vedere con questa gente che ho sulla metro non è che siano proprio direttamente collegati.

È una questione di rimpianti, alla fine: per aver letto e sentito chi vince e chi perde – che orribile lessico da gara – per aver assistitito a un plebiscito personalistico, quando in oggetto c’erano norme della Carta, per la mefitica campagna – sui social davvero pessima – per le strumentalizzazioni, le pressioni della finanza internazionale, per le conseguenze che ha portato con sé, per i profeti di sventura che oggi si sentono legittimati a gracchiare. Per i leader politici impresentabili che oggi vogliono parlare di vittoria e già chiedono governo o elezioni. Non hanno capito il risultato, evidentemente, ma lo usano.

Il voto, per ora, è l’unica cosa che abbiamo per esprimere un parere, oltre ai nostri corpi ovviamente. Il 68,4% ha espresso quel voto, le riduzioni e gli incasellamenti che si faranno nelle prossime ore saranno comunque riduttivi di ragioni personali che dicono di un interesse a pronunciarsi. E, in molti casi, di avere una rappresentanza vera rispetto a un insieme di principi e valori che reggono una comunità. Che siano comunicati al netto del campagnismo elettorale, che siano discussi prima di essere messi sul piatto in una scelta binaria che crea solo frattura.

È il 5 dicembre e Renzi si è dimesso, ma non per questo arriveranno i barbari.

Possiamo chiudere ribadendo le parole di Clara Capelli ed Eugenio Caverzasi, nell’articolo di ieri, a urne ancora aperte. Scrivevano così:

Possiamo riconoscere, comunque si voti, che il No più importante è quello che dovremo dire a partire dal 5 dicembre, rifiutando ogni giorno un modello che da troppo tempo disattende le sue promesse. E non per colpa dell’assetto costituzionale corrente, ma perché intrinsecamente inefficace e ingiusto.

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